La morte di un uomo scomodo, Milosevic
Dopo il crollo del muro di Berlino e il dissolvimento dell'Unione Sovietica, le varie Repubbliche jugoslave (Croazia Slovenia, Bosnia, Macedonia, Serbia, Montenegro) che il maresciallo Tito e i suoi successori erano riusciti, col pugno di ferro comunista, a tenere miracolosamente insieme in uno Stato federale, entrarono in fermento. Soprattutto la Slovenia e la Croazia reclamavano la propria indipendenza da uno Stato jugoslavo in cui non si riconoscevano più.I loro ardori secessionisti erano però moderati dagli americani che, soprattutto nelle persone dell'ambasciatore a Belgrado, Warren Zimmermann, del sottosegretario del Dipartimento di Stato, Lawrence Eagleburger, e del consigliere nazionale alla Sicurezza, Bren Scowcroft (dietro i quali c'era Henry Kissinger), volevano che la Jugoslavia rimanesse unita perché puntavano su Ante Markovic che era allora il primo ministro federale e che si era impegnato per una riforma dello Stato in senso democratico e liberista.
Ma alcuni paesi europei, in particolare l'Austria e la Germania che vi avevano interessi economici e vecchi, anche se inconfessabili, conti da regolare con la Serbia, che della Jugoslavia, prima monarchica e poi federale e comunista era stata, dopo il crollo dell'Impero asburgico, la fondatrice e il dominus (si deve alla straordinaria resistenza dei serbi alle armate naziste nella seconda guerra mondiale se Hitler dovette ritardara l'attacco all'Unione Sovietica di quelle tre settimane che gli furono fatali perché le truppe tedesche si trovarono ad affrontare, prima del previsto, il «generale inverno» che già aveva sconfitto Napoleone), e il Vaticano, da sempre antipatizzante della Serbia ortodossa a favore della cattolicissima Croazia, lavoravano per la dissoluzione della Jugoslavia.
Il 26 giugno del 1991 Croazia e Slovenia misero la Jugoslavia federale e il mondo di fronte al fatto compiuto dichiarando la propria indipendenza. La reazione di Belgrado fu debolissima. Con la Slovenia non ci fu alcuno scontro.I reparti della difesa territoriale slovena cacciarono i doganieri federali dal confine italo-jugoslavo e rimossero i contrassegni dal confine della Jugoslavia. E la cosa si concluse così. Fra croati ed esercito federale jugoslavo ci furono alcuni scontri ma ad agosto era già tutto finito. A compensazione i serbi di Croazia occuparono, con l'aiuto dell'esercito federale, le cosiddette «krajne», cioè i territori croati dove erano in maggioranza, e dichiararono di non voler aver niente a che fare con il nuovo Stato.
La comunità internazionale si affrettò a riconoscere l'indipendenza di Slovenia e Croazia, che del resto era sacrosanta in base al diritto all'autodeterminazione dei popoli sancito ad Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo anche se disatteso in tante altre occasioni (si pensi solo ai ceceni, ai curdi, ai palestinesi, ai Karen, al Tibet). Però chi aveva favorito questa soluzione non poteva non sapere che l'indipendenza di Croazia e Slovenia apriva immediatamente la questione della Bosnia. Infatti una Bosnia multietnica a guida musulmana aveva senso solo all'interno di una Jugoslavia multietnica, che ora non ci stava più. I serbi di Bosnia chiesero quindi di poter proclamare a loro volta la propria indipendenza o di riunirsi alla madrepatria di Belgrado. Ma a quello che la comunità internazionale aveva così facilmente accordato agli sloveni e ai croati rifiutò ai serbi. Si voleva tenere in piedi uno Stato, la Bosnia, che, come tale, non era mai esistito. Si era violato, in nome del diritto all'autodeterminazione dei popoli, il principio dell'intangibilità dei confini di uno Stato sovrano, riconosciuto dall'Onu, ma non si accettava che la stessa sorte toccasse a confini puramente amministrativi di una Regione che non era mai stata uno Stato autonomo. Ma si andò ancora oltre. Nell'aprile del 1992 Serbia e Montenegro annunciarono che, vista la secessione di Croazia e Slovenia e la dissoluzione della vecchia Jugoslavia, si erano costituite in un nuovo Stato denominato Repubblica federale di Jugoslavia. Ma, sulle prime, la comunità internazionale non volle riconoscerlo. «La situazione era veramente paradossale» scrive Alessandro Perich in «Origine e fine della Jugoslavia» «in quanto i due Stati, la Serbia e il Montenegro, che godevano la sovranità e il riconoscimento internazionale ancora dal Congresso di Berlino del 1878, erano ora eliminati, mentre il riconoscimento fu accordato a Stati che non erano mai esistiti nella storia dei tempi moderni».
Poiché a loro era stato negato ciò che era stato riconosciuto agli sloveni e ai croati, i serbi di Bosnia scesero in guerra. E nel giro di un anno e mezzo conquistarono con durissime e sanguinose battaglie, quasi tutta la Bosnia. Solo la capitale, Sarajevo, sottoposta a un lunghissimo assedio, resisteva. Il successo dei serbi era dovuto alla loro valentia guerriera (chi conosce i campi di battaglia afferma che, sul terreno, sono i migliori e i più coraggiosi combattenti del mondo) e al fatto di avere alle spalle la madrepatria di Belgrado (guidata allora da Milosevic), mentre i musulmani bosniaci erano privi di retroterra, anche se ricevevano armi, aiuti, finanziamenti dall'Iran e potevano contare sull'arrivo di migliaia di mujaheddin.
Tutta la comunità occidentale (i governi, i media, gli intellettuali), erano schierati contro i serbo-bosniaci e contro Belgrado. Perché la Serbia di Milosevic era rimasta l'unico e ultimo Paese comunista d'Europa. E chi conosce un poco la storia degli ultimi decenni sa che mentre fino al 1989 per l'intellighentia europea bastava essere comunisti per stare automaticamente dalla parte della ragione, oggi basta essere comunisti per passare, in epoca di americanismo imperante, altrettanto automaticamente dalla parte del torto.
Si cercava quindi, in Occidente, un pretesto qualsiasi per intervenire con le armi e sottrarre ai serbi una vittoria che si erano conquistata col sacrosanto verdetto del campo di battaglia. Il commissario europeo Emma Bonino saltellava da una Tv all'altra del Vecchio Continente gridando agli «stupri etnici» (c'erano stupri in Bosnia, come in ogni guerra, perpetrati dalle soldataglie, sia serbe che musulmane, cosa già grave in sè, ma non erano affatto «etnici»).
L'occasione fu trovata con la strage nel mercato di Markale, nel cuore di Sarajevo, dove una granata uccise 68 persone. I serbi sostennero che la granata l'avevano lanciata i musulmani bosniaci per sollevare l'indignazione internazionale. Del resto giorni prima quattro granate avevano colpito a Sarajevo, il quartiere operaio di Alipasino causando la morte di sei ragazzi che stavano giocando in slittino sulla neve. E quelle granate non potevano essere che musulmane perché caddero a meno di un chilometro dalle linee serbe.In ogni caso per la strage di Markale i serbi chiesero che fosse costituita una commissione internazionale che accertasse la provenienza di quei proiettili. La commissione non fu mai formata. Ma i tecnici balistici dell'Unprofor, la forza dei «caschi blu» dell'Onu presente a Sarajevo per gli aiuti umanitari, dichiararono che non erano in grado di stabilire da dove fossero giunti i proiettili e chi li avesse sparati.
Non importa, l'eccidio fu comunque attribuito, a priori, ai serbi. Ci fu l'«effetto Cnn», che aveva fatto vedere i corpi martoriati e che sollevò l'indignazione del mondo intero (come se tali «effetti collaterali», a prescindere dalle responsabilità, non fossero la norma in guerra: nel primo conflitto del Golfo le «bombe intelligenti» e i «missili chirurgici» degli americani uccisero 160 mila civili, fra cui 32.195 bambini e 5500 ne avrebbero uccisi nella successiva guerra per il Kosovo e 7000 in Afghanistan, per non parlare di quelli, per ora incalcolabili, in Iraq).
Ci fu una riunione a New York, in ambito Onu, dei rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia per decidere il da farsi. Madaleine Albright ottenne che il segretario generale dell'Onu, Butros Ghali, spedisse una lettera al segretario dell'Alleanza Atlantica, Manfred Worner, perché lanciasse un ultimatum ai Serbi: o lasciavano l'assedio di Sarajevo o la Nato avrebbe bombardato le loro postazioni di artiglieria.
L'ultimatum, nelle intenzioni degli americani, doveva essere opera della Nato e non dell'Onu per rafforzare il ruolo dell'Alleanza atlantica nei Balcani ai danni delle Nazioni Unite. Era il primo passo di quella politica di completa esautorazione dell'Onu che gli Stati Uniti avebbero poi proseguito con l'aggressione alla Jugoslavia e, in seguito, all'Iraq.
«Per la prima volta gli occidentali oltrepassavano il confine fra «peacekeeping» e «peacemaking» nota lo storico triestino Joze Prievec in un libro, «Le guerre jugoslave», pur tutto orientato in favore dei croati e contro i serbi. L'intervento della Nato, che avrebbe dovuto limitarsi al «salvataggio» di Sarajevo, divenne in poco tempo una guerra contro i serbi a fianco dei musulmani. Il presidente croato Tudjman, ex comunista diventato acceso nazionalista e ritornato ad essere quello che era sempre stato, un fascista, ne approfittò per riconquistare ciò che i serbi, all'epoca della dichiarazione di indipendenza, gli avevano tolto. Il primo maggio del 1995, con un'operazione chiamata «Fulmine», si riprese in trenta ore 500 chilometri quadrati. Nell'impossibilità delle forze serbe, impegnate contro americani e musulmani, di intervenire le truppe croate infierirono contro la popolazione civile serba con «atrocità inaudite» secondo la testimonianza dei «caschi blu» dell'Onu che assistettero passivamente a quanto accadeva (strappare gli occhi ai serbi o tagliar loro i testicoli era un vero divertimento). Diecimila serbi furono costretti alla fuga verso la «Krajna», la Bosnia, la Serbia.
Ma il suo capolavoro Tudjman lo compì il 4 agosto dello stesso anno quando le truppe croate attaccarono la «Krajna» costringendo alla fuga precipitosa, su trattori, carri agricoli, camion, automobili, 800 mila serbi. «Si trattò dell'esodo più massiccio verificatosi in Europa dopo la seconda guerra mondiale, ma anche del più rapido visto che si concluse nel giro di pochi giorni» annota Prievec. E Tudjman commentò sordidamente: «Sono fuggiti così in fretta persino da lasciar qua i loro sporchi soldi e le loro sporche mutande». È stata, di gran lunga, la più colossale «pulizia etnica» dei Balcani. Ma nessuno ha chiamato Tudjman a risponderne davanti a nessun Tribunale internazionale dell'Aja e il leader croato ha potuto morire tranquillamente nel proprio letto.
L'intervento della Nato aveva capovolto il verdetto del campo di battaglia: i vincitori erano diventati i vinti. Si arrivò quindi alla pace di Dayton, del novembre 1995. La Bosnia veniva riconosciuta ufficialmente come Stato in cui avrebbero dovuto convivere musulmani, croati e serbi. Uno stato fittizio, inesistente, tenuto insieme con lo sputo o, per meglio dire, dalla presenza delle forze della Nato e pronto a riesplodere, come una intollerabile forzatura, appena queste se ne saranno andate.
In questo accordo, che umiliava completamente le legittime aspirazioni dei serbo-bosniaci all'indipendenza, e la Serbia stessa, ebbe una parte di rilievo, come ultraragionevole mediatore, proprio Slobodan Milosevic che qualcuno propose come candidato al Premio Nobel per la Pace.
Ma non bastava ancora. La Serbia «comunista» doveva essere tolta definitivamente di mezzo. Dalla metà del 1998 la Serbia era alle prese con un grave problema interno: l'indipendentismo kosovaro, finanziato e armato dagli Stati Uniti. In un anno e mezzo di guerra di guerriglia in cui l'Uck, il braccio armato del movimento indipendentista faceva uso sistematico, come sempre avviene in ogni lotta partigiana, del terrorismo, le forze paramilitari serbe si erano rese responsabili, nel villaggio di Racak, dell'eccidio di 45 civili e sempre che tali fossero perché in una guerra di guerriglia, come si sa bene, ogni giorno, in Palestina, non è facile distinguere fra chi è combattente e chi non lo è.
Mi resi conto che gli americani avevano intenzione di aggredire la Serbia e di liquidare definitivamente Milosevic quando vidi che la Cnn, seguita poi da tutte le Tv occidentali, trasmetteva ogni giorno spezzoni di quella faccenda di Racak ma come se si riferissero a episodi sempre diversi, per cui sembrava che effettivamente in Kosovo fosse in atto un genocidio di albanesi. In realtà i civili uccisi dalle forze paramilitari serbe prima dell'intervento della Nato furono, in tutto, 205, divennero circa 2000, secondo gli accertamenti dei cinquecento ispettori dell'Onu mandati in loco alla fine della guerra, ma solo «dopo» l'intervento della Nato, quando fra gli albanesi che aspettavano i «liberatori» e i serbi, terrorizzati al pensiero di diventare una minoranza alla mercè dei nemici di sempre, si scatenò l'inferno.
Per risolvere la «questione Kosovo», che sembrava essere diventata la più importante dell'agenda internazionale (anche se Bill Clinton, per spiegare ai suoi connazionali cosa mai fosse il Kosovo, dovette ricorrere a una cartina geografica e mostrare con una bacchetta, come un maestro di scuola, dove mai questa misteriosa regione del mondo si trovasse), gli americani organizzarono, nel castello francese di Rambouilet, un summit con la partecipazione, oltre che di se medesimi, degli europei, dei rappresentanti dell'Uck e della Serbia. Le condizioni preliminari, dichiarate non negoziabili, imposte ai serbi erano al limite dell'incredibile, inaccettabili per qualsiasi Stato che volesse conservare non dico la sovranità ma un minimo di dignità: «Si trattava infatti di un vero e proprio diktat, che prevedeva l'occupazione del Kosovo da parte delle forze Nato, cui sarebbero stati garantiti l'immunità e l'accesso illimitato all'intero territorio jugoslavo, incluso lo spazio aereo e le acque territoriali.La Nato avrebbe avuto il diritto di usare, nell'espletamento della propria missione, tutti gli aeroporti, strade, ferrovie e ponti della Federazione jugoslava, senza controlli». Henry Kissinger, che pur è tutto fuorché una colomba, bollò questa bozza d'accordo come «un terribile documento diplomatico, una mera scusa per cominciare i bombardamenti». Che infatti iniziarono poco dopo da parte degli americani, con l'apporto di altri Paesi della Nato, fra cui l'Italia, guidata dal governo D'Alema, nel poco dignitoso ruolo del «basista» o del «palo», e durarono 72 giorni, uccidendo 5500 civili, una parte dei quali erano proprio quei kosovari albanesi che si voleva salvare.
L'aggressione alla Jugoslavia, o a quel che ne restava, avvenne contro la volontà dell'Onu, in spregio allo stesso statuto della Alleanza atlantica (che è un patto difensivo, mentre la Jugoslavia di Milosevic non minacciava nessun Paese Nato, anzi non minacciava Paese alcuno) e, soprattutto, violando il principio di diritto internazionale, fino ad allora mai messo in discussione, della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. Una nuova concezione del diritto internazionale che, subordinando la sovranità nazionale a principi «universali e superiori, quali la difesa dei «diritti umani», prelude a una spaccatura verticale all'interno dei Paesi occidentali, come dimostra anche, nel suo piccolo, la partecipazione di alcuni esponenti della Lega ai funerali di Milosevic.
Questo straordinario sconvolgimento del diritto internazionale e dello stesso Patto Atlantico fu spiegato così da Ivo Daler uno degli esponenti di spicco del Consiglio di sicurezza nazionale americano: «Quel che è minacciato dalla guerra nei Balcani non è tanto la potenziale stabilità o sicurezza dei Paesi della Nato, quanto la sua credibilità quale strumento principale nell'imporre le regole, le norme e i principali standard di condotta che garantiscono la sicurezza dell'Europa intera». E Madaleine Albright che condusse contro la Serbia una sua personalissima guerra perché, essendo di origine ebraica, vedeva in Milosevic un nuovo Hitler e un'occasione per non ripetere l'orrore che le democrazie occidentali avevano commesso a Monaco nel 1938 cedendo al diktat del Frher sui Sudeti, dichiarò a conflitto concluso: «La mia esperienza personale mi sembra quasi un simbolo del XX secolo. È la storia della lotta al totalitarismo... Penso che nel Kosovo sia stato raggiunto qualcosa di molto importante. Vi fu inviato un chiaro messaggio ai dittatori del mondo: delitti gravi contro l'umanità non rimangono impuniti». È l'anticipazione della dottrina della «guerra preventiva» e della missione etica dell'America di George W. Bush. Peccato che nel caso del Kosovo il diktat autoritario non venisse dal dittatore Milosevic, che non voleva i Sudeti ma solo difendere un territorio storicamente appartenente alla Serbia, ma proprio dalle democrazie occidentali, America in testa.
Le guerre contro la Jugoslavia, dalla Bosnia al Kosovo, sono state, oltre che inique, doppiamente coglione come ebbi a dire a Massimo D'Alema a «Ballarò» senza che il presidente dei Ds osasse replicare. Coglione in linea generale perché sono andate a favorire nei Balcani, contro la Serbia comunista sì ma cristiana e ortodossa, oltre che integralmente europea, proprio quella componente musulmana che oggi provoca tanti terrori e isterie Fallaci-style (e in Bosnia e in Kosovo Al Quaida ha piazzato molte delle sue basi). Coglione in particolare per l'Italia.Lasciamo pur perdere i legami storici che ci uniscono alla Serbia. Perché siamo stati alleati nella prima guerra mondiale, contro l'Impero austroungarico, perché i serbi di allora vedevano nell'unità d'Italia, da poco conquistata sotto l'egida monarchica, un modello per la Jugoslavia che sognavano di costituire, tanto che i nomi di Garibaldi, di Mazzini, di Cavour erano allora familiari alla «intellighentia» serba e a Belgrado si pubblicava un quotidiano intitolato «Piemonte», lasciamo pur perdere anche che con la Serbia, che in questi anni abbiamo combattuto per far da reggicoda agli americani, ai tedeschi e al Vaticano, non abbiamo mai avuto contenziosi nè dispute, mentre con la Croazia, che abbiamo invece favorito, gli attriti ci sono sempre stati e continuano a esserci perché la nostra minoranza in quel Paese è trattata con sufficienza se non con aperto disprezzo come nel caso di Tudjman.Il fatto sostanzioso, e attuale, è che la Jugoslavia di Milosevic, checché se ne sia gridato in contrario, era un fattore di stabilizzazione dei Balcani. Eliminato il «gendarme serbo» oggi in quell'area ci sono delle autentiche «terre di nessuno», in Kosovo, in Bosnia, in Macedonia, in Montenegro, in Albania, dove concrescono gigantesche organizzazioni criminali che riversano i loro affari innanzitutto sul Paese ricco più vicino. E qual è il Paese ricco più vicino? L'Italia.
In quanto al Kosovo, sotto gli occhi delle «forze internazionali di pace», cui anche noi diamo un consistente contributo, si è realizzata una colossale «pulizia etnica», ma all'incontrario: dei 300 mila serbi ne sono rimasti solo 60 mila. Al posto della temuta (da chi?) «Grande Serbia» c'è ora una «Grande Albania» che, persa l'innocenza di quando era un Paese di contadini e di pastori e divenuta paracapitalista è ora un Paese di mafiosi, di gangster, di banditi, di tagliagole e di poveracci. Non vedo il vantaggio.
Persa la guerra Slobodan Milosevic venne sconfitto alle elezioni che furono vinte dall'opposizione. Perché in quella Jugoslavia un'opposizione c'era e, sia pur con difficoltà, poteva esprimersi, sui giornali (feroci nel caricaturizzare Milosevic, la moglie, il figlio Marco e tutto il loro clan) e a teatro. Del resto Milosevic era un autocrate, non un dittatore.Nel dicembre del 1990 il suo partito aveva stravinto, del tutto regolarmente, le elezioni. E si era ripetuto, forse un po' meno regolarmente ma legalmente, cinque anni dopo. E c'è da notare che mentre nella Jugoslavia di Milosevic gli oppositori potevano circolare, in quella «democratica» il capo dell'opposizione è finito in galera.
È stato per iniziativa degli americani, mai sazi nella loro ansia di moralità e nella convinzione di rappresentare il bene.Dopo le elezioni chiesero al nuovo governo serbo-montenegrino la consegna di Milosevic per poterlo tradurre all'Aja e farlo processare per «crimini di guerra». Poiché il governo serbo recalcitrava lo ricattarono brutalmente: la Serbia consegnava Milosevic o non avrebbe avuto i fondi per ricostruire ciò che loro stessi, gli americani, con i bombardamenti, avevano distrutto.Per la verità questi quattrini avrebbe dovuto darli il Fondo monetario internazionale, che è un organismo dell'Onu non un feudo degli Stati Uniti, almeno formalmente. Ma tant'è. Milosevic fu consegnato e sbattuto in galera.Si è difeso con gli argomenti che emergono da questa ricostruzione delle «guerre slave» e con molti altri che aveva a sua disposizione perché gli era facile dimostrare che era solo il «capro espiatorio» di una vicenda che aveva molti responsabili e che fra questi c'erano anche quelli che pretendevano di giudicarlo.
Da un Tribunale normale Milosevic sarebbe stato assolto, ma questo era impensabile per un Tribunale speciale messo in piedi dai vincitori, perché li avrebbe sconfessati.La sua assoluzione era impossibile (le sentenze già scritte sono la conseguenza inevitabile e aberrante di questi processi politici, da quando, da Norimberga e Tokyio in poi, i vincitori non si accontentano più d'essere tali, ma si credono anche moralmente migliori dei vinti e in grado quindi di poterli giudicare), la sua condanna sarebbe stata un'infamia.Ecco perché la sua morte arriva al momento giusto.