La
sessualità della figlia
Se
l'amore non ha padroni
La
figlia rimane attaccata alla madre nell'unità mistica di Maria
Vergine il cui figlio sarà il frutto di un incesto
ideale, ma non di una libera scelta; l'identificazione
sessuale della figlia (là dove è presente) è scissa nella
figura di Maria
Maddalena, la meretrice.
L'imene
della figlia è l'ultimo lembo di placenta che la madre
fraintende e impone come proprio.
La
sessualità e l'amore sono i più grandi nemici del potere
matriarcale perché entrambi modi dell'imperativo biologico
che centrifuga i figli alla socializzazione secondaria degli
affetti, con conseguente distrazione dall'esclusiva funzione
di possesso dell'identità primaria.
Shakespeare
lo dice: non può resistere l'amore tra due giovani
nell'opposizione delle famiglie di mafia. Nel testo in
lingua originale della vicenda d’amore più famosa del
mondo, l’autore (on
my word) stupisce con l’uso incredibile del gioco
lessicale di parole che fanno riferimento alla schiavitù
del legame nel dialogo dei due servi di casa Capuleti:
Sampson:
Gregory, on my word, we’ll not carry
coals.
Gregory:
No, for then we should be
colliers.
Sampson:
I mean, an we be
in choler, we’ll
draw.
Gregory:
Ay, While you live, draw your neck out
of collar.
In
senso figurato: non
farsi mettere sotto, portare il collare, andare in collera e
tirare fuori il collo dal collare…; sono significanti
forniti a raffica di senso dalla genialità linguistica di
Shakespeare per togliere ogni dubbio, già in apertura della
rappresentazione, sul fatto che l’oggetto del contendere
è la violenza generata dalla castrazione per
l’appartenenza alla schiavitù del dominio famigliare.
La
madre preserva il suo dominio come furto sui figli e sul
sociale. Le piazze sono armate per impedire la fuga
centrifuga dei figli dalla casa madre. Non agorà come
civiltà sociale, ma agorafobia del sociale nel privato.
“C’è troppa
libertà” si sente dire quando si invoca ogni
intervento restrittivo. La crisi economica serve a
strutturare come necessario il cumulo dei redditi e dei
corpi nell’economia di incesto famigliare e vanificare
nella forza centripeta ogni sforzo di autonomia
generazionale, senza possibilità di opposizione: non si
può sputare nel
piatto in cui si mangia.
Per
dirla con il cantautore Antonello Venditti, se l’amore
non ha padroni, mai; in una tale protervia del
controllo, quale
amore ci potrà salvare?
La
bella e la belva
Oggi,
di nuovo, l'agorà è negato. Riduzione al privato del luogo
comune, minaccia, controllo e negazione del tempo
generazionale; nel matriarcato la funzione del cambiamento
è preclusa, fino all'esito estremo della rottura. Così è
pure la struttura della crisi nel paradigma sociale fondato
sull'accumulo di vita in capitale. O emancipazione o
barbarie! Ogni lotta di emancipazione è rivolta contro le
architetture teologico-affettive e gli strumenti secolari di
violenza, comunque camuffati, della grande madre. E, a ben
guardare, nella rivoluzione della storia è toccato proprio
alla figlia-donna il ruolo guida iniziale per il superamento
di ogni centralismo della donna-madre: perpetrando il
possesso dei corpi la matrigna
persegue in realtà il fine narcisistico di negare la
concorrenza e lo spodestamento da parte della figlia Biancaneve.
Non
furono forse le donne operaie del quartiere di Vyborg
a infrangere la diga di contenimento della rivoluzione dei
soviet? Quell’8 marzo del ’17 già si celebrava in
Russia la giornata della donna! Chiunque abbia letto "La
madre" di Gorkij
può constatare il ribaltamento del precetto cristiano, di
cui pure era intriso il sentire dei contadini russi:
l'autore riserva alla madre non più il ruolo cristiano di
distruttore del figlio nel processo di liberazione ma, con
un ribaltamento copernicano, pone lei stessa nel ruolo di
vittima sacrificale. Per la prima volta è il genitore a
pagare per amore!
In
genere, però, le cose vanno diversamente e i figli non la
sanno così lunga; è facile ridurli al ruolo di docili
credenti, disposti a subire i sacrifici e le conseguenze di
predilezioni divine. Le suore
realizzano la perfetta fede a dio madre (il velo
della verginità placentare, per loro, rimane ben
calcato sulla testa); monaci
e frati
esibiscono nel saio, senza neanche il pudore
dell’allegoria, i resti monchi
del cordone non reciso. I preti
sono garanti eunuchi della sintesi androgina di donna-uomo: d-uomo
o chiesa madre (con gli attributi). Ogni campana ha il suo
batacchio perché non resti vuota. Duomo
o don, mai donna, perché lo spirito santo si incarna in
un corpo maschile. Ma-donna
quando si incarna nella figlia.
La
star americana dello spettacolo Madonna ha tentato una
personale riunificazione dei due opposti attributi di santa
e prostituta che connotano la figlia cristiana. Se fallisce
la completa evoluzione del rapporto maturazione-distacco tra
figlia e madre fallisce in proporzione ogni possibilità di
riproduzione affettiva e sociale della specie. La figlia è
preda della forza distruttrice di un King
Kong peloso è morbosamente innamorato, origine e al
tempo stesso ostacolo della sua possibilità di amare.
La
bella e la belva sono soggetti opposti di una tensione che
cerca nella contrapposizione della scena l'affermarsi di
identità diverse in un sesso che è sempre uguale. La
presenza del drago che imprigiona la fanciulla nella cella
della torre è l'ostacolo da affrontare per liberare la
donna dal possesso ostinato di una madre che è insieme la
gattabuia e il fallo.
Questa
scena madre è più che mai attuale. Davvero si può
concepire che la giovane donna sia in grado di realizzare da
sola il percorso della sua emancipazione?
Senza l'apporto sessuale della differenza di genere
dell'amante, senza la sua spada l'impresa appare vana.
Risulta anche in questo evidente quanto ogni rivendicazione
sessista contro il maschile esprima in realtà una
dichiarazione clamorosa di impotenza.
Ma
ecco un altro quesito: è lecito pensare che l'onnipotenza
della madre sia in grado da sé di regolare il distruttivo
possesso dei propri istinti di legame? In ogni tempo anche
questa aspettativa si è dimostrata non reale. È
intervenuta l'economia della violenza al maschile, sotto
forma di ratto o di stupro nella guerra, ad imporre un
taglio alle aderenze e per forzare il distacco tra la figlia
e la sua matrice; per far nascere i non-nati dalla pancia
della nonna-lupo.
È
evidente che nei modelli affettivi meno propensi ad
emancipare, la giovane madre rimane schiava della grande
forza di legame che rende nulla ogni soddisfazione negli
affetti attuali, la grande vecchia, la nonna della
fattispecie, finisce sempre con l'imporre un esoso
condominio con il talamo nuziale:
Se,
in effetti, una madre è nelle mani della propria madre al
punto da vivere il riavvicinamento, naturale, inevitabile e
universale che compie nei suoi confronti come un ritorno
gioioso alla dipendenza, questo comporta, nel migliore dei
casi, un semplice aborto del padre, con le conseguenze
drammatiche che necessariamente deriveranno da questo fatto.
Ritroviamo così il grido esasperato dei miei colleghi
pediatri che si chiedevano se non bisognasse 'uccidere le
nonne'.
L'uso
della forza sulla donna è stata una prassi endemica, nella
famiglia, nella vita coniugale e nel parto, ma essa deriva
dalla mancata risoluzione di una ben più efficace violenza:
l'egocentrismo del possesso. La fantasia di uccisione della
nonna (strega o bestia) si ritrova in tutti i riti
propiziatori e nei racconti per bambini, e non c'è
letteratura che più di questa sia creazione delle stesse
madri. La violenza (non importa se vera o simbolica perché
si scarica comunque sul reale in forma immediata o
differita) come strappo della corda che ancora lega alla
esigente decadenza della madre, non ha più senso; è
necessaria l'assunzione di un atteggiamento di
responsabilità consapevole circa il potere che ciascun
ruolo ha nel produrre le dinamiche generazionali per
favorire lo sviluppo o la regressione.
Anche
la donna deve assumere, in modo sempre meno proiettivo, la
capacità di riconoscere le risorse e i limiti delle proprie
funzioni, fuori dall'aporia di onnipotenza divina, che in
realtà è alienazione; per accedere in modo più completo
allo sviluppo di una identità personale che abbia peso nei
rapporti sociali. Non sono più tollerabili alibi e
ipocrisie che giustifichino la ragione di esistere di
pedagogie nere la cui funzione è quella di santificare, in
forma di suggestione affettiva, la violenza perpetrata dal
pre-potere di chi esercita il dominio ad uso personale sui
nuovi nati della specie.
Si
smetta una volta per tutte di attribuire alla bestia
sanguinaria (che sempre incatena la donna e punisce ogni
avanzamento del sociale) un ruolo maschile: è solo il corpo
sessuato dentro il quale si rappresenta l'incontrollata
volontà della madre. Se non si libera la donna dal dominio
ambiguo del suo stesso ruolo, tra gli scenari della
fantascienza, Il
pianeta perduto
o Il pianeta
delle scimmie
possono prefigurare davvero modelli di annientamento o di
regressione alla condizione animale. Il destino di un mondo
più consapevole e felice passa necessariamente per la via
preferenziale dell'emancipazione sociale e protetta della
figlia dalla madre, per una libera sessualità e per una
procreazione senza colpa. È questo il nesso di
straordinaria importanza che regola la prefigurazione, lo
sviluppo e la riproduzione dell’intero universo umano.
La
forza di gravidanza e la licantropia
Donne
nate da donne corrono il grande rischio del ruolo
indifferenziato, per cui l’immagine del sé femminile può
rimanere affissa sul muro, appiattita nell’identità di
chi l’ha generata, inquadrata nel con-te-sto
del far mostra del sé, in serie continua con le altre. La
differenza dell’una dall’altra è nello scarto di una
sporgenza, di un bassorilievo. Solo il contatto, già in
fase infantile, con l’amore del padre può tirare in
ballo, nel mezzo, la figlia in quanto donna, nella terza
dimensione: lei tra il padre e, finalmente, anche la madre,
della quale, solo nel di-viso,
può distinguere i contorni del soggetto. Anch’essa, la
madre, è restituita alla dimensione di persona, non più
dio di cui tutto S’ignora.
Una
figlia felice, amata, che accede al ruolo di soggetto, che
da donna può scegliere di essere madre, se lo vuole, senza
subire la cacciata distruttiva di chi madre lo è già come
un possesso, renderà il mondo più felice per sé e per chi
la a-ma. Di
contro, il masochismo (ma-so-chi-sta)
della donna appiattita nel con-te-sto
indifferenziato del matriarcato diviene potenziale
autodistruttivo nel sistema. Nel gioco furtivo del
corteggiamento ciò che viene richiesto alla fanciulla
dall’amante è che sia libero l’accesso alla sua ma-no.
Il
desiderio della donna-figlia è nel segno della luna.
Incontrando il suo enigma, Orlando perde il senno. Tra
madre-terra e figlia-luna la relazione di legame si
determina sul modello fisico della forza
di gravidanza a cui prelude il ciclo
lunare. Il destino della figlia è quello di essere rivolta
sempre al cospetto della madre terra, alla quale si sottrae,
costantemente, per
il lato di una faccia.
È
una rivolta immobile; un volto per sé, e un volto per la
madre, ma sempre presa nel ruolo di orbitante. Questa
fissità è condizione ambigua: è rassicurante e, nel suo
protrarsi, può generare impotenza, fino a renderla furiosa;
per effetto di induzione affettiva, l’espressione diviene
sintomo palese nell’amante (il paladino Orlando).
La
licantropia dà
l’idea di come si possa essere affetti
dalla luna e dal suo desiderio di essere piena.
Aspirare alla condizione di gravidanza
(a partire da una di gravità)
è per la figlia-luna il correlato biologico essenziale nel
salto di ruolo da figlia a donna. Il significato più
profondo della licantropia è dunque l’aggressività della
figlia, la sua ansia di liberazione che si confronta con
l’impotenza nel ritardo del cambio generazionale che
potrebbe portare all’esito di sterilità, di fallimento,
di inutilità biologica, qualora la potenzialità sessuale
della donna non possa trovare il libero accesso al ruolo di
guida e di creazione della donna-madre.
Le
rivolte nella storia sono state spesso motivate dalle
giovani eroine che incarnavano, nel generale rivolgimento
della società, l’imperativo sessuale di una rivoluzione
del ricambio generazionale. Nella metafora della licantropia
politica la figlia esercita l’uso della forza che è in
suo potere. La luna
è rossa, rossa di violenza; bisogna infrangere i sogni per
capire che l’ultima giustizia borghese si è spenta;
le parole di questa canzone hanno accompagnato le lotte
politiche e giovanili degli
anni settanta; le stesse che hanno prodotto
l’esperienza della lotta armata come fenomeno di
resistenza d’attacco contro la crisi di legittimità
planetaria del sistema di controllo del profitto.
Compagna
luna è anche il titolo del libro di Barbara Balzerani
esponente non pentita della più nota delle formazioni
combattenti di quegli anni nelle quali hanno militato uomini
e donne consapevoli della necessità di liberazione
collettiva dallo sfruttamento di classe; forse, non erano
altrettanto consapevoli di lottare anche per una pure
necessaria liberazione sessuale dei corpi dalla possessione
del potere matriarcale.
Il
senno di Lisistrata, il pedigree di Antonia
Il
bisogno di liberazione personale si afferma consapevolmente
nella lotta politica nel progetto di una società plurale,
contro il monolitismo teologico di ogni dominio; quando nel
progetto viene meno questa fondamentale dialettica della
coscienza, si assiste all’involuzione dell’autonomia del
politico nella quale l’azione politica diventa faida
settaria. Se non è il personale a sostanziare la dignità
sociale del politico, sarà allora il politico a regredire
alla posizione di bega nel privato.
Il
desiderio femminile muove alla rivolta. Lo stesso desiderio
può muovere alla pace:
Ma
cosa di grande e intelligente possiamo far noi donne?
Imbellettate ce ne stiam tutto il giorno ed agghindate con
camiciole gialle e le cimberiche diafane e ben cadenti e le
scarpine a punta…
chiede
Calonice a Lisistrata, e questa le risponde:
È
questo che ci può salvare: camicie gialle e profumi e
scarpine, rossetto e sottovesti trasparenti. (…).
In
modo che ogni uomo più non alzi l’asta contro un
altr’uomo.
Sangue
e sesso. La fisiologia è prescrizione alla dialettica del
comportamento umano. È evidente l’importanza che anche la
donna possa accedere senza insulti e divieti alla
sessualità ed al piacere. È altrettanto evidente il danno
diseducativo e antisociale provocato dalle pedagogie della
colpa e del peccato. L’emancipazione umana, che insegue il
principio del piacere in opposizione creativa all’attraenza
dell’entropia di morte, si giova con vero profitto della
felicità sessuale della donna; della possibilità concreta
che essa possa accedere ad una identificazione non
conflittuale con il proprio ruolo, in una alternativa
risolta rispetto a quello della propria madre.
In
quell’illuminante apologia del matriarcato che è invece
il film di Marleen Gorris “L’albero
di Antonia”,
nel quale inevitabilmente (e indipendentemente dalle
intenzioni dell’autrice) si riflette l’infelicità e
l’aberrazione di un mondo nel quale ci si ostina ad
escludere il maschile, inglobandolo nell’ambivalenza
sessuale, l’episodio di licantropia è direttamente
interpretato da una donna. Urlo e disperazione promana dalla
gabbia in cui la madre soffoca e uccide la donna nella
figlia. Se si nega il fallo e tutto l’universo maschile,
scompare anche la donna, nell’illusione che l’androgino
e la sua sterilità affettiva siano una sorta di superamento
evolutivo della specie e non piuttosto un segno autolesivo
d’immaturità sessuale. Il disprezzo sessista per il
maschile cela un altrettanto forte odio per la sessualità
femminile considerata inaccettabile nella sua differenza di
genere.
Queste
donne odiano le donne. Rubando la scena all’altro sesso
negano l’identità femminile, che possono amare solo nel
surrogato omosessuale.
Quando
il dito indica la luna
Agli
occhi degli umani la terra e la figlia-luna devono, non
l’esistenza, ma ogni loro splendore ed apparenza, nella
mutevole cangianza delle fasi,
alla luce del sole. Questa realtà fisica trova la
sua metafora umana nello sguardo del padre. La visione del
mondo è prerogativa del padre, almeno quanto la cecità è
segno dell’incesto matriarcale. L’amore
per la figlia è ciò che accende la propensione al
Desiderio nell’essere umano; la giovane si propone
come motore, pro-pulsione
del mondo in proporzione all’erotismo di cui è stata
fatta oggetto, nel pallido onirico lunare, all’oscuro
della terra, dall’amore del padre. Sarà lei a motivare,
per attraenza, il senso della vita
perché questa valga la pena
di essere riempita.
Quando
il dito indica la luna…, è segno che il dito ha la
stessa valenza fallica del naso e del cannocchiale per
l’essere umano, il quale è un essere evoluto perché, innanzi-tutto,
è motivato dal desiderio sessuale.
L’illibertà
nella quale si viene a trovare, sovente, la figlia
nell’indifferenziato dell’unità di legame col corpo del
dominio primario fa della donna una entità profondamente
infelice, dolorosamente alienata tra l’incapacità di
sottrarsi all’affetto capestro per la madre, i cui
contorni di identità sono indistinguibili dal sé psichico
e corporeo, e il fallimento dell’aggancio in orbita con il
satellite maschile, la cui essenza resterà estranea e
addirittura oggetto di recriminazione ostile per effetto di
proiezione del transfert primario. L’infelicità della
donna si fa crisi del sistema.