Il Difetto di Origine

 

L'identità indifferenziata e la psicosi

Nascita del credo, il riscatto dell'Io e il processo di semeiosi

 

Pensare la propria creazione è impossibile se non come creazione del mondo: all'inizio c'era la luce (l'impatto con l'esterno), il verbo (il primo vagito), il soffio creatore (il respiro). Il parto è trauma anche per il nato, ma è il racconto della madre a dire dell'atto di dolore (travaglio) che ciascuno le ha arrecato nascendo, il peccato originale (dell'origine) per essere nati tra le doglie e in presunzione di colpa (dolo). Maggiore è la mancanza di coscienza frutto di una presenza non consapevole, più la rappresentazione simbolica dell'evento si presenta in forma astratta e al tempo stesso assoluta: mistero e dogma religioso. Il senso religioso è proporzionale all'ignoranza di sé, aumenta con il diminuire della soggettività umana[1]. 

La testimonianza del padre, e ancor più la sua responsabilità riconosciuta nell’atto della procreazione hanno condotto, secondo i rilievi ontologici, al superamento del matriarcato primordiale, verso gli sviluppi della civiltà sociale, coerentemente al fatto che l’acquisizione della realtà sessuale alla coscienza umana è un bilanciamento formidabile in grado di sollevare dai figli il peso del debito esclusivo verso la madre. L’esclusione patologica del padre è la regola nel matriarcato cristiano che sancisce come putativo il suo ruolo nella famiglia sacra. La bisessualità resta alla madre, con l’apporto del fallo figlio (anch’egli sarà negato nel destino di passione); mentre la con-fusione dell’origine ha lo scopo di alimentarne il potere di immanenza sacra e suggestiva.

Dal punto di vista psicologico, è la possibilità o meno di elaborare il personale vissuto fisio-affettivo della nascita a costituire l’aspetto più importante della suggestione a credere. Il trauma della nascita viene elaborato fisiologicamente nella fase sadico-anale, quando il controllo degli sfinteri e i primi atti di autonomia corporea nel bambino giungono ad oggettivare, per similitudine, il processo di distacco subito dal corpo della madre, analogamente a ciò che accade alle feci da sé prodotte: “se posso fare a mia volta ciò che è stato fatto a me, allora io esisto in quanto funzione, in tale facoltà io sono”.

Il processo di costituzione del realizza la sintesi nella dialettica tra l’Io della coscienza e il suo complemento oggettivo del Me corporeo; la percezione di sé è il resto, la cifra, ciò che conta come sedimento nel transito tra input e output, tra interno ed esterno, tra la funzione e l’ambiente; con il trat-tenere e inter-esse, il soggetto si colloca nel luogo di passaggio che è la semantizzazione. È produzione di linguaggio, dal corpo pregenitale, a quello genitale, al simbolo, in quanto rappresentazione dell’esserci di senso. Il linguaggio, come scrittura del corpo, è indistinguibile dall’identità del soggetto.

La parola stessa finisce con l'assumere la materialità di un corpo, il quale proietta un'ombra che ne è l'estensione del senso. Ecco a titolo di prova la definizione esatta del soggetto, recitata in fonemi ed estrapolata linguisticamente dalla clinica nosocomiale:

Al di là del se ipotetico (che non esiste nel reale), il del soggetto si costituisce come unità di sintesi tra l’io psiche ed il me del corpo; cosicché nella ricomposizione diagnostica, che si attua attraverso il ruolo di oracolo interpretato dal me-dico, si dice se-me-io-si il processo, già di per terapeutico, che restituisce alla coscienza del soggetto il senso profondo del sintomo oggettivato nel corpo dal disagio.

Rifacendo in fase oggettiva e creativa ciò che il corpo ha subìto senza coscienza nella propria creazione, l’oggetto-bambino (che è stato egli stesso sintomo della madre in fase primordiale) può accedere alle soglie della soggettività e, in proporzione a ciò, alla simbolizzazione nella consapevolezza del rispetto di sé e della propria libertà. Il suo prodotto corporeo è vissuto come offerta per la madre, se questa lo disprezza nel rifiuto, è il bambino stesso ad essere ricacciato nel purgatorio del non-nato.

Se si getta insieme all’acqua sporca anche il bambino, è come averlo (an)negato già nel fluido della placenta. In questa fase la presenza del padre è di importanza fondamentale: la perdita fisiologica può essere vissuta come perdita affettiva sotto forma di ansia depressiva che necessita di una reintegrazione di certezza affettiva, protezione, sicurezza. Il padre svolge il ruolo di un pene affettivo che fa da supporto anaclitico all’angoscia di perdita corporea. Parole come an-sia, an-goscia e s-ano recano traccia fonetica dell’origine in fase anale di ogni predisposizione. Così pure l’esser figlio di papà o l’aver bisogno di spinte nel di-dietro per riuscire nella vita sono modi di rimarcare nel senso gli effetti di compensazione in termini di sicurezza e di sostegno che solo la presenza sessuale affettiva del padre può fornire.

 

 

La certezza e il surrenale

 

Se-reno è il clima nello stato esistenziale di chi, nel modo fisiologico dell’uropoiesi, estende la buona funzionalità dei reni al benessere del sessuale. La nascita dei desideri liquidi della minzione è funzione surre(n)ale dell’impatto onirico affettivo della seduzione  paterna: dal senso di certezza, al limite opposto dell’incontinenza emotiva nella percezione della pa-ura. Ne consegue che il senso di valore di una persona si struttura dall’aver goduto della certezza dell’amore del padre[2]. Da questa certezza, sperimentata come reintegrazione-presenza ad opera del fallo del padre di ogni perdita depressiva in fase anale, origina e prende corpo anche ogni successiva attitudine culturale.

L’accesso ad una sintassi fisiologica vissuta come sana è segno di buon auspicio nell’elaborazione della nascita. La riappropriazione attraverso il corpo delle certezze intorno al mito delle proprie origini è già garanzia di liberazione nella riuscita della vita.

Nella tradizione mediterranea della festa del Natale la costruzione del presepe (pre-sé) tradisce il bisogno di ricreare la scena dell’evento più importante nel debutto alla vita di ciascuno. Sebbene utile nel processo possibile di individuazione personale, il tentativo rimane tuttavia incapsulato nell’intestino cieco dell’incesto famigliare. L’aspetto liberatorio e socializzante resta frustrato, anche per via di quella spettanza di morte che si attribuisce all’agnello prima del precetto pasquale. La celebrazione non può sottrarsi alla coscienza che il destino non è un fatto divino di cui gli uomini siano schiavi, ma una consapevolezza di cui possiamo riappropriarci nel processo di emancipazione individuale e della specie.

Per questo motivo la religione considera coscienza ogni implicito che nega ogni libera conoscenza e, in questa coerenza, ha sempre opposto nella storia la logica sequestrante del peccato al potere liberante del sapere.

La salvezza dell’umanità è nel discernimento del vivere civile e non nella disgraziata morte di un predestinato.

Ciò che occorre in definitiva sapere è che il vissuto della madre diviene misura oggettiva del mondo. È la condizione data a priori verso la quale il soggetto, nel suo grado dialettico di coscienza, si trova ad operare anche per cambiarla. Come Geppetto cerca e disegna i tratti del corpo del figlio nel legno, forgiando al contempo la personalità impertinente e il destino del suo burattino; così il legame corporeo di fusione e poi di simbiosi affettiva costituisce la materia base dell’identità del nuovo soggetto: in primo luogo il suo narcisismo corporeo cioè la stoffa di cui è fatta la sua sostanza di vita.

Non ha altra possibilità Geppetto che disfarsi della casacca per dare una placenta di cellulosa a guisa di vestito ed un libro, ancora di carta, alla sua creatura, la quale di certo non sarebbe potuta nascere con la camicia. Poco importa, del resto, perché nascere nella pelle amniotica può non rivelarsi, a lungo andare, un affare vantaggioso nella qualità dell’esistenza: rimanere nel sacco per la durata della vita significa di fatto non essere nati a se stessi; in tal caso la scelta è tra l’impotenza come constatazione del furto di una libertà mancata (una sconfitta che nessuna arroganza narcisista né il possesso di ricchezza può compensare) e la prospettiva angosciante di lasciarci la pelle qualora si volesse rischiare l’esperienza di una resurrezione, nel percorso di passione, travaglio e parto differito. La soglia della paura di un mondo rimasto ignoto consiglia l’apologia dell’appiattimento, della rinuncia nell’inglobamento nell’utero dell’istituzione totale.

 

 

La pentola dipinta sul muro

 

«Mi farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare, senza pericolo d’esser mangiati?»

 

Chiede Pinocchio al Defino quando giunge all’isola delle Api industriose[3]. Egli è alla perenne ricerca del babbo ed apprende dallo stesso interlocutore che Geppetto (il quale a sua volta cercava il figlio per mare), con buona probabilità, era stato inghiottito dal Pescecane la cui bocca era larga e profonda al punto da ingoiare un intero treno:

 

«Mamma mia!» gridò spaventato il burattino: e rivestitosi in fretta e furia, si voltò al delfino e gli disse: «Arrivedella, signor pesce: scusi tanto l’incomodo e mille grazie della sua garbatezza.»

 

Mamma, mammina, m’ammazza, dice l’adagio popolare. Dieci capitoli più tardi lo stesso protagonista della storia sarà inghiottito dal terribile pescecane. Pinocchio ha modo di esprimere il suo disappunto con un tonno compagno di sventura[4]:

 

«Ma io non voglio esser digerito! » urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.

«Neppure io vorrei esser digerito,» soggiunse il Tonno, «ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…»

«Scioccherie!» gridò Pinocchio.

«La mia è un’opinione,» replicò il Tonno, «e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!»

«Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire…»

«Fuggi, se ti riesce!…»

 

Sebbene non sia nato da donna, neppure Pinocchio sfugge al destino di inglobamento. Nell’allegoria collodiana padre e figlio si ritrovano insieme nel ventre del pescecane. In questo modo il debito di creazione, contratto per aver osato eludere la strettoia fisiologica del parto, accomuna entrambi. Ma la protervia ottimista di Pinocchio e il suo amore per il padre apriranno la via all’evasione dalla pancia-utero-prigione. Il nostro eroe fugge, alla guisa di Enea, con il vecchio padre sulle spalle.

L’esempio sarà seguito dal tonno filosofo, il quale fornirà un aiuto provvidenziale nel momento più critico, quando i due, allo stremo delle loro forze, rischiano di annegare. Non tutti i pesci grossi sono cattivi a questo mondo, sembra dire Collodi, il quale rivaluta così la triade famigliare: padre, figliolo e… prontezza di spirito del tonno.

Geppetto non aveva sufficiente stoffa per fare da madre. L’assenza fantasticata della figura materna e del processo di gestazione è coerente con questa simbolica mancanza della stoffa quale simbolo della placenta (sono significanti affini gli indumenti, le pellicce, la copertina di Linus, il guscio sulla testa del pulcino…, e tutti gli oggetti che fanno da contenitore).

Non a caso la pentola che bolle nella casa di Geppetto è dipinta sul muro del camino; essa rappresenta la mancanza del corpo sessuale che possa realizzare la gestazione. Il falegname infatti non ha mai preso moglie. Secondo Levi Strauss il bollito appartiene a quella che potremmo chiamare una “endo cucina”, per uso domestico e famigliare. Pentola e bollito si oppongono all’arrosto per l’idea di “concavità[5] del recipiente, sono dunque metafora della gestazione e, in questo senso, ricorrono nei riti di cambiamento famigliare.

 

 

Sopraffazione e violenza per la coesione del branco

 

La cottura in recipienti o il pane che lievita nel forno coincidono, nella forma del processo e nel fine, con le esigenze della creazione-riproduzione; in base a ciò si giustifica l’idea che il travaglio e la sofferenza debbano caratterizzare la qualità del lavoro necessario per il pasto quotidiano. Il lavoro come sacrificio e il cibo come dono di dio derivano dal fraintendere la continuazione della vita con il debito della sua origine, cioè la produzione con la riproduzione. Si comprende la distorsione profonda, fisiologica, del modo di produzione capitalistico che ha costituito la nuova categoria del proletariato di classe (la cui unica proprietà riconosciuta era quella di far figli), una massa di produttori e riproduttori a partire dell’esigenza del lavoro come merce.

Per la teologia, il cibo è frainteso come colpa, oppure come concessione; il corpo esige infatti una soddisfazione del bisogno della fame allo stesso modo in cui il sesso pretende di soddisfare il desiderio. Appetiti genitali e orali sono complementari nel processo vitale. La capacità di procurare il cibo è premessa indispensabile per la definizione del logos famigliare; ma è proprio la disposizione inconscia al controllo del ricambio generazionale che si esprime, nel gruppo umano non emancipato socialmente, attraverso l’economia o con l’economia della crisi.

Nella gerarchia del branco matriarcale, c’è chi può e chi non può. La competenza economica per ciascun soggetto del collettivo di appartenenza segna esattamente il posto assegnato ai fini della forza di legame stessa del gruppo: la competenza di ruolo è funzione della spettanza del potere che viene attribuito a ciascuno. A definire questa dinamica è il corpo femminile generante che distribuisce la competenza ad un maggiore o minore potere tra i suoi stessi figli a partire dalla garanzia di legame di cui sono espressione. Per esempio, il soggetto che dà maggiori garanzie di fiducia ha in delega il maggiore potere; il soggetto più differenziato, quindi potenzialmente più autonomo, è tenuto nella precarietà. È la più classica distribuzione di competenze tra i figli, a partire dall’arbitrio del genitore che diventa riscontro anche nella riuscita sociale: dalla dipendenza garantita, alla flessibilità di moda.

Non si tratta solo di selezione naturale finalizzata alla sopravvivenza della specie, come vorrebbe la divulgazione documentaristica dell’etologia; la competitività aggressiva, con la quale si instaura l’arbitrio, non è la causa della disparità, ma solo la forma nella quale l’arbitrio si realizza. La proprietà distributiva, per cui a qualcuno è concesso più che ad altri di occupare i posti di privilegio nella centralità del branco (e quindi anche la priorità a procreare), è una funzione che ha il principale obiettivo di tenere unito il clan in una gerarchia di appartenenza, nel livellamento generale al fine di soffocare il valore della differenza (le capacità di ciascuno), e di imporre il primato dell’appartenenza (la fedeltà al potere centrale).

Il modo di operare del soggetto a cui è demandata la funzione di mantenimento della coesione centripeta nel branco non è dissimile da quella del cane pastore con il gregge: l'uso della forza ha esattamente la finalità di impedire il formarsi e il distacco di individualità assestanti, solo che nel caso del branco umano la differenza di specie è applicata nelle relazioni tra individui di identica razza. Si tratta dunque della più pura espressione della ginocrazia centrale, certamente utile nell’identità simbiotica del branco animale, regressiva invece nei processi di individualizzazione e di emancipazione liberatoria che dovrebbero caratterizzare, e che sempre hanno favorito, lo sviluppo della civiltà umana.

Nei gruppi umani, economia e procreazione vanno di pari passo nella determinazione delle variazioni demografiche. Ma è impossibile comprendere il nesso tra le due variabili se l’approccio interpretativo esclude il dato affettivo (e magari pretende di elaborare una lettura meramente statistica od economica): questo dato affettivo segna il grado di dipendenza al potere inconscio centrale, nella famiglia come nelle dinamiche sociali. Solo così si possono comprendere, in una stessa elementare spiegazione, fenomeni all’apparenza contraddittori:

a)      Perché, nonostante la maggiore disponibilità di ricchezza, le coppie che provengono da famiglie agiate fanno meno figli di quelle che già conducono una esistenza precaria, anche nelle fasi di sviluppo dove non è il numero delle braccia a determinare il sostentamento?

b)      Perché a fronte di un aumento della ricchezza complessiva mondiale, aumentano le condizioni di crisi politica anziché il benessere delle popolazioni?

La tendenza a procreare è favorita dall’autonomia affettiva e dall’autosufficienza economica; in ogni caso, dalla proprietà di ruolo generazionale di cui dispone la nuova coppia in rapporto alla precedente condizione filiale che ne confinava l’identità all’interno della famiglia di origine. Con il raggiungimento del pieno riconoscimento dello statuto di adulti nei figli, la famiglia di origine attraversa una importante fase di cambiamento nel quale deve elaborare la perdita di una finalità fondamentale per cui si era a suo tempo costituita; la reazione depressiva è quindi, in proporzione, un evento che si presenta con disagio puntuale. Là dove è reso possibile dalla rilevanza del patrimonio economico, la forza di appartenenza primaria tende facilmente ad esautorare le competenze di autonomia della nuova coppia, ritardando il raggiungimento del punto di crisi interno del sistema e mantenendo inevitabilmente ancora attuale lo statuto di figli a scapito della proprietà di ruolo generazionale. Le conseguenze del mancato distacco delle necessarie competenze non mancheranno di produrre i loro effetti in termini di sterilità della coppia o di crisi differita nelle relazioni coniugali.

Nella semplificazione opposta, l’esiguità del patrimonio può rendere esigua anche la possibilità di controllo sull’autonomia affettiva dei figli, i quali si trovano, oggettivamente in condizioni di dover provvedere con maggiore autonomia alle proprie esigenze.

 

 

Antropofagia razziale: ariani e vegetariani

 

Sul piano sociale, si può osservare che con l’aumento della disponibilità al benessere si incrementa in proporzione la spinta centrifuga all’emancipazione che rende tendenzialmente autonomi e liberi gli enti che sono invece oggetto di possesso e di controllo nelle relazioni umane disuguali, in particolare le stratificazioni sociali produttive. Maggiore è la spettanza di ricchezza per ciascuno, minore è la possibilità di mantenere la natura del controllo gerarchico nel gruppo sociale. Con il generale miglioramento delle condizioni materiali la società tenderebbe, nel naturale sviluppo, a premiare le capacità anziché le appartenenze. L’illusione della linearità espansionistica della modernità industriale lascia perciò il posto alla necessaria (e prevista) fase di reazione in cui il sistema di sviluppo, fondato sull’alienazione del lavoro salariato, quindi sulla necessità della disuguaglianza, entra in crisi di legittimità a causa delle aspettative di benessere che esso stesso ha creato e a causa della progressiva concentrazione di capitali e di possessori di beni.

L’economia, se non è strumento evoluto di benessere egualitario per tutti, non può che essere apparato di controllo e di ingiustizia sociale. Diviene inevitabile il conflitto tra spinta all’emancipazione e restaurazione verso la barbarie  e l’appartenenza settaria.

Il lavoro rende liberi i soggetti che possono accedere ai mezzi idonei per progettare il proprio destino; ma se l’economia del controllo tende a strutturare condizioni sempre più precarie e spinge il costo del lavoro verso i limiti più bassi, è evidente che in ciò si realizza la violenza del possesso sempre tesa a perpetrare la proprietà sui corpi e sulla vita altrui.

Quando il processo di riproduzione umana è impedito nella libera espansione sociale, resta cioè nel chiuso dell’incesto famigliare o del clan, la voracità può giungere ad estremi distruttivi per accumulo di aggressività fino a diventare antropofagia razziale: il lavoro perde del tutto il potere economico liberante per essere ridotto a sarcastica parodia della produzione a costo zero (arbeit macht frei); diviene schiavitù; la riproduzione sterminio. L’incesto del clan si impone regola assoluta, invalicabile; l’identità è genealogia di razza: pedigree. La razza dei pescecani si fa utero del mondo, misura unica del reale; può pensare se stessa solo a patto di configurarsi come macchina che riduce l’esterno ed ogni altra entità a combustibile per il forno di casa. L’unicità paranoica della psicosi prevale sulla differenza; l’identico riduce il simile al rango di una specie inferiore, in oggettivazione estraniata, disaffettiva; né più né meno di come si fa con le piante e gli animali di cui ci si può nutrire.

In realtà è l’appartenenza settaria che fa regredire i componenti del gruppo a condizioni inferiori dello sviluppo umano, sino alla configurazione di quel popolo delle scimmie di cui, per esempio, parla Gramsci in riferimento al settarismo fascista così congeniale alla borghesia italiana[6]. La ginocrazia matriarcale eleva il primato bioetnico della nascita a paradigma della legittimità del reale; tutto il resto è nemico perché non può essere compreso.

È ancora per questo motivo di ansia contro la gestazione distruttiva che Collodi fa in modo che Pinocchio non riesca neppure a cucinare in padella l’uovo trovato nella dispensa di casa ma, al contrario, sortisca l’effetto di liberare un pulcino tutto allegro e complimentoso che vola via dalla finestra, redento e felice come una pasqua: “Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa!”.

La voracità di Pinocchio è di natura vegetale: si dovrà accontentare delle pere con buccia e torsoli che gli fornisce il padre. Più avanti, all’osteria del Gambero Rosso, in compagnia degli esigenti appetiti del Gatto e della Volpe, egli si limiterà a chiedere uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, lasciando nel piatto ogni cosa.

L’autore realizza, nel pulcino e nel burattino, la premessa etica del suo messaggio anticristiano: si nasce alla vita per viverla e non per subire una morte procurata, in ogni caso, al di fuori dell’alternativa tra distruzione ed autodistruzione.

 

 

La stoffa e lo stile

 

Il burattino è di legno, si accosta alla carne solo dopo un tirocinio di maturazione morale. La condizione umana è raggiunta a patto che sia dimostrato il rispetto nella relazione umana. In Pinocchio non c’è a priori una simbiosi con il corpo creante, l’identità materica è tutta da acquisire. È invece impensabile che il ruolo immanente e ma-terico del corpo materno non abbia influenza assoluta sul corpo clonato del suo narcisismo. E, d’altra parte, è impossibile che la materia prima (fusione corporea con il corpo generante) possa evolvere da se stessa verso qualsiasi stato elaborato e compiuto senza la maieutica del padre: ogni elaborazione e manipolazione creativa della materia grezza è possibile solo grazie all’azione della differenza sessuale che connota, nella percezione del nato, il ruolo maschile rispetto al corpo della madre. In proposito, ne La generazione degli animali, Aristotele osserva:

 Il corpo ha dunque origine dalla femmina, l'anima dal maschio. L'anima infatti è essenza di un certo corpo.

 Se il narcisismo primario è la stoffa di cui è fatta la sostanza della vita, per ciò che riguarda la forma, la foggia dell’abito e la moda che precisano il soggetto, si tratta con buona evidenza di e-leganza, di distinzione. La stoffa è la madre. “Lo stile è l’uomo”, esordisce Lacan nell’introduzione al processo di individuazione del carattere attraverso il simbolico che si differenzia dalla carne[7].

L'uso del genere maschile nel significante che, per estensione, esprime l'intero genere umano deriva la sua spiegazione dal fatto che è il maschile, in qualità di altro e diverso dalla piena coincidenza di identità con il corpo della madre, che permette al soggetto di pensare se stesso e di possedere il senso completo, culturalmente oggettivato, dell'intero ciclo della riproduzione; tale conoscenza pone l'essere umano evoluto molto al di sopra della mera percezione dell'istinto di appartenenza animale, o di ogni soggezione suggestiva verso le teologie alienanti della magia. A maggior ragione l’emancipazione mediante gli stimoli di diversificazione affettiva e relazionale fondano l’unica soggettività possibile sulla passività indifferenziata del prodotto.

 

L’atteggiamento materno è qui determinante. E siamo ricondotti a ciò che Lacan chiama la metafora paterna. Se la madre tratta il suo bambino come il complemento della sua mancanza, come il fallo a cui d’altra parte egli cerca di identificarsi, se dunque il bambino è tutto per lei e si confonde con lei in un’unione diffusa, egli non può disporre della sua individualità.

Se invece la madre riconosce al padre la funzione di far regnare la legge della società, con il rispetto della sua parola, il bambino accettando la castrazione come l’atto simbolico del padre, troverà con l’accesso all’ordine del simbolico e del linguaggio, il significante originario di sé: il nome ed il posto che è destinato ad occupare nella costellazione famigliare[8].

 

Appunto, il possesso materno può sbarrare la strada al debutto del figlio verso il soggetto. L’affermarsi del ruolo del padre come ponte verso il mondo è alla base stessa del sorgere dell’intelligenza umana nel processo evolutivo di affrancamento dalla pura condizione animale. È  ciò a cui allude anche Collodi quando attribuisce alla creazione del padre (e al suo desiderio per un figlio) la capacità di trasformare la pura e semplice materia organica inanimata in un’emozionante avventura umana. Naturalmente, quella di Pinocchio è un’avventura che finisce in carne ed ossa, seguendo un percorso a ritroso: dal semplice  stato di natura alla nascita dell’uomo. L’epilogo è nella premessa: il riscatto  del soma; non a caso il burattino di legno giunge a tanto dopo essersi saputo liberare anche del corpo di somaro.

La storia di Pinocchio è una valida metafora del percorso terapeutico nell’analizzando. “Com’ero buffo quand’ero un burattino!” È la sensazione di stupore verso la precedente condizione pre-occupata di disagio, quando la persona può permettersi di considerarla dal punto di vista di un benessere acquisito. Nelle intenzioni più profonde e sentite dell’autore, Pinocchio divenuto bambino consegue anche il riscatto degli adulti in un clima idealizzato di rapporti familiari ed affettivi.

Le politiche sociali invece prevedono l’offerta del narcisismo del godimento edonistico dei consumi come il punto da non superare. Limitano lo sviluppo umano alla curva del saggio di profitto; restringono le aspirazioni dell’uomo a quelle degli asini nel paese del Bengodi. Confondono la società di esseri umani per il rendimento delle loro azioni (società per azioni); non sistema di soggetti, ma reificazione in merce dei soggetti potenziali produttori di lavoro. Imporre lo sfruttamento come scala nei rapporti umani equivale ad affermare l’identità tra vocazione animale e propensione sociale dei predoni in quanto avanzano pretese di usufrutto o di proprietà sulle facoltà del proprio simile; l’equivalenza si dimostra in modo ancor più evidente ed obiettivo quando sono assenti e per sempre superate, grazie al progresso tecnico, le antiche costrizioni naturali del bisogno.

A tal punto la predisposizione fisio-affettiva dimostra, a chi abbia occhi per vederla, il suo primato di elemento dialettico rispetto al mero e sterile principio dell’economia. Prima che sociale, l’alienazione è prodotto del possesso famigliare. Anche l’economia del possesso è un sesso!

Economico è il terreno dello scontro pulsionale.

 

 

Il muro della forclusione

 

Il racconto cristiano, apologia del dominio, attribuisce senso alla dignità umana in qualità di sacrificio fino a reificarla su una croce di legno e nell’icona di un lenzuolo.

Altrettanto naturalmente è dato il percorso opposto all’emancipazione. Il trabordare incontrastato del narcisismo materno, che si realizza solo a patto dell’esclusione del padre, vanifica nei figli il cristallizzarsi della forma nel reticolo dell’Io, cioè della proprietà del soggetto, attraverso il linguaggio, di abitare nel transito tra interno ed esterno, tra sé e la relazione sociale significativa. Si inaugura la psicosi. Dice Lacan[9]:

 

È in un accidente del registro simbolico e di ciò che vi si compie, vale a dire la Forclusione del Nome-del-Padre al posto dell’Altro, e nello scacco della metafora paterna che noi designiamo la falla che dà alla psicosi la sua condizione essenziale insieme alla struttura che la separa dalla nevrosi.

 

La cosiddetta forclusione del nome del padre è per Lacan all’origine delle psicosi. La psicoanalisi lacaniana ha sviluppato un interessante filone di ricerca sulla continuità evolutiva tra centralità del ruolo emancipatore paterno, il concetto dell’Altro, lo sviluppo sessuale e lo sviluppo psichico correlato. Di fatto, al di là di ogni complessa descrizione della mappa del simbolico, è intuitivo che, nel necessario processo di differenziazione dell’individuo dal corpo della madre, il nome del padre sia il primo elemento che viene a sottolineare l’alterità e l’originalità del nato: per diversificare un nuovo soggetto dalla totalità creante conviene almeno chiamarlo con un altro nome.

Con il concetto di forclusione riferito alle psicosi, che Lacan affianca a quello di rimozione riferito alle nevrosi, si pone la questione della cancellazione, cioè del grado di esclusione di qualcosa di essenziale nella costruzione del soggetto, del suo diritto di tendere al limite più prossimo della riuscita verso l’intelligenza, la libertà, la felicità. Il cancello della rimozione nelle nevrosi diviene muro della forclusione nelle psicosi. Insomma l’orizzonte limitato dell’essere umano spazia dal labirinto, al giardino di cemento, al carcere, alla cecità, quando la pretesa materna di appartenenza si realizza ad oltranza e non può che sortire l’effetto di uccidere il meglio dell’esistenza.

Nel processo di differenziazione verso la costituzione del soggetto il referente affettivo di parte maschile è il se-stante per fare la posizione, per dare certezza focale alla definizione del punto di vista. La spazializzazione della propria identità non arriva a precisarsi senza la sponda dell’altro.

 

 

Prediletti dal(le) signore

 

Il padre non è acqua (la madre invece sì). Narciso era figlio del fiume Cefiso e della ninfa Liriope[10], quando si rispecchia nell’acqua della chiara fonte non distingue lo spessore del padre, fraintende la propria immagine; l’inconsistenza paterna fa sì che il suo io manchi l’incontro con l’Eco, la ninfa (come la madre) che di lui è invaghita; egli rimane al punto di fraintendere la trasparenza dell’Ego con Eco.

Il difetto narcisistico non è solo questione di fallire l’identificazione di ruolo, più oltre l’inconsistenza, con la forclusione del padre nel ruolo dell’altro, c’è la psicosi. La dimostrazione elementare ci giunge come esempio nella figura del soggetto autistico la cui rappresentazione sulla scena della vita è quella di un corpo privo di soggetto incapace di relazione, perché è la successione di un feto, di un clone organico, che non è mai nato alla differenza di chi lo ha generato. Corpo di legno con funzione di supporto. Bastone della vecchiaia attribuito come funzione, tra i tanti figli, ai prediletti dal(le) signore.

Pur di non accedere alla lettura di questa realtà si fa ancora troppa confusione tra gli estremi di una attribuzione di responsabilità al genitore come colpa e l'immobilismo rispetto ad ogni reale prevenzione. Maud Cannoni, con equilibrio e proporzione, ha posto da tempo, nei termini essenziali, la questione della patogenesi nel rapporto tra il bambino ritardato e la madre, riuscendo ad ottenere di rimando incomprensioni e resistenze da parte di un sistema che si regge sulla consapevolezza del valore stabilizzante e funzionale della malattia come modalità di scarico di ogni anomalia strutturale. Ecco di seguito un breve passo della presentazione che Colette Audry dedica al libro della Mannoni[11]:

 

Improvvisamente accade che essa [la madre] interrompa una psicoterapia ben avviata, che sprofondi essa stessa nella malattia mano a mano che lo spirito del figlio rivive, che si abbandoni al suicidio la vigilia della guarigione. Non era forse disposta a salvare il figlio a qualunque costo?

Non a qualunque costo, evidentemente (…). Si scopre così che l’esistenza della madre inglobava anche la debolezza mentale del figlio (…).

 

Il parto, in particolare, è un evento di sangue che si fissa come straordinario imprinting nella perenne influenza che il pensiero della madre avrà sempre sul destino del figlio. Una sorta di telepatia affettiva che la scienza rileva con evidenza oggettiva solo nei rapporti di forte identità (come nel caso dei gemelli monozigoti), ma che nella realtà connota l'immanenza soggettiva spirituale del ruolo materno, in ogni tempo, in quanto corpo dell'identità; nella trinità cristiana, anche sangue e corpo del figlio. Metonimia, scambio di nome e della causa per l'effetto.

La piaga, ferita aperta, nel corpo maschile, nel costato o nelle mani, è lo stigma di questa possessione ginocratica. È il segno della slabbratura nel narcisismo del corpo creante, cavo per intrinseca natura come il suo sesso, che per il fatto di procreare non può che sforare per estensione la coscienza di sé in continuità col prodotto e la sua possessione. La valenza traumatica del parto, come tutta la sessualità femminile, diviene destino del mondo attraverso la proprietà affettiva dei corpi; la sessualità della donna specifica gli eventi sullo schermo del reale come in proiezione cinematografica.

"Partorirai con dolore" è la maledizione lanciata non solo contro la presunzione di autonomia della nuova coppia che si accinge a procreare, ma contro l'aspettativa di felicità dell'intera specie umana. Il primato fisiologico sui nati si fa destino degli individui stessi e del corpo sociale. Si fa storia. Il paesaggio del mondo trova una lettura coerente e biunivoca se confrontato con il ricalco della fisiologia affettiva e sessuale della madre. Questo è il mistero dell'immanenza divina. "Partorirai con gioia" è il migliore augurio di emancipazione per l'intera umanità. Sostegno, assistenza e felicità alla donna in gestazione. La liberazione ed il benessere della donna è panacea per la condizione umana.



[1] Edward J. Larson e Larry Witham hanno pubblicato sulla prestigiosa rivista inglese Nature (3/04/97 vol. 386 pp. 435-436; 23/07/98 vol. 394 p. 313) i risultati delle loro rilevazioni statistiche sul tasso di religiosità nella popolazione americana che si dichiara credente per il 93% dei soggetti intervistati; il tasso scende al 7%, presso la popolazione di individui con grande cultura scientifica (Leading scientists still reject Good); dimostrando così che il grado di religiosità è inversamente proporzionale agli strumenti culturali e conoscitivi posseduti da un individuo.

[2] Questo è anche il motivo per cui, in una società matrizzata, il valore viene negato in quanto fallo sociale (capacità genitale) e sostituito con il falso pene del possesso (accumulo anale in capitale).

[3] C. Collodi; Op. cit., pp. 96-97.

[4] C. Collodi; Op. cit., p. 169.

[5] Claude Levi Strauss; Le origini delle buone maniere a tavola, Il Saggiatore, Milano, 1971, p.433.

[6] Antonio Gramsci; Sul fascismo, Editori Riunuti, 1973, p. 96.

[7] Jacques Lacan; La cosa freudiana e altri scritti, Nuovo Politecnico 48, Einaudi, To, 1985, p. 13.

Sul piano antropologico, Levi Strauss sottolinea invece l’opposizione fra natura e cultura, per esempio, nella preparazione dei cibi. Si spiega il motivo per cui, anche in settori tradizionalmente espressione del femminile, come appunto la cucina, la forma più elaborata della materia può trovare gli interpreti più raffinati al maschile (Maitre, Chef).

Claude Levi Strauss; Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 1980.

[8] A. Rifflet-Lemaire; Introduzione a Jacques Lacan, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1972, p. 282.

[9] Jacques Lacan; in A. Rifflet-Lemaire; Op. cit., p. 282.

[10] R. Graves; Op. cit., p. 259.

[11] Maud Mannoni; Il bambino ritardato e la madre, Bollati Boringheri, To, 1988.

 

 

 

 

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