L'identità
indifferenziata e la psicosi
Nascita
del credo, il riscatto dell'Io e il processo di semeiosi
Pensare
la propria creazione è impossibile se non come
creazione del mondo: all'inizio c'era la luce
(l'impatto con l'esterno), il verbo
(il primo vagito), il soffio
creatore (il respiro). Il parto è trauma anche per il
nato, ma è il racconto della madre a dire dell'atto
di dolore (travaglio) che ciascuno le ha arrecato
nascendo, il peccato
originale (dell'origine) per essere nati tra le
doglie e in presunzione di colpa (dolo). Maggiore è la
mancanza di coscienza frutto di una presenza non
consapevole, più la rappresentazione simbolica
dell'evento si presenta in forma astratta e al tempo
stesso assoluta: mistero e dogma religioso. Il senso
religioso è proporzionale all'ignoranza di sé, aumenta
con il diminuire della soggettività umana.
La
testimonianza del padre, e ancor più la sua
responsabilità riconosciuta nell’atto della
procreazione hanno condotto, secondo i rilievi
ontologici, al superamento del matriarcato primordiale,
verso gli sviluppi della civiltà sociale, coerentemente
al fatto che l’acquisizione della realtà sessuale
alla coscienza umana è un bilanciamento formidabile in
grado di sollevare dai figli il peso del debito
esclusivo verso la madre. L’esclusione patologica del
padre è la regola nel matriarcato cristiano che
sancisce come putativo
il suo ruolo nella famiglia sacra. La bisessualità
resta alla madre, con l’apporto del fallo figlio
(anch’egli sarà negato nel destino di passione);
mentre la con-fusione dell’origine ha lo scopo di
alimentarne il potere di immanenza sacra e suggestiva.
Dal
punto di vista psicologico, è la possibilità o meno di
elaborare il personale vissuto fisio-affettivo della
nascita a costituire l’aspetto più importante della
suggestione a credere. Il trauma della nascita viene
elaborato fisiologicamente nella fase sadico-anale,
quando il controllo degli sfinteri e i primi atti di
autonomia corporea nel bambino giungono ad oggettivare,
per similitudine, il processo di distacco subito dal
corpo della madre, analogamente a ciò che accade alle
feci da sé prodotte: “se
posso fare a mia volta ciò che è stato fatto a me,
allora io esisto in quanto funzione, in tale facoltà io
sono”.
Il
processo di costituzione del Sé
realizza la sintesi nella dialettica tra l’Io
della coscienza e il suo complemento oggettivo del Me
corporeo; la percezione di sé è il resto, la cifra,
ciò che conta come sedimento nel transito tra input e
output, tra interno ed esterno, tra la funzione e
l’ambiente; con il trat-tenere
e inter-esse,
il soggetto si colloca nel luogo di passaggio che è la
semantizzazione. È produzione di linguaggio, dal corpo
pregenitale, a quello genitale, al simbolo, in quanto
rappresentazione dell’esserci di senso. Il linguaggio,
come scrittura del corpo, è indistinguibile
dall’identità del soggetto.
La
parola stessa finisce con l'assumere la materialità di
un corpo, il quale proietta un'ombra che ne è
l'estensione del senso. Ecco a titolo di prova la
definizione esatta del soggetto, recitata in fonemi ed
estrapolata linguisticamente dalla clinica nosocomiale:
Al
di là del se
ipotetico (che non esiste nel reale), il sé
del soggetto si costituisce come unità di sintesi tra
l’io psiche
ed il me del
corpo; cosicché nella ricomposizione diagnostica, che
si attua attraverso il ruolo di oracolo interpretato dal
me-dico, si
dice se-me-io-si
il processo, già di per sé
terapeutico, che restituisce alla coscienza del soggetto
il senso profondo del sintomo oggettivato nel corpo dal
disagio.
Rifacendo
in fase oggettiva e creativa ciò che il corpo ha
subìto senza coscienza nella propria creazione,
l’oggetto-bambino (che è stato egli stesso sintomo
della madre in fase primordiale) può accedere alle
soglie della soggettività e, in proporzione a ciò,
alla simbolizzazione nella consapevolezza del rispetto
di sé e della propria libertà. Il suo prodotto
corporeo è vissuto come offerta per la madre, se questa
lo disprezza nel rifiuto, è il bambino stesso ad essere
ricacciato nel purgatorio del non-nato.
Se
si getta insieme all’acqua
sporca anche il bambino, è come averlo (an)negato
già nel fluido della placenta. In questa fase la
presenza del padre è di importanza fondamentale: la
perdita fisiologica può essere vissuta come perdita
affettiva sotto forma di ansia depressiva che necessita
di una reintegrazione di certezza affettiva, protezione,
sicurezza. Il padre svolge il ruolo di un pene affettivo
che fa da supporto anaclitico all’angoscia di perdita
corporea. Parole come an-sia,
an-goscia e
s-ano recano
traccia fonetica dell’origine in fase anale di ogni
predisposizione. Così pure l’esser figlio
di papà o l’aver bisogno di spinte
nel di-dietro per riuscire nella vita sono modi di
rimarcare nel senso gli effetti di compensazione in
termini di sicurezza e di sostegno che solo la presenza
sessuale affettiva del padre può fornire.
La
certezza e il surrenale
Se-reno
è il clima nello stato esistenziale di chi, nel modo
fisiologico dell’uropoiesi, estende la buona
funzionalità dei reni
al benessere del sé
sessuale. La
nascita dei desideri liquidi della minzione è
funzione surre(n)ale
dell’impatto onirico affettivo della seduzione
paterna: dal senso di certezza, al limite opposto
dell’incontinenza emotiva nella percezione della pa-ura.
Ne consegue che il senso di valore di una persona si
struttura dall’aver goduto della certezza
dell’amore del padre.
Da questa certezza, sperimentata come
reintegrazione-presenza ad opera del fallo del padre di
ogni perdita depressiva in fase anale, origina e prende
corpo anche ogni successiva attitudine culturale.
L’accesso
ad una sintassi fisiologica vissuta come sana è segno
di buon auspicio nell’elaborazione della nascita. La
riappropriazione attraverso il corpo delle certezze
intorno al mito delle proprie origini è già garanzia
di liberazione nella riuscita della vita.
Nella
tradizione mediterranea della festa del Natale la
costruzione del presepe
(pre-sé) tradisce il bisogno di ricreare la scena
dell’evento più importante nel debutto alla vita di
ciascuno. Sebbene utile nel processo possibile di
individuazione personale, il tentativo rimane tuttavia
incapsulato nell’intestino
cieco dell’incesto famigliare. L’aspetto
liberatorio e socializzante resta frustrato, anche per
via di quella spettanza di morte che si attribuisce
all’agnello prima del precetto pasquale. La
celebrazione non può sottrarsi alla coscienza che il
destino non è un fatto divino di cui gli uomini siano
schiavi, ma una consapevolezza di cui possiamo
riappropriarci nel processo di emancipazione individuale
e della specie.
Per
questo motivo la religione considera coscienza ogni
implicito che nega ogni libera conoscenza e, in questa
coerenza, ha sempre opposto nella storia la logica
sequestrante del peccato al potere liberante del sapere.
La
salvezza dell’umanità è nel discernimento del vivere
civile e non nella disgraziata morte di un predestinato.
Ciò
che occorre in definitiva sapere è che il vissuto della
madre diviene misura oggettiva
del mondo. È la condizione data a priori verso la quale
il soggetto, nel suo grado dialettico di coscienza, si
trova ad operare anche per cambiarla. Come Geppetto
cerca e disegna i tratti del corpo del figlio nel legno,
forgiando al contempo la personalità impertinente e il
destino del suo burattino; così il legame corporeo di
fusione e poi di simbiosi affettiva costituisce la
materia base dell’identità del nuovo soggetto: in
primo luogo il suo narcisismo
corporeo cioè la stoffa di cui è fatta la sua
sostanza di vita.
Non
ha altra possibilità Geppetto che disfarsi della
casacca per dare una placenta
di cellulosa a guisa di vestito ed un libro, ancora di
carta, alla sua creatura, la quale di certo non sarebbe
potuta nascere
con la camicia. Poco importa, del resto, perché
nascere nella pelle amniotica può non rivelarsi, a
lungo andare, un affare vantaggioso nella qualità
dell’esistenza: rimanere
nel sacco per la durata della vita significa di
fatto non essere nati a se stessi; in tal caso la scelta
è tra l’impotenza come constatazione del furto di una
libertà mancata (una sconfitta che nessuna arroganza
narcisista né il possesso di ricchezza può compensare)
e la prospettiva angosciante di lasciarci
la pelle qualora si volesse rischiare l’esperienza
di una resurrezione, nel percorso di passione, travaglio
e parto differito. La soglia della paura di un mondo
rimasto ignoto consiglia l’apologia
dell’appiattimento, della rinuncia nell’inglobamento
nell’utero dell’istituzione totale.
La
pentola dipinta sul muro
«Mi
farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono
dei paesi dove si possa mangiare, senza pericolo
d’esser mangiati?»
Chiede
Pinocchio al Defino quando giunge all’isola delle Api
industriose.
Egli è alla perenne ricerca del babbo ed apprende dallo
stesso interlocutore che Geppetto (il quale a sua volta
cercava il figlio per mare), con buona probabilità, era
stato inghiottito dal Pescecane la cui bocca era larga
e profonda al
punto da ingoiare un
intero treno:
«Mamma
mia!» gridò spaventato il burattino: e rivestitosi in
fretta e furia, si voltò al delfino e gli disse: «Arrivedella,
signor pesce: scusi tanto l’incomodo e mille grazie
della sua garbatezza.»
Mamma,
mammina, m’ammazza, dice l’adagio popolare.
Dieci capitoli più tardi lo stesso protagonista della
storia sarà inghiottito dal terribile pescecane.
Pinocchio ha modo di esprimere il suo disappunto con un
tonno compagno di sventura:
«Ma
io non voglio esser digerito! » urlò Pinocchio,
ricominciando a piangere.
«Neppure
io vorrei esser digerito,» soggiunse il Tonno, «ma io
sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che,
quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir
sott’acqua che sott’olio!…»
«Scioccherie!»
gridò Pinocchio.
«La
mia è un’opinione,» replicò il Tonno, «e le
opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno
rispettate!»
«Insomma…
io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire…»
«Fuggi,
se ti riesce!…»
Sebbene
non sia nato da donna, neppure Pinocchio sfugge al
destino di inglobamento. Nell’allegoria collodiana
padre e figlio si ritrovano insieme nel ventre del
pescecane. In questo modo il debito di creazione,
contratto per aver osato eludere la strettoia
fisiologica del parto, accomuna entrambi. Ma la
protervia ottimista di Pinocchio e il suo amore per il
padre apriranno la via all’evasione dalla
pancia-utero-prigione. Il nostro eroe fugge, alla guisa
di Enea, con il vecchio padre sulle spalle.
L’esempio
sarà seguito dal tonno filosofo, il quale fornirà un
aiuto provvidenziale nel momento più critico, quando i
due, allo stremo delle loro forze, rischiano di
annegare. Non tutti i pesci
grossi sono cattivi a questo mondo, sembra dire
Collodi, il quale rivaluta così la triade famigliare: padre,
figliolo e…
prontezza di spirito
del tonno.
Geppetto
non aveva sufficiente stoffa per fare da madre.
L’assenza fantasticata della figura materna e del
processo di gestazione è coerente con questa simbolica
mancanza della stoffa quale simbolo della placenta (sono
significanti affini gli indumenti, le pellicce, la
copertina di Linus, il guscio sulla testa del
pulcino…, e tutti gli oggetti che fanno da
contenitore).
Non
a caso la pentola che bolle nella casa di Geppetto è
dipinta sul muro del camino; essa rappresenta la
mancanza del corpo sessuale che possa realizzare la
gestazione. Il falegname infatti non ha mai preso
moglie. Secondo Levi Strauss il
bollito appartiene a quella che potremmo chiamare una
“endo cucina”, per uso domestico e famigliare.
Pentola e bollito
si oppongono all’arrosto
per l’idea di “concavità“
del recipiente, sono dunque metafora della gestazione e,
in questo senso, ricorrono nei riti di cambiamento
famigliare.
Sopraffazione
e violenza per la coesione del branco
La
cottura in recipienti o il pane che lievita nel forno
coincidono, nella forma del processo e nel fine, con le
esigenze della creazione-riproduzione; in base a ciò si
giustifica l’idea che il travaglio e la sofferenza
debbano caratterizzare la qualità del lavoro necessario
per il pasto quotidiano. Il lavoro come sacrificio e il
cibo come dono di dio derivano dal fraintendere la
continuazione della vita con il debito della sua
origine, cioè la produzione con la riproduzione. Si
comprende la distorsione profonda, fisiologica, del modo
di produzione capitalistico che ha costituito la nuova
categoria del proletariato
di classe (la cui unica proprietà riconosciuta era
quella di far figli), una massa di produttori e
riproduttori a partire dell’esigenza del lavoro come
merce.
Per
la teologia, il cibo è frainteso come colpa, oppure
come concessione; il corpo esige infatti una
soddisfazione del bisogno della fame allo stesso modo in
cui il sesso pretende di soddisfare il desiderio.
Appetiti genitali e orali sono complementari nel
processo vitale. La capacità di procurare il cibo è
premessa indispensabile per la definizione del logos
famigliare; ma è proprio la disposizione inconscia al
controllo del ricambio generazionale che si esprime, nel
gruppo umano non emancipato socialmente, attraverso
l’economia o con l’economia della crisi.
Nella
gerarchia del branco matriarcale, c’è chi può e chi
non può. La competenza economica per ciascun soggetto
del collettivo di appartenenza segna esattamente il
posto assegnato ai fini della forza di legame stessa del
gruppo: la competenza di ruolo è funzione della
spettanza del potere che viene attribuito a ciascuno. A
definire questa dinamica è il corpo femminile generante
che distribuisce la competenza ad un maggiore o minore
potere tra i suoi stessi figli a partire dalla garanzia
di legame di cui sono espressione. Per esempio, il
soggetto che dà maggiori garanzie di fiducia ha in
delega il maggiore potere; il soggetto più
differenziato, quindi potenzialmente più autonomo, è
tenuto nella precarietà. È la più classica
distribuzione di competenze tra i figli, a partire
dall’arbitrio del genitore che diventa riscontro anche
nella riuscita sociale: dalla dipendenza garantita, alla
flessibilità di moda.
Non
si tratta solo di selezione naturale finalizzata alla
sopravvivenza della specie, come vorrebbe la
divulgazione documentaristica dell’etologia; la
competitività aggressiva, con la quale si instaura
l’arbitrio, non è la causa della disparità, ma solo
la forma nella quale l’arbitrio si realizza. La
proprietà distributiva, per cui a qualcuno è concesso
più che ad altri di occupare i posti di privilegio
nella centralità del branco (e quindi anche la
priorità a procreare), è una funzione che ha il
principale obiettivo di tenere unito il clan in una
gerarchia di appartenenza, nel livellamento generale al
fine di soffocare il valore della differenza (le
capacità di ciascuno), e di imporre il primato
dell’appartenenza (la fedeltà al potere centrale).
Il
modo di operare del soggetto a cui è demandata la
funzione di mantenimento della coesione centripeta nel
branco non è dissimile da quella del cane pastore con
il gregge: l'uso della forza ha esattamente la finalità
di impedire il formarsi e il distacco di individualità
assestanti, solo che nel caso del branco umano la
differenza di specie è applicata nelle relazioni tra
individui di identica razza. Si tratta dunque della più
pura espressione della ginocrazia centrale, certamente
utile nell’identità simbiotica del branco animale,
regressiva invece nei processi di individualizzazione e
di emancipazione liberatoria che dovrebbero
caratterizzare, e che sempre hanno favorito, lo sviluppo
della civiltà umana.
Nei
gruppi umani, economia e procreazione vanno di pari
passo nella determinazione delle variazioni
demografiche. Ma è impossibile comprendere il nesso tra
le due variabili se l’approccio interpretativo esclude
il dato affettivo (e magari pretende di elaborare una
lettura meramente statistica od economica): questo dato
affettivo segna il grado di dipendenza al potere
inconscio centrale, nella famiglia come nelle dinamiche
sociali. Solo così si possono comprendere, in una
stessa elementare spiegazione, fenomeni all’apparenza
contraddittori:
a)
Perché, nonostante la maggiore disponibilità di
ricchezza, le coppie che provengono da famiglie agiate
fanno meno figli di quelle che già conducono una
esistenza precaria, anche nelle fasi di sviluppo dove
non è il numero delle braccia a determinare il
sostentamento?
b)
Perché a fronte di un aumento della ricchezza
complessiva mondiale, aumentano le condizioni di crisi
politica anziché il benessere delle popolazioni?
La
tendenza a procreare è favorita dall’autonomia
affettiva e dall’autosufficienza economica; in ogni
caso, dalla proprietà di ruolo generazionale di cui
dispone la nuova coppia in rapporto alla precedente
condizione filiale che ne confinava l’identità
all’interno della famiglia di origine. Con il
raggiungimento del pieno riconoscimento dello statuto di
adulti nei figli, la famiglia di origine attraversa una
importante fase di cambiamento nel quale deve elaborare
la perdita di una finalità fondamentale per cui si era
a suo tempo costituita; la reazione depressiva è
quindi, in proporzione, un evento che si presenta con
disagio puntuale. Là dove è reso possibile dalla
rilevanza del patrimonio economico, la forza di
appartenenza primaria tende facilmente ad esautorare le
competenze di autonomia della nuova coppia, ritardando
il raggiungimento del punto di crisi interno del sistema
e mantenendo inevitabilmente ancora attuale lo statuto
di figli a scapito della proprietà di ruolo
generazionale. Le conseguenze del mancato distacco delle
necessarie competenze non mancheranno di produrre i loro
effetti in termini di sterilità della coppia o di crisi
differita nelle relazioni coniugali.
Nella
semplificazione opposta, l’esiguità del patrimonio
può rendere esigua anche la possibilità di controllo
sull’autonomia affettiva dei figli, i quali si
trovano, oggettivamente in condizioni di dover
provvedere con maggiore autonomia alle proprie esigenze.
Antropofagia
razziale: ariani e vegetariani
Sul
piano sociale, si può osservare che con l’aumento
della disponibilità al benessere si incrementa in
proporzione la spinta centrifuga all’emancipazione che
rende tendenzialmente autonomi e liberi gli enti che
sono invece oggetto di possesso e di controllo nelle
relazioni umane disuguali, in particolare le
stratificazioni sociali produttive. Maggiore è la
spettanza di ricchezza per ciascuno, minore è la
possibilità di mantenere la natura del controllo
gerarchico nel gruppo sociale. Con il generale
miglioramento delle condizioni materiali la società
tenderebbe, nel naturale sviluppo, a premiare le
capacità anziché le appartenenze. L’illusione della
linearità espansionistica della modernità industriale
lascia perciò il posto alla necessaria (e prevista)
fase di reazione in cui il sistema di sviluppo, fondato
sull’alienazione del lavoro salariato, quindi sulla
necessità della disuguaglianza, entra in crisi di
legittimità a causa delle aspettative di benessere che
esso stesso ha creato e a causa della progressiva
concentrazione di capitali e di possessori di beni.
L’economia,
se non è strumento evoluto di benessere egualitario per
tutti, non può che essere apparato di controllo e di
ingiustizia sociale. Diviene inevitabile il conflitto
tra spinta all’emancipazione e restaurazione verso la
barbarie e
l’appartenenza settaria.
Il
lavoro rende liberi i soggetti che possono accedere ai
mezzi idonei per progettare il proprio destino; ma se
l’economia del controllo tende a strutturare
condizioni sempre più precarie e spinge il costo del
lavoro verso i limiti più bassi, è evidente che in
ciò si realizza la violenza del possesso sempre tesa a
perpetrare la proprietà sui corpi e sulla vita altrui.
Quando
il processo di riproduzione umana è impedito nella
libera espansione sociale, resta cioè nel chiuso
dell’incesto famigliare o del clan, la voracità può
giungere ad estremi distruttivi per accumulo di
aggressività fino a diventare antropofagia
razziale: il lavoro perde del tutto il potere
economico liberante per essere ridotto a sarcastica
parodia della produzione a costo zero (arbeit macht frei);
diviene schiavitù; la riproduzione sterminio.
L’incesto del clan si impone regola assoluta,
invalicabile; l’identità è genealogia di razza:
pedigree. La razza dei pescecani
si fa utero del mondo, misura unica del reale; può
pensare se stessa solo a patto di configurarsi come
macchina che riduce l’esterno ed ogni altra entità a
combustibile per il forno di casa. L’unicità
paranoica della psicosi prevale sulla differenza; l’identico
riduce il simile
al rango di una specie inferiore, in oggettivazione
estraniata, disaffettiva; né più né meno di come si
fa con le piante e gli animali di cui ci si può
nutrire.
In
realtà è l’appartenenza settaria che fa regredire i
componenti del gruppo a condizioni inferiori dello
sviluppo umano, sino alla configurazione di quel popolo
delle scimmie di cui, per esempio, parla Gramsci in
riferimento al settarismo fascista così congeniale alla
borghesia italiana.
La ginocrazia matriarcale eleva il primato bioetnico
della nascita a paradigma della legittimità del reale;
tutto il resto è nemico perché non può essere
compreso.
È
ancora per questo motivo di ansia contro la gestazione
distruttiva che Collodi fa in modo che Pinocchio non
riesca neppure a cucinare in padella l’uovo trovato
nella dispensa di casa ma, al contrario, sortisca
l’effetto di liberare un
pulcino tutto allegro e complimentoso che vola via
dalla finestra, redento e felice come una pasqua: “Arrivedella,
stia bene e tanti saluti a casa!”.
La
voracità di Pinocchio è di natura vegetale: si dovrà
accontentare delle pere con buccia e torsoli che gli
fornisce il padre. Più avanti, all’osteria del
Gambero Rosso, in compagnia degli esigenti appetiti del
Gatto e della Volpe, egli si limiterà a chiedere uno
spicchio di noce e un cantuccino di pane, lasciando nel
piatto ogni cosa.
L’autore
realizza, nel pulcino e nel burattino, la premessa etica
del suo messaggio anticristiano: si nasce alla vita per
viverla e non per subire una morte procurata, in ogni
caso, al di fuori dell’alternativa tra distruzione ed
autodistruzione.
La
stoffa e lo stile
Il
burattino è di legno, si accosta alla carne solo dopo
un tirocinio di maturazione morale. La condizione umana
è raggiunta a patto che sia dimostrato il rispetto
nella relazione umana. In Pinocchio non c’è a priori
una simbiosi con il corpo creante, l’identità
materica è tutta da acquisire. È invece impensabile
che il ruolo immanente e ma-terico
del corpo materno non abbia influenza assoluta sul corpo
clonato del suo narcisismo. E, d’altra parte, è
impossibile che la materia
prima (fusione corporea con il corpo generante)
possa evolvere da se stessa verso qualsiasi stato
elaborato e compiuto senza la maieutica del padre: ogni
elaborazione e manipolazione creativa della materia
grezza è possibile solo grazie all’azione della
differenza sessuale che connota, nella percezione del
nato, il ruolo maschile rispetto al corpo della madre.
In proposito, ne La
generazione degli animali, Aristotele osserva:
Il
corpo ha dunque origine dalla femmina, l'anima dal
maschio. L'anima infatti è essenza di un certo corpo.
Se
il narcisismo primario è la stoffa di cui è fatta la
sostanza della vita, per ciò che riguarda la forma, la
foggia dell’abito e la moda che precisano il soggetto,
si tratta con buona evidenza di e-leganza,
di distinzione.
La stoffa è la madre. “Lo
stile è l’uomo”, esordisce Lacan
nell’introduzione al processo di individuazione del
carattere attraverso il simbolico che si differenzia
dalla carne.
L'uso
del genere maschile nel significante che, per
estensione, esprime l'intero genere umano deriva la sua
spiegazione dal fatto che è il maschile, in qualità di
altro e diverso dalla piena coincidenza di identità con
il corpo della madre, che permette al soggetto di
pensare se stesso e di possedere il senso completo,
culturalmente oggettivato, dell'intero ciclo della
riproduzione; tale conoscenza pone l'essere umano
evoluto molto al di sopra della mera percezione
dell'istinto di appartenenza animale, o di ogni
soggezione suggestiva verso le teologie alienanti della
magia. A maggior ragione l’emancipazione mediante gli
stimoli di diversificazione affettiva e relazionale
fondano l’unica soggettività possibile sulla
passività indifferenziata del prodotto.
L’atteggiamento
materno è qui determinante. E siamo ricondotti a ciò
che Lacan chiama la metafora paterna. Se la madre tratta
il suo bambino come il complemento della sua mancanza,
come il fallo a cui d’altra parte egli cerca di
identificarsi, se dunque il bambino è tutto per lei e
si confonde con lei in un’unione diffusa, egli non
può disporre della sua individualità.
Se
invece la madre riconosce al padre la funzione di far
regnare la legge della società, con il rispetto della
sua parola, il bambino accettando la castrazione come
l’atto simbolico del padre, troverà con l’accesso
all’ordine del simbolico e del linguaggio, il
significante originario di sé: il nome ed il posto che
è destinato ad occupare nella costellazione famigliare.
Appunto,
il possesso materno può sbarrare la strada al debutto
del figlio verso il soggetto. L’affermarsi del ruolo
del padre come ponte verso il mondo è alla base stessa
del sorgere dell’intelligenza umana nel processo
evolutivo di affrancamento dalla pura condizione
animale. È ciò
a cui allude anche Collodi quando attribuisce alla
creazione del padre (e al suo desiderio per un figlio)
la capacità di trasformare la pura e semplice materia
organica inanimata in un’emozionante avventura umana.
Naturalmente, quella di Pinocchio è un’avventura che
finisce in carne ed ossa, seguendo un percorso a
ritroso: dal semplice
stato di natura alla nascita dell’uomo.
L’epilogo è nella premessa: il riscatto
del soma;
non a caso il burattino di legno giunge a tanto dopo
essersi saputo liberare anche del corpo di somaro.
La
storia di Pinocchio è una valida metafora del percorso
terapeutico nell’analizzando. “Com’ero
buffo quand’ero un burattino!” È la sensazione
di stupore verso la precedente condizione pre-occupata
di disagio, quando la persona può permettersi di
considerarla dal punto di vista di un benessere
acquisito. Nelle intenzioni più profonde e sentite
dell’autore, Pinocchio divenuto bambino consegue anche
il riscatto degli adulti in un clima idealizzato di
rapporti familiari ed affettivi.
Le
politiche sociali invece prevedono l’offerta del
narcisismo del godimento edonistico dei consumi come il
punto da non superare. Limitano lo sviluppo umano alla
curva del saggio di profitto; restringono le aspirazioni
dell’uomo a quelle degli asini nel paese del Bengodi.
Confondono la società di esseri umani per il rendimento
delle loro azioni (società per azioni); non sistema di
soggetti, ma reificazione in merce dei soggetti
potenziali produttori di lavoro. Imporre lo sfruttamento
come scala nei rapporti umani equivale ad affermare
l’identità tra vocazione animale e propensione
sociale dei predoni
in quanto avanzano pretese di usufrutto o di proprietà
sulle facoltà del proprio simile; l’equivalenza si
dimostra in modo ancor più evidente ed obiettivo quando
sono assenti e per sempre superate, grazie al progresso
tecnico, le antiche costrizioni naturali del bisogno.
A
tal punto la predisposizione fisio-affettiva dimostra, a
chi abbia occhi per vederla, il suo primato di elemento
dialettico rispetto al mero e sterile principio
dell’economia. Prima che sociale, l’alienazione è
prodotto del possesso famigliare. Anche l’economia del
possesso è un sesso!
Economico
è il terreno dello scontro pulsionale.
Il
muro della forclusione
Il
racconto cristiano, apologia del dominio, attribuisce
senso alla dignità umana in qualità di sacrificio fino
a reificarla su una croce di legno e nell’icona di un
lenzuolo.
Altrettanto
naturalmente è dato il percorso opposto
all’emancipazione. Il trabordare incontrastato del
narcisismo materno, che si realizza solo a patto
dell’esclusione del padre, vanifica nei figli il
cristallizzarsi della forma nel reticolo dell’Io,
cioè della proprietà del soggetto, attraverso il
linguaggio, di abitare nel transito tra interno ed
esterno, tra sé e la relazione sociale significativa.
Si inaugura la psicosi. Dice Lacan:
È
in un accidente del registro simbolico e di ciò che vi
si compie, vale a dire la Forclusione del Nome-del-Padre
al posto dell’Altro, e nello scacco della metafora
paterna che noi designiamo la falla che dà alla psicosi
la sua condizione essenziale insieme alla struttura che
la separa dalla nevrosi.
La
cosiddetta forclusione
del nome del padre è per Lacan all’origine delle
psicosi. La psicoanalisi lacaniana ha sviluppato un
interessante filone di ricerca sulla continuità
evolutiva tra centralità del ruolo emancipatore
paterno, il concetto dell’Altro,
lo sviluppo sessuale e lo sviluppo psichico correlato.
Di fatto, al di là di ogni complessa descrizione della
mappa del simbolico, è intuitivo che, nel necessario
processo di differenziazione dell’individuo dal corpo
della madre, il nome del padre sia il primo elemento che
viene a sottolineare l’alterità e l’originalità
del nato: per diversificare un nuovo soggetto dalla
totalità creante conviene almeno chiamarlo con un altro
nome.
Con
il concetto di forclusione
riferito alle psicosi, che Lacan affianca a quello di
rimozione riferito alle nevrosi, si pone la questione
della cancellazione,
cioè del grado di esclusione di qualcosa di essenziale
nella costruzione del soggetto, del suo diritto di
tendere al limite più prossimo della riuscita verso
l’intelligenza, la libertà, la felicità. Il cancello
della rimozione nelle nevrosi diviene muro
della forclusione nelle psicosi. Insomma
l’orizzonte limitato dell’essere umano spazia dal
labirinto, al giardino di cemento, al carcere, alla
cecità, quando la pretesa materna di appartenenza si
realizza ad oltranza e non può che sortire l’effetto
di uccidere il meglio dell’esistenza.
Nel
processo di differenziazione verso la costituzione del
soggetto il referente affettivo di parte maschile è il se-stante
per fare la posizione, per dare certezza focale alla
definizione del punto di vista. La spazializzazione
della propria identità non arriva a precisarsi senza la
sponda dell’altro.
Prediletti
dal(le) signore
Il
padre non è acqua (la madre invece sì). Narciso era
figlio del fiume
Cefiso e della ninfa
Liriope,
quando si rispecchia nell’acqua della chiara fonte non
distingue lo spessore del padre, fraintende la propria
immagine; l’inconsistenza paterna fa sì che il suo io
manchi l’incontro con l’Eco, la ninfa
(come la madre) che di lui è invaghita; egli rimane al
punto di fraintendere la trasparenza dell’Ego con Eco.
Il
difetto narcisistico non è solo questione di fallire
l’identificazione di ruolo, più oltre
l’inconsistenza, con la forclusione del padre nel
ruolo dell’altro, c’è la psicosi. La dimostrazione
elementare ci giunge come esempio nella figura del
soggetto autistico la cui rappresentazione sulla scena
della vita è quella di un corpo privo di soggetto
incapace di relazione, perché è la successione di un
feto, di un clone organico, che non è mai nato alla
differenza di chi lo ha generato. Corpo di legno con
funzione di supporto. Bastone
della vecchiaia attribuito come funzione, tra i
tanti figli, ai prediletti dal(le) signore.
Pur
di non accedere alla lettura di questa realtà si fa
ancora troppa confusione tra gli estremi di una
attribuzione di responsabilità al genitore come colpa e
l'immobilismo rispetto ad ogni reale prevenzione. Maud
Cannoni, con equilibrio e proporzione, ha posto da
tempo, nei termini essenziali, la questione della
patogenesi nel rapporto tra il bambino ritardato e la
madre, riuscendo ad ottenere di rimando incomprensioni e
resistenze da parte di un sistema che si regge sulla
consapevolezza del valore stabilizzante e funzionale
della malattia come modalità di scarico di ogni
anomalia strutturale. Ecco di seguito un breve passo
della presentazione che Colette Audry dedica al libro
della Mannoni:
Improvvisamente
accade che essa [la
madre] interrompa
una psicoterapia ben avviata, che sprofondi essa stessa
nella malattia mano a mano che lo spirito del figlio
rivive, che si abbandoni al suicidio la vigilia della
guarigione. Non era forse disposta a salvare il figlio a
qualunque costo?
Non
a qualunque costo, evidentemente (…). Si scopre così
che l’esistenza della madre inglobava anche la
debolezza mentale del figlio (…).
Il
parto, in particolare, è un evento di sangue che si
fissa come straordinario imprinting nella perenne
influenza che il pensiero della madre avrà sempre sul
destino del figlio. Una sorta di telepatia affettiva che
la scienza rileva con evidenza oggettiva solo nei
rapporti di forte identità (come nel caso dei gemelli
monozigoti), ma che nella realtà connota l'immanenza
soggettiva spirituale del ruolo materno, in ogni tempo,
in quanto corpo dell'identità; nella trinità
cristiana, anche sangue e corpo del figlio. Metonimia,
scambio di nome e della causa per l'effetto.
La
piaga, ferita aperta, nel corpo maschile, nel costato o
nelle mani, è lo stigma di questa possessione
ginocratica. È il segno della slabbratura nel
narcisismo del corpo creante, cavo per intrinseca natura
come il suo sesso, che per il fatto di procreare non
può che sforare
per estensione la coscienza di sé in continuità col
prodotto e la sua possessione. La valenza traumatica del
parto, come tutta la sessualità femminile, diviene
destino del mondo attraverso la proprietà affettiva dei
corpi; la sessualità della donna specifica gli eventi
sullo schermo del reale come in proiezione
cinematografica.
"Partorirai
con dolore" è la maledizione lanciata non solo
contro la presunzione di autonomia della nuova coppia
che si accinge a procreare, ma contro l'aspettativa di
felicità dell'intera specie umana. Il primato
fisiologico sui nati si fa destino degli individui
stessi e del corpo sociale. Si fa storia. Il paesaggio
del mondo trova una lettura coerente e biunivoca se
confrontato con il ricalco della fisiologia affettiva e
sessuale della madre. Questo è il mistero
dell'immanenza divina. "Partorirai
con gioia" è il migliore augurio di
emancipazione per l'intera umanità. Sostegno,
assistenza e felicità alla donna in gestazione. La
liberazione ed il benessere della donna è panacea per
la condizione umana.