Il
vizio d'origine nella metafora sociale
La tara ereditaria: lordo, rifiuto e incesto
Nel
caso letterario dell'automa (auto-ma),
la creatura è parto di una fantasia di incesto al
femminile; allo stesso modo in cui il
frutto del seno di Maria è concepito ad opera dello
spirito santo madre, Frankenstein, novello messia, non può
che finire male, la storia difatti volge in tragedia, e
questa volta senza pathos che possa indurre
all'identificazione masochista dell'eroe che muore come
catalizzatore dei mali del mondo. Frankenstein è un errore
della scienza, Cristo è un mito del matriarcato occidentale
che viene ancora imposto, fuori da ogni metafora del
simbolico rituale, come modello pedagogico ed etico
effettivo, reale, di validità universale; come se davvero
l'umanità tutta si possa giovare della morte di qualcuno,
che per di più si rappresenta nel ruolo del figlio, votato
al martirio per volontà della trinità famigliare (anche se
la deliberazione della sentenza è attribuita al padre).
Quanta
perversione è insita nel mito cristiano!
Per
Maria vergine
come per Mary
Shelley il figlio è il frutto di un incesto con la madre e
come tale non è desiderabile; l'autorità subita come
destino sessuale non può che generare, in proporzione,
quantità pulsionale di rifiuto verso l'oggetto aberrante;
sui figli e sulle figlie nati come poveri
cristi in ogni tempo si accumula un destino di
distruzione, di malattia o di morte precoce. In quanto figli
dell'incesto essi subiscono il rifiuto, la negazione o
l'indifferenza nel rispecchiamento di chi li ha partoriti.
Chi, suo malgrado, li ha creati ne determina immagine e
destino.
L'identità
è viziata da una tara ereditaria; la tara è il contenitore
e il lordo è l'incesto. Nelle misura
di capacità, come allegoria, è il lordo
che consegna a vita il netto
nel grembo di una tara.
C'è
un resto, uno scarto, un rigetto necessariamente imposti da
un imperfetto sviluppo affettivo famigliare che impedisce
una formazione indipendente e matura nei nuovi soggetti a
cui sarebbe spettato, a loro volta, di divenire procreatori
attraverso l'amore e la libera scelta. Il paradigma del
capro espiatorio vuole che sul figlio vengano convogliate le
eccedenze di rifiuto (i
peccati del mondo). Insomma, si buttano ogni giorno
nella spazzatura, come spazzatura, i figli indesiderati di
un rapporto di incesto con il genitore. La negazione della
soggettività dei figli da parte dell’identità materna è
esattamente materia d’incesto.
Il
rifiuto, comunque
inteso – nelle accezioni di inquinamento, di opposizione
politica e sociale, di devianza – è, in proporzione,
l’inevitabile correlato, è
l’indicatore sociale dell’incesto o della mancata
emancipazione come difetto d’origine nello stile
famigliare. È l’ossessione dello sporco o del pulito. L’ingombro
dei rifiuti, ogni atto di rigetto (compresa la reazione agli
innesti ed ai trapianti) sono dunque proporzioni autoimmuni
reattive dell’incesto. Difetti di spaziatura.
Né potrà esistere una etica del riciclaggio se non come
superamento edipico della perniciosa invadenza del possesso
matriarcale che, elevato a sistema, tutto inquina.
L’invadenza
del possesso matriarcale sulla figlia, ostentata nella
prescrizione religiosa della predilezione dello spirito
santo sulle faccende sessuali di Maria, è una realtà molto
diffusa anche nelle rappresentazioni odierne delle
ritualità della fecondazione in forme differite, per
esempio come negazione del parto attraverso l’aborto, che
è cosa diversa dalla contraccezione. Il fatto negato
nell’interruzione di gravidanza è comunque una condizione
somatizzata del faticoso percorso di autodeterminazione
della donna attraverso la necessaria fase di
riappropriazione del proprio corpo. Riappropriazione da chi?
Da quale possesso? La donna rivendica una proprietà di
ruolo e una libertà di scelta.
La
mancanza di tale proprietà motiva l’antico rito del
sacrificio del primogenito sull’altare del dio: il primo
nato era più figlio di dio che della nuova madre; il peso
d’influenza della famiglia di origine poneva l’onere di
una ipoteca sul bambino, che veniva così, in qualche misura
espropriato al pieno riconoscimento della madre naturale.
Del resto, come potrebbe la chiesa celebrare la morte di
Cristo, nel rito dell’aborto differito (nella placenta
sindonica), se Cristo non nasce perché preventivamente
abortito?
Per
questa ragione il cristianesimo avversa l’interruzione di
gravidanza in quanto legge dello Stato, il quale (in questo
caso investito da una funzione laica paterna) ne espropria
l’antico diritto ad esercitare sui figli una economia del
controllo anche attraverso la schiavitù sessuale.
Nell’evento di una nascita mancata, il dettato matriarcale
vede frustrato il mai sopito desiderio di ingerenza sui
destini sessuali ed affettivi della figlia, in particolare
su ciò che la può rendere parimenti autonoma, libera e
potente: il pieno possesso della facoltà di procreare. Gli
sforzi di emancipazione della donna, pur senza mai nominare
il referente reale contro cui è diretta la tutela, tendono
ad emendare la propria condizione attuale da quella
d’origine dell’incesto famigliare.
La
sacra famiglia origine dell'antropofagia sociale
Tale
sistema d’incesto è palese prescrizione nel modello della
sacra famiglia: partorito ad opera dello spirito santo (dio-madre),
nella piena negazione della sessualità della figlia (Maria
vergine), nell'indifferenza di un ruolo paterno fittizio
(Giuseppe), nato
nel lordo
dell’incesto (la
stalla) e viziato da una tara
famigliare, il figlio Gesù,
povero cristo per
antonomasia, che fine può fare?
Per
tali nipoti la nonna
è il lupo! È la vecchia strega che Gretel ed Hänsel
spingono nel forno della sua casa di cioccolata; la stessa
che, per esorcismo, si brucia nei roghi ad ogni carnevale.
Il nipote, frutto dell’incesto tra nonna e madre, è un non-nato
nel doppio senso di mai
nato alla vita, perché non-voluto dal libero arbitrio
della madre, e quindi nel senso più vero di figlio della
volontà sessuale dei nonni; nonna-to,
appunto. Di figli dell'incesto è pieno il Cottolengo; in
visita alla Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino
(il Cottolengo), Amerigo, personaggio autobiografico di
Italo Calvino,
medita fra sé al cospetto delle suore:
Siamo
come Cappuccetto rosso in visita alla nonna malata… Ogni
nonna malata è sempre un lupo.
Le
suore non possono che accudire i figli degli altri, in
quanto sono madri solo per (o)missione, non per scelta
sessuale; per convenzione esse sono votate alla divinità,
recluse nel labirinti, più o meno simbolici, dell'incesto
con la trinità famigliare. L'abuso di questa forma di
possesso matriarcale genera nevrosi e aberrazione. Nella
favola di Cappuccetto
Rosso c'è almeno il riscatto della ri-nascita
ad opera del cacciatore
che apre la pancia al lupo alla stregua di un parto cesareo.
Il suo intervento è provvidenziale e riparatore, però
riporta al tema del ruolo maschile vissuto come violento,
come se, a mali estremi, la forza giungesse a supplire a un
ritardo nella differenziazione.
Attenzione!
Più si nega nel tempo la fase evolutiva della ma-turazione
e del distacco, più violento sarà il processo di
liberazione. È anche la legge di ogni rivolgimento della
storia. Il modello sociale basato sul privato e sul
controllo non lascia scampo: o rivoluzione o distruttività
(guerre, razzismo)
e implosione autodistruttiva (inquinamento,
malattie emblematiche come il tumore) che diventa
modalità obbligata di scarico ai difetti strutturali del
sistema.
L’egoismo
del possesso, la cui genetica è nell’indifferenziazione
matriarcale, instaura il cannibalismo sociale, per cui il
danno di alcuni (malattia, sfruttamento, indigenza
programmata) diviene strutturalmente condizione di
privilegio e vantaggio per altri e per l’intero regime. Fa
buon gioco, a questo punto, ribadire, con la morale
cristiana, la natura fondamentalmente cattiva dell’essere
umano. Il pessimismo cristiano non è che l’apologia dello
sfruttamento sull’uomo, nella presunzione indotta che ogni
nostro simile ci sia naturalmente nemico (Homo
homini lupus).
Tale
premessa è ovviamente sbagliata. È la condizione di cattività,
di schiavitù, di appartenenza settaria che deprime il
soggetto e lo oggettiva in rapporti di aggressività. Il
cristianesimo, in qualità di prodotto ideologico del
dettato fisiologico matriarcale, ripropone questa
alienazione sotto forma di suggestione mistico affettiva.
La
nozione di pulsione di morte, così strettamente connessa
all’istinto sessuale di riproduzione, dimostra invece la
base genetica alla generosità verso la vita; proprio in
vista dell’ineluttabile cambiamento di stato fisico
rappresentato dalla morte, l’uomo tende a resistere alla
morte generando altra vita. Non può che essere ben disposto
verso la specie.
Si
può negare la morte con la qualità e l’intensità della
relazione sociale. Il tempo è infatti intensità e qualità
della relazione.
All’opposto,
se si nega la nascita nell’unicità indifferenziata, anche
solo il naturale cambiamento di un distacco generazionale è
vissuto ed esorcizzato alla stregua della morte; fino a che
la crisi, la malattia o la sciagura attuano il cambiamento
necessario come negazione della vita.
Nascere
con dolo; meglio essere Barabba
La
mancata emancipazione socio-sessuale produce, nel luogo
della relazione sociale, lo scarto di una opposizione
funzionale tra vittima e carnefice, tra padrone e schiavo,
tra furbo e truffato, di Caino contro Abele. Sul Golgota è
“il giusto”, in quanto tale, ad essere condotto
all’esito estremo del martirio; mentre la folla salva
Barabba, il malfattore.
Secondo
la denuncia irriverente di Collodi, anche Pinocchio viene
condannato e imprigionato nella città di Acchiappa-citrulli
in virtù dell’evidenza di essere un innocente truffato
delle sue monete d’oro; ma quando è l’ora
dell’amnistia per i detenuti, si trova sprovvisto della
premessa necessaria per giovarsi di tale beneficio: quella
di essere un malandrino. L’ironia del politico
nell’autore ha qui il sopravvento sulla violenza endemica
del pessimismo morale:
«Se
escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io,»
disse Pinocchio al carceriere.
«Voi
no,» rispose il carceriere, «perché voi non siete del bel
numero…»
«Domando
scusa,» replicò Pinocchio, «sono un malandrino
anch’io».
«In
questo caso avete mille ragioni,» disse il carceriere; e
levandosi il beretto rispettosamente e salutandolo, gli
aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.
Meglio
essere Barabba che Gesù. Da dove deriva questa visione
della legge per cui la pena è fine a se stessa e prescinde
dal senso evoluto di giustizia sociale?
Giusto
e ingiusto sono categorie sessuali. Alludono al fatto che la
prigione-utero debba essere piena o vuota del suo oggetto di
ritenzione. Il mal
vivente è disadatto a vivere in libertà perché è
proprio l’accesso alla libertà che gli è stata negata
sin dagli esordi alla vita. Già nascere è un mis-fatto:
egli è un mal nato,
secondo quel disegno creatore che sovrappone l’identità
del figlio alla colpa originale. In proporzione a questo
dolo, il nascituro è colpevole per designazione apriori.
Se, per esempio, si pensa alla quantità biblica di colpa
attribuita alla prima donna Eva, abbiamo l’unità di
misura esatta del debito di peccato che grava sul prodotto
della riproduzione umana.
Tuttavia,
la cacciata dal paradiso è ancora il male minore. Nella
psicologia della donna cattolica, ancor meno emancipata
perché lo spirito santo madre non attua il distacco con
l’estromissione, ma addirittura mantiene il diritto di
prelazione, esproprio e controllo sulla fecondazione della
figlia, il figlio-prodotto nasce con il marchio del peccato
e nell’incesto omosessuale. È colpevole perché
inqui-nato da una segreta quanto smisurata violenza ad opera
del pos-sesso della madre. Con una simile premessa la
riproduzione può diventare (e così è stato per lungo
tempo) la principale fonte di schiavitù e di reclusione per
la donna. Il dolo
(la colpa), il dolore
e le doglie del
parto (espiazione) coincidono in un unico destino sessuale
di condanna contro la donna che si appresta a diventare
madre in un inconscio clima di odio e concorrenza da parte
della sua stessa fattrice! La consapevolezza umana non ha
ancora risolto sul piano della coscienza questa antica
inconfessabile verità. Ciò che sommamente potrebbe rendere
libera e importante la donna diventa, nella forma
espropriata in cui la maternità si attua, una esperienza di
rinuncia e di segregazione a ruoli subalterni ed alienati.
La
religione mantiene l’efficacia dinamica di questa realtà
distruttiva ben al di fuori della sfera del dicibile, nella
palude della colpa attribuita in maniera preventiva e
proiettiva sui figli, ossia nell’impostura del credo.
La
rivalsa distruttiva di questa condizione non può che
ricadere con immanente efficacia sul destino dei nuovi nati
e quindi sul mondo intero del reale; in questo modo, il
ciclo di infelicità, esproprio e distruzione si riproduce
come iter doloroso previsto, prescritto e confortato dalla
religione che si impone nella sua truffa-legittimazione. La
suggestione riesce rigorosamente in un ambito privato di
cattività famigliare a cui viene ricondotta tutta la
realtà, ricusando ogni esordio verso le molteplici
differenze dell’esterno.
La
pena è pari alla mancanza poiché l'ingiustizia è nella
premessa
Di
fronte alla riuscita sociale del delinquente, perverso o
deviante, nella fattispecie del ladrone,
del cinico di carriera (furto legalizzato del lavoro altrui
nell’accumulo di capitale), è un delitto ancora peggiore
che il figlio sia un giusto o un innocente, tale presunzione
non è tollerabile perché mette in risalto in modo
inconfutabile che la
causa del sentimento di ingiustizia non è in ciò che si
commette, ma è nelle premesse delle origini.
Barabba
viene graziato perché è più simile alla vera natura del
suo creatore. Non c’è giustizia e non c’è innocenza
nel nodo irrisolto dell’esproprio della proprietà di
ruolo sessuale. Il difetto di emancipazione grava sul clima
affettivo della procreazione. Per la morale teologica
occidentale, il processo di fecondazione, gestazione e parto
è viziato da forti implicazioni di colpa e di ingiustizia:
la prima deriva dal designare come arrogante l’affermarsi
della sessualità in autonomia biologica dall’appartenenza
primaria (cogliere la
mela, la questione sessuale, è assimilata quindi
all’insubordinazione eversiva); l’ingiustizia discende
dal disvalore e dal disprezzo che, nella percezione della
figlia, connotano il sesso femminile perché ripudiato dalla
madre quale potenziale concorrente al ruolo di regina del
dominio.
È
difficile per la donna accedere ad una buona identificazione
della sessualità femminile in mancanza di una generosità
strutturale nell’amore di casa.
La
colpa è il desiderio del fallo. È la rea trasgressione
che colpisce la figlia, nel desiderare per sé il fallo del
padre il quale già appartiene al patto coniugale (col-pa
dre); e tuttavia la migliore madre può amare, con
enorme beneficio, la figlia anche attraverso l’induzione
seduttrice del marito-padre. L’interesse del padre, la
natura del suo amore per la figlia, è anche la misura
possibile del grado di altruismo che i genitori concedono
alla femminilità in formazione come spettanza di felicità.
Generosità è la
parola esatta, perché prelude alla comparsa di un genero
nell’orizzonte affettivo. In virtù di questo atto di
generosità, che la madre concede in misura della propria
qualità, la figlia potrà amare se stessa, l’oggetto
ideale e la sessualità senza macchiare la propria intima
struttura con l’insulto della colpa; ella potrà, a sua
volta, giungere al parto senza che questo debba realizzarsi
come atto di dolo(re) e debito di colpa da espiare con la
moneta della sofferenza, dell’infelicità e del
sacrificio, nel dettato biblico della maledizione.
L’umiliazione
del narcisismo nella fase di costituzione dell’identità
femminile è l’unico vero motivo che può far sì che la
donna risulti strutturalmente incapace di amare o di
accettare di essere amata.
L’ingiustizia
(in-giù-sto) è la mancanza anatomica del fallo. Si
invoca la giustizia penale
quando la mancanza
subita è sentita in modo grave in proporzione al disvalore
del sesso femminile accusato nel ripudio ad opera
dell’identità primaria; del resto, il giusto sta
nel mezzo e si tratta, con ogni evidenza, di un diritto.
La giustizia, al pari della verità, è il fallo. Per questo
si pretende, a priori, che non ci sia giustizia per la
donna.
Solo
un’adeguata pena,
proporzionale alla mancanza sentita come ingiusta del pene,
può dare l’illusione di compensare la ferita: la pena
della vita e i rivoli di sangue che sgorgano dalle piaghe
del Cristo in croce (specie dalla ferita nel costato da cui
Eva “è nata”) sono la reiterazione nel rito di questa
sadica illusione.
Nella
civiltà sociale la giusta legge è opera del padre, la
giustizia è riconosciuta come legittima e, come tale, il
primato del fallo motiva alla pace (pa-c’è); nella
regressione matriarcale la fonte del diritto è invece il
sesso di una madre colpevolizzante ed esigente: la
reiterazione infinita del debito del parto e l’incolmabilità
della falla narcisistica, conseguenza della mancanza
anatomica del pene costituiscono il deficit a cui il
figlio-fallo può porre rimedio solo al prezzo di un
esproprio dell’intero valore della sua esistenza.
Presunzione
è l'innocenza
Nella
spirale virtuosa dell’emancipazione, è proprio la
mancanza anatomica nella donna a generare l’attraenza come
potenziale della differenza sessuale; la mancanza è causa e
motore del desiderio del fallo, motiva il senso della vita
nella differenza di genere. L’ingiustizia cessa di essere
tale per volgersi in ruolo responsabile di potenza nella
simbiosi d’amore e con la creazione del fallo-bambino
desiderato. Quanto più invece il compimento generazionale
è viziato dallo spossessamento, dalla colpa e dal divieto,
tanto più la compensazione dell’ingiustizia decreta
l’impossibilità all’amore e si rivale nella negazione
sanguinosa del figlio in quanto fallo
commesso. L’ingiustizia si
cronicizza, diviene cronaca nera della violenza
privata nel sociale.
Il
sadismo si sostanzia nel godimento reiterato del rito della
morte del figlio che, per definizione, è un innocente. È
evidente che il motivo della distruttività non è
nell’agnello, non ha importanza cosa egli abbia commesso,
ma nella disposizione del lupo che lo sbrana. In accordo con
questa logica tribale, la teologia cristiana non può
condannare la pena di morte perché non può esserci pena
più adatta della vita stessa a soddisfare le cicliche
voraci e istintuali esigenze di un infelice e crudele
creatore.
Il
lupo vuol darsi ragione, ma non bisogna farsi ingannare
dalle apparenze di buonismo che sono spesso dichiarate nelle
teologiche intenzioni: anche sotto le nominali sembianze di
certi agnelli
(tali solo di nome) possono celarsi le più inconfessabili
voracità e le verificabili attitudini alla predazione.
Il
figlio ingiusto,
espressione speculare del reale sentire dell’origine, è
dunque legittimato ad occupare, in modo egemone, il
baricentro nella società immatura, dove l’ingiustizia è
istituzione. Questa considerazione deve aver motivato il
cantautore De Andrè il
quale, nella celebre “Storia
di un impiegato”,
si volge contro la società del possesso capitalista,
affermando che il potere si regge in particolare sulla
propensione di alcuni individui a riconoscere e perpetrare il
crimine giusto per non passare da criminali.
Il
processo di accettazione dell’individuo in una siffatta
norma sociale premia colui che ha peccato commettendo
ingiustizia e che, in quanto pentito, viene reintegrato; il pentitismo
è assunto a regola di dignità giuridica; in ciò si
realizza il fantasma materno, rispecchiando negli effetti la
convinzione di una fedina d’identità macchiata che la
madre ha di sé.
Lo
sanno bene i venditori della candeggina che negli spot
mettono l’anziana signora a sindacare sull’efficacia che
il prodotto ha di rimuovere la macchia corporale nelle
presunte vergini lenzuola della giovane nuora. La vecchia
candeggina è sempre aggressiva nel lavare
e assolvere la colpa ma, per vendersi, deve assicurare che
non produrrà nuovi buchi nelle risultanze sessuali del già
bucato.
L'immacolata
mistificazione. Chi-è-sa!
Di
fronte al vissuto esistenziale di colpa e alle sue
implicazioni pulsionali come potrebbe la madre-Eva
riconoscere come proprio ed accettare come suo prodotto
naturale un figlio concepito senza
macchia né peccato? La trama biblica del racconto
svolge, come è noto, il quesito nelle conseguenze di
relazione tra il figlio buono
di Eva, Abele, che viene ucciso dal figlio cattivo, Caino.
Allo stesso logico quesito (cioè come possa nascere un
figlio emblema di giustizia, se lo stesso è il prodotto
della colpa), la teologia romana fornisce la sua più
celebre interpretazione secondo cui, non solo il figlio, ma
Maria stessa concepirebbe immacolata,
senza peccato sessuale (la pretesa di non aver tradito,
per emulazione, la supremazia sessuale della madre); è
probabile che la dichiarazione di un tale postulato sia
formulata nell’intento speculare di poter accettare il
valore di innocenza nel proprio figlio…, ma il bluff è madornale!
Nei confronti di una dichiarazione di verginità genitale
che si presume resti intatta prima, durante e dopo il
concepimento, non c’è credo né volontà di fede che
tenga nella più ingenua e pia delle fanciulle. Pertanto la mistificazione
tentata sull’interpretazione del corpo impatta
inevitabilmente con il vero nella mistica
tragedia. Impossibile aggirare i meccanismi distruttivi
della colpa se è la natura umana in sé che viene negata
come tale, pur di non mettere in discussione il vero
problema di ogni mancata emancipazione: l’egoismo e il
potere sequestrante della madre.
Piace
di più credere a
Collodi e alla sua fantasia onanistica e androgina che si
possa fabbricare un figlio con l’artigianale sapienza
delle proprie mani.
Tra
il figlio cattivo e Gesù intercorre la differenza che
c’è tra un mal-nato e un non-nato: il primo ha diritto a
vivere (non sempre maledetto), in quanto espressione
socializzata e aggressiva dell’ineluttabilità
dell’ingiustizia sessuale; il secondo rappresenta il
fallimento dell’ideale d’innocenza già annegato nelle
acque amniotiche dell’incesto, il suo destino è di morire
(udite!)… per la
salvezza dell’umanità e per il bene comune. Muore in
realtà (e ne muoiono tanti) nella sadica illusione che si
possa colmare la falla sessuale della madre santa e dolente.
Rifiutando
la nascita come scissione si giunge invece alla perversione
del parassitismo con l’emofilia del vampiro, che è
metafora dello sfruttamento delle capacità vitali altrui:
per esempio, nel modo in cui il lavoro è intra-preso
e tramutato in oro ad opera del capitale privato
(nel senso verbale del participio). L’alimentarsi per
sangue, tramite il cordone del rapporto di lavoro, diviene
modello della relazione sociale di sfruttamento nella
produzione.
Specularmente,
rispetto al codice del vampiro,
al soggetto alienato nella religione non resta nel presente
che la sconfitta ed il sacrificio e, dopo la morte, un
rimando alla resurrezione.
La
morale cristiana si eleva a totale edificazione di un dio
che impone il suo comando sul reale attraverso il primato
del controllo matriarcale, che si perpetua nel mistero del
possesso sui corpi e sulle menti, prerogativa che appartiene
alla madre in quanto corpo che procrea entrambi i sessi. Un
corpo che non ha nome se non il nome di tutti, non ha sesso
se non il sesso di tutti. È corpo e spirito insieme. È
dio. È l'inganno giocato sul fatto che nell'evento del
parto il figlio è protagonista passivo, testimone senza
memoria dell'atto della sua creazione; oggetto non ancora
sostantizzato, egli è nella posizione di credente
verso l'unico racconto che è quello della madre.
Chi-è-sa,
chi non è non sa
e deve credere.
Il padre, attore del fallo, è
l’unico testimone che possa dire quanto la pretesa di
unicità del possesso materno sia falsa; tale possesso non
le compete se non come responsabilità in ogni caso
condivisa con il fallo stesso all’atto della procreazione.
È una corresponsabilità fisiologica, affettiva e genetica.
È invece una impostura limitare in malafede la sostanza
della creazione al soggetto della gestazione. Si vuole
scambiare una proprietà di ruolo, legittima nelle
competenze della differenza sessuale, con un diritto
assoluto al possesso. Per far questo sono necessarie due
operazioni: elidere il fallo ed estrometterlo dalla
responsabilità che lo associa alla creazione; quindi
sostituirlo con la costruzione di un falso clamoroso, la cui
credibilità è sostenuta, appunto, dal credo.
Il falso più clamoroso è
affermare che il credo (o il credere di sapere), cioè la
fede nel racconto della madre, possa escludere la realtà
della ragione, per un debito del corpo che si presume sia
stato contratto in assenza di coscienza del soggetto, per
cui la scena primaria (quella della propria nascita, non
solo la scoperta della subordinazione al fallo del sesso
della madre) debba per sempre rimanere fuori dai territori
liberati della propria consapevolezza. Si può in questo
senso affermare, con la psicoanalisi freudiana, che la
verità è fisiologica, la verità è terapeutica, la
verità è rivoluzionaria!
Il matriarcato disconosce e
cancella la verità sessuale, rende il suo accesso colpevole
alla figlia, fraintende il fallo come proprio o come
punizione. L’atto unico del parto si attribuisce origini
divine e quella che è una proprietà di ruolo diviene
possesso realmente esteso sugli altri esseri umani il cui
pari diritto all’esistenza viene negato da una entità
superiore, totalitaria, che non ammette deroghe al suo
dominio. Tale assolutismo è solo la dittatura del corpo di
gestazione il quale pretende che questa non sia una funzione
nella dialettica umana della differenza sessuale, ma un
potere di proprietà anche sulla vita e sulla morte di tutti
e di ciascuno che gli compete.
Tutte le teologie sono tese ad
affermare questo dominio, usando l’oppio suggestivo del
credo, fin dalla più tenera età, senza alcun rispetto per
la soggettività degli esseri in formazione e nella
convinzione che tutto gli sia permesso al di sopra di ogni
legge della ragione. L’intero sviluppo
dell’emancipazione, della conoscenza e della libera
espressione è teso a restituire all’umanità dei simili
la piena dignità del loro essere in opposizione
all’oscurantismo delle chiese e alla cattura sequestrante
di ogni dominio di oppressione. Il marxismo, non a caso e
con estrema chiarezza, ha indicato il superamento della
questione del potere a vantaggio dell’intera umanità
nella centralità dei mezzi della (ri)produzione. Chi in
particolare esercita il potere di ingerenza, suggestione e
controllo sulle intime “cose” della giovane donna, sul
ciclo della sua sessualità, impone anche il suo influsso
sull’intero ciclo della biologia umana; su questo registro
dell’esproprio e del sequestro delle cose altrui, si
autoreferenzia l’economia di “cosa
nostra”, la mammafia
della costrizione, della teologia, dello sfruttamento.
Il genere umano da sempre
persegue sulla via dell’autovalorizzazione la piena
emancipazione del ruolo sessuale e dell’azione
generazionale. È nel più alto interesse collettivo che
ciascuno sia responsabile dell’intero possesso delle sue
azioni.
La
chiesa cattolica, in particolare, nell’affermare la sua
forma socializzata del dominio matriarcale, è costretta a
confezionare, come regola, il falso storico; già dal falso
editto di Costantino, la chiesa trova il modo di attribuirsi
una impossibile legittimazione affinché lo spirito, entità
astratta pretesa sovrumana, sia soggetto giuridico
possessore di beni molto materiali, giungendo fino al punto
di farsi stato e di ingerirsi nelle vicende di ogni altro
Stato. Il regno del dio cristiano diluisce nel mistero del
credo la ineludibile coscienza di essere basato
sull’impostura e la falsità.