IL
difetto di emancipazione, l'omosessualità
Il
figlio di Mary
Quale
differenza tra Pinocchio e la mostruosità distruttiva di
Frankenstein! L'altro famoso parto fantastico della
letteratura opera di Mary Shelley (1818).
Si fa ancora fatica a capire che non vi è fantasia che non
sia men che reale, che non c'è realtà virtuale che non sia
anch'essa parte integrante del vero. Il mito di Frankenstein
non può che appartenere alla materialità delle proiezioni
umane. Come Pinocchio, è l'artificio di una fantasia reale
che elude, per ipotesi fantastica, la strettoia fisiologica
del parto. In questo caso però la negazione del parto è
sorretta da una distorta idealità della conoscenza umana,
è motivata da fantasie di negazione del ruolo materno,
vissuto come distruttivo sul piano sociale, senza neppure
essere veicolo di una disposizione d'amore verso il figlio.
La
creatura è
mostruosa, deforme. Ci riporta all'incesto; al Minotauro e
al labirinto come negazione dell'esterno, a Polifemo che
trattiene uomini e greggi (ma è incapace di distinguere
l’essere umano dall’animale) e all'utero-caverna (che
potrebbe essere una chiesa il cui unico occhio è nel rosone
della facciata). Frankenstein è il prodotto di un
conflittuale rapporto figlia-madre. Il suo mito è il parto
della fantasia di una donna che anche nella realtà
biografica ha problemi con il parto naturale. Essa nega la
maternità come donna in difetto di identificazione di sesso
e di ruolo. Non ci sarebbe altrimenti motivo di eludere la
naturale fisiologia della procreazione: tale funzione
femminile le appartiene. Non appartiene invece a Geppetto in
quanto uomo.
Aldo
Naouri, pediatra e psicoanalista francese che ha studiato la
natura profonda della relazione tra Le
figlie e le loro madri,
giunge a considerare correttamente fino a che punto la madre
sia il centro nevralgico di tutto il dispositivo
relazionale:
Al
punto che i bambini avranno con lei, all'inizio della loro
vita, un rapporto assolutamente identico sotto tutti i punti
di vista. È il suo corpo che li ha portati dentro di sé,
maschi e femmine, è il suo corpo che ha soddisfatto tutti i
loro bisogni senza che dovessero neppure esprimerli. Ed è
sempre il suo corpo che, durante la gestazione, ha scritto
nel loro cervello in via di formazione un alfabeto
sensoriale che porta il suo stampo incancellabile e che
servirà loro per tutta la vita e in ogni circostanza a
mediare ogni cosa e ogni avvenimento del mondo che li
circonda.
…Se
è vero che questo amore resta per sempre il modello
originario sul quale verrà ricalcato ogni amore successivo,
bisogna anche constatare che il destino amoroso del maschio
è, naturalmente e fin dall'inizio, eterosessuale, mentre
quello della femmina, altrettanto naturalmente, è
omosessuale.
Il
corpo dell'identità creante può esporsi all'evidenza di
omosessualità rispetto al corpo del figlio dello stesso
genere. Uomini e donne nascono dal corpo di una donna. È
ciò che esclude ogni simmetria, e quindi ogni uguaglianza,
nel diverso sviluppo sessuale tra maschile e femminile. È
ciò che rende irriducibile la differenza sessuale anche
contro l'esasperato rifiuto sessista di quanti in realtà
falliscono, per insufficiente distacco dall'identità
materna, l'identificazione di ruolo.
Anche
per le donne, infatti, è inesatto dire che l'identificazione
sessuale si realizza con la madre: con essa vale, ancora
più forte, la relazione di identità:
ubi maior..! Il primato dell'identità e l'oggettiva
ambivalenza sessuale, rendono comunque difficile, senza
opposizione, la distanza necessaria per una identificazione.
Il corpo identico
(a cui si è appartenuto) non favorisce da solo lo sviluppo
nella figlia della coscienza di essere simile
alla madre. Per riconoscersi come simile occorre lo scarto
della differenza. È con lo sguardo del padre, per
contrasto, che la figlia può percepire di avere un valore
come donna, di identificarsi in quanto tale. Donna a sua
volta. E non in rapporto alla madre. Come vorrebbe invece il
peloso ed esclusivo interesse dello spirito santo per Maria.
Anche
Collodi deve affrontare la questione omosessuale quando
azzarda a mettere Geppetto nella funzione ribaltata di
soggetto creante. Nel racconto della creazione del
burattino, è presente l'allusione all'atto sessuale, almeno
nel modo in cui viene mimato il trambusto della zuffa tra il
falegname e l'amico Mastro Ciliegia; la parrucca bionda del
"Polendina"
e lo stesso ciocco di legno rimandano ingenuamente al gioco
tra pube e pene.
Ego
e Narciso. L'isteria del virtuale
Bisogna
in ciascun caso distinguere tra devianza omosessuale ed
ambivalenza affettiva. La prima non è mai una condizione
di scelta come si sente dire, ma è sempre il fallimento
dell’identificazione di ruolo la cui causa è nel difetto
di differenziazione dal corpo sessuato di origine sul quale
finiscono per appiattirsi tutte le funzioni di identità ed
identificazione dell’Io.
È
il difetto di Narciso del rispecchiamento:
la creazione del doppio
con un’altra immagine di sé è segno che la possibilità
di differenziazione è oggettivamente così difficile, da
essere vissuta, con colpa, come tradimento;
in assenza di una trasgressione fallica riuscita, ci si
sdoppia nell’illusione di lasciare solo una parte
all’appartenenza primaria e di salvare il resto come
autonoma identità sessuale.
Nascono
da qui le fantasie sulla realtà virtuale come alterità e
fuga dal reale. Per esempio quando si enfatizza la
produzione di realtà virtuali con il mezzo del comp-uter(o)
la fantasia è quella dell’appartenenza ad una sorta di
iperspazio in un’altra dimensione. Non è pura cop-isteria
l’idea di fare una copia
virtuale del mondo?
La
rete di computer è in realtà un implicito relazionale
oggettivamente emancipatorio in quanto isopatico,
negli effetti di ricaduta della macchina intelligente che
qualcuno ha definito la
tasca di Eta Beta, rispetto al dominio dell’utero
sociale.
Internet è
interattivo, socializzante, quindi “democratico” perché
necessariamente esteso per funzionare. Questo
“pinocchio”, creatura voluta da Bill Gates, libera i
rapporti sociali della commedia
umana scritta nell’invenzione di un nuovo linguaggio:
il Bill-ings-gate
(il termine equivale a “linguaggio volgare” ed è anche
il nome del mercato del pesce
a Londra), cioè la vulgaris
eloquentia dell’e-mail
che restituisce la complessità della tecnica cibernetica
alla fruizione interattiva dei soggetti. Come l’iter
di Dante nel mezzo della vita, internet
si situa al di qua del cancello
della vita (Gate) in un luogo immateriale nel quale ha
aperto una storia che tuttavia non rilascia scorie
inquinanti del rifiuto.
Internet
può essere solo un/mezzo
estensivo della realtà (mai un
intero), una distorisione relazionale, quindi temporale
che non è sostituzione. Si tratta di un
interno che non è distruttivo perché non ingloba
nell’intenzione di negare e non impedisce, in uscita, il
parto di ogni comunicazione. Non si pone dunque la questione
del doppio come tradimento ad opera dell’oggetto
narcisista non differenziato dall’identità creante. Anzi,
pone il soggetto nel posto che gli compete: nel luogo di
transito, sulla soglia tra interno ed esterno. Il computer
non è uno specchio
ma un io speculare
dinanzi al quale si può incontrare l’Altro. È lo spazio
semantico a divenire virtuale, non la realtà; come per
Alice, è possibile incontrare la meraviglia dell’altro
oltre lo specchio della propria immagine-azione,
nell’interattivo della profondità.
In
questo processo di autonomizzazione e di risoggettivazione
delle coscienze che è l'interazione liberante tra l'uomo e
lo sviluppo di una tecnologia biocompatibile, si realizza
l'antico sogno da sempre perseguito: l'umanità dei soggetti
consapevoli si sostituisce a dio, vanificando la pretesa
oggettività del suo dominio nello scambio ricco e paritario
delle relazioni.
L'uccello
di Wilde
È
invece una fantasia narcisista ed omosessuale l’illusione
che il ritratto di Dorian Gray sia più vivo del suo
originale, nel celebre romanzo di Oscar Wilde.
L’autore affronta la (personale) questione omosessuale nel
confronto tra il protagonista ed il suo ritratto. Egli
esemplifica il distacco tra l’Io ed il suo ideale. È ciò
che può accadere nei casi in cui la madre del soggetto
omosessuale si viva interiormente alla stregua di un maschio
mancato, quando in realtà le è stato impossibile
identificarsi con la propria funzione sessuale come donna.
Ella sequestra per sé il sesso del figlio, al quale non
resta che realizzare l’ideale femminile come debito
irrisolto della madre. Wilde si esprime nelle sue opere
mischiando il dramma all’ironia e cercando un riscatto di
dignità nel de
profundis della denuncia letteraria.
Come
è noto, giungerà alla rovina per amore del suo oggetto di
identità nell’impossibile impresa di acquisirlo
all’unità con se stesso. La sua anima non era nel
riflesso dell’amante, ma sequestrata dall’immagine
interiore della madre. La scissione narcisistica tra l’Io
e la sua immagine ideale è al tempo stesso la forma
dell’alienazione di ruolo e il tentativo di sottrarsi alla
cattura omosessuale. L’esproprio dell’identificazione di
genere da parte femminile riesce quanto più è mantenuta
fuori portata nel figlio l’identificazione maschile nei
confronti del padre.
Il
destino di Oscar Wilde ricalca in modo autobiografico quello
della rondinella
nella celebre favola di cui è l’autore: l’uccello
fallisce
l’identificazione di ruolo con la rinuncia alla
trasmigrazione invernale con i simili della sua specie per
restare più a lungo nei pressi della statua
del Principe Felice;
questa dipendenza protratta nella suggestione dell’affetto
di identità primaria è giusto una poetica della funzione
infantile che gli sarà fatale perché ritarda fino a
rendere impossibile lo sviluppo del ruolo di adulto. È
questo il tributo richiesto dalla madre: morire insieme,
nell’implicito dell’incesto (in-si-è-me), per non
subire la mancanza di genere.
Il
morire cristianamente del figlio sostituisce ed allontana
l’elaborazione del lutto e la depressione nella madre
nella temuta evenienza di un distacco generazionale che
metta a nudo il vuoto sessuale.
La
figura del principe è in realtà il doppio materno di Wilde.
Nella sua prefazione all’edizione economica Newton,
Silvio Raffo rileva il rapporto di doppio negativo e di
specularità tra la statua e Dorian Gray, senza peraltro
cogliere il senso affettivo dello spiritualismo
cristiano che è nell’attitudine al sacrificio:
Il
Principe Felice è
esattamente il doppio rovesciato, l’immagine speculare di
Dorian. (…) Il Principe si spoglia e addirittura si
disquama dell’oro, diventando shabby
per far trionfare la bellezza spirituale nell’espressione
più alta dell’amore-donazione.
Il
grado di religiosità espresso nel racconto è misura esatta
della quantità di incesto veicolato nella suggestione del
messaggio. La bellezza
spirituale di cui si parla è, in realtà, un tentativo
di sublimare una inutile quanto crudele sofferenza.
Nella
favola Il Gigante
egoista, il ruolo di possesso della madre è reso in
modo ancora più eclatante: l’ambivalenza del rapporto,
indissolubile e struggente, tra il bambino Gesù ed il
Gigante-madre trascina la scena del giardino fino alla
morte, in paradiso. Il fallimento della vita resta racchiuso
nelle mura del giardino, nell’eterna fanciullezza e
nell’inutile trascorrere delle stagioni.
Quando
l’identità primaria pone in termini affettivi
l’esigenza di esclusiva proprietà sul corpo dei figli
(l’amore-donazione è in realtà restituzione del debito
di creazione) gli esiti risultano comunque distruttivi: il
martirio come atto di donazione non è scelta ablativa, ma
è smacco subito per volontà dell’egoismo del possesso.
La salvezza della dignità del soggetto risiede solo nello
stile poetico e nel pathos in cui si compie la caduta del
destino. Così in Wilde la suggestione struggente che è nel
tono della favola non è lirismo: è denuncia, nella più
alta forma letteraria, della ferocia sadica che, nella forma
dell’amore filiale, esige la restituzione della vita.
È
lo stesso urlo di denuncia che fu di Pasolini: non c’è
che la morte quale unico riscatto contro l’impotenza di
una falsa vita vissuta nel velo di confusione con
l’identità egoista. Il cellofan, la placenta incarta ogni
cosa nel falso rito di una vita non vissuta, di una eterna
infanzia, pretesa immortale, ma che uccide la vita.
Districarsi dall’identità di possessione, dal sequestro
fusionale, implica che l’io-figlio
uccida l’io-madre
anche se questo matricidio imperfetto è in realtà un
suicidio riuscito, che porta alla tragedia anziché
all’escissione del soggetto.
Così
pure Cesare, che aveva marciato contro (mamma)
Roma, è ucciso da Bruto, il figlio simbolo del suo
io-adottivo. La sua bisessualità è documentata da Svetonio;
tale fama risaliva al tempo della giovinezza. Testimonia lo
storico
che durante una missione in Bitinia si fosse prostituito al
re Nicomede; le voci malevoli tra i Romani definivano Cesare
marito di tutte le
mogli, moglie di tutti i mariti.
Della
medesima natura è il fascino dei grandi condottieri della
storia.
Cesare
ha nel nome il destino del taglio, della cesura; cercava
forse il padre trionfatore sulla patria madre.
Se l’identità primaria mantiene il possesso, il cordone
non solo non viene reciso, ma diventa nodo, imbroglio,
intrigo. Alessandro è Grande nello stile perché lo recide
d’un colpo, senza indugio. A Cadice, guardando una statua
di Alessandro Magno, si narra che Cesare addirittura
piangesse, constatando che alla sua stessa età il Macedone
aveva già conquistato il suo impero. Dopo quella
circostanza, riferita da Plutarco, dormendo, Cesare sognò
di possedere sua madre; così gli indovini interpretarono il
sogno:
…la
madre, che a lui era parso di possedere, niente altro era
che la terra, che deve ritenersi la madre di tutti; dunque
egli avrebbe posseduto il mondo.
Il
sogno, divenuto bisogno
di dominare la madre, è rimarcato da un altro episodio
narrato da Svetonio, allorché, nella campagna d'Africa,
scendendo dalla nave, il grande condottiero inciampa e cade;
con prontezza di spirito, Cesare stringendo in pugno un po'
di quella terra sulla quale era caduto, esclama: Terra,
ti tengo!
Tenere
per non temere di essere tenuto, possedere per non essere
dominato. L'illusione controfobica realizza, in ogni caso,
il fantasma del governo della madre. Ciò accade sia nel
destino individuale sia nei ricorsi sociali della specie,
nelle fasi in cui addirittura la guerra giunge ad imporre un
limite violento al divenire, appena che il controllo materno
sul sociale percepisca lo sfuggire degli eventi al suo
potere. Sino al limite della distruzione e
dell’autodistruzione bellica, lo statuto di nato
è imposto ad ogni soggetto del creato.
Bisogna invece uccidere le nazioni e le ideologie dei vecchi
e nuovi nascismi
perché la differenza esalti la libertà degli scambi e
delle libere associazioni tra gli esseri umani.
Il
pos-sesso della madre è anche e soprattutto la questione
dell’impotenza o del potere in tutte le accezioni della
sessualità e della politica.
Il
disvalore al femminile
In
fatto di ambivalenza maschile, Pinocchio non corre il
rischio di diventare il doppio femminile del ruolo di
mammo
giocato dal padre, in quanto il distacco come debutto nel
mondo è la miglior cosa che gli riesca di fare. Solo con la
riuscita di questa distanza è possibile che la differenza
tra il creatore ed il suo prodotto possa sublimare il debito
di appartenenza corporea in capacità d’amore.
L’affinità somatica tra genitore e figlio dello stesso
sesso, quindi anche tra mamma e bambina (a maggior ragione),
è di per sé una ottima condizione per imparare ad amare.
Se non viene soddisfatto questo rapporto di ambivalenza
(appartenenza di identità risolta nel reciproco rispetto)
sarà precluso anche l’amore eterosessuale. Insomma, è
necessario anzitutto poter accettare il proprio sesso per
giungere alla completa capacità di soddisfazione sessuale.
Alla donna stessa la sessualità femminile sembrerà
inquinata dagli effetti del rifiuto se l’oggettivo potere
della madre non saprà coniugarsi con il dovuto rispetto
nel permettere alla figlia di differenziarsi. Da dove
altrimenti verrebbe la velenosa invidia che colpisce
Biancaneve, se non dalle brame dello specchio della
matrigna?
Il
rispetto nel gioco del senso linguistico allude alla
spazializzazione che intercorre nella relazione dell’uno
rispetto all’altro, e viceversa; così pure, il termine diviso
può essere inteso correttamente scandito come di
viso, cioè nel faccia
a faccia di un rapporto paritario e reciproco.
Il
doppio e il tradimento sono anche espressi nell'iconografia
mimata dal gesto delle corna.
Mignolo e indice misurano la distanza, rimarcata in modo
deciso, tra il dito piccolo (il bambino) e l'autorità
dell'adulto; l'indice ha qui il significato che il complesso
di Edipo attribuisce al superìo. La sottrazione,
semantizzata nella distanza tra le due dita della mano,
assume la valenza dell'irriverenza offensiva, del
tradimento. L'oggetto segnico delle corna conserva nella
cultura popolare sia il valore di amuleto portafortuna, sia
quello dell'inganno affettivo e dell'ingiuria.
Il
tradimento amoroso realizza inconsciamente il bisogno
sentito come liberante di tradire la regola di appartenenza
e fedeltà al partner sul quale sono indirizzati, con
intenti distruttivi, le attribuzioni di transfert del
possesso genitoriale. Quella di tradire il sesso del
possesso del genitore è una pratica affatto diffusa, in
chiave proiettiva, nelle dinamiche della coppia; così
(inutilmente) l'insofferenza per una mancata emancipazione
dal legame di origine genera reiteratamente l'illusione di
una liberazione nel rito di un tradimento differito ai danni
del compagno nella coppia.
L'intero
dispositivo semantico delle corna ci riporta con coerenza al
valore propiziatorio della tauromachia, dove l'uccisione
attraverso un rituale rischioso del toro, la grande bestia
con le corna simulacro della minaccia e della forza, prepara
e favorisce il cambio generazionale. Il superamento della
potenza materna a beneficio della donna giovane fa si che la
trasgressione divenga gioco necessario. Il dominio
costituito si lascia spodestare, per sopravvivere nel
metodo, rinnovandosi nella spirale evolutiva della
generazione più attuale. Il tradimento può restare prassi
corrente che non inceppa il sistema ma che esprime una
variabile correlato necessario dell'omossessualità
femminile.
Fra
gli esseri umani la fantasia, in realtà tutta materna, che
l’entità generata sia destinata a spodestare il genitore
è attribuita, nel mito, alla convinzione del padre; si dice
che sia il figlio (Zeus, Edipo…) il predestinato a
spodestare il padre: è però la madre che motiva il
parricidio proponendosi come referente sessuale immutato nel
salto generazionale. La figura sessuale a cui allude il
torero nell'arena è ambigua: egli agita un ampio drappo
rosso per eccitare il toro, che ha le parvenze di una veste,
mentre si muove con eleganza, accennando passi di danza
simili a quelli di una ballerina di flamenco.
L’affermarsi
dell'incesto dovrebbe invece esorcizzare l’avvicendamento
ed il superamento della centralità materna. Nel mito
matriarcale, la madre sposa il figlio oppure questi sposa la
sorella.
Ma
nella sagra dello specchio, tra proiezioni e brame
narcisiste, è proprio la figlia ad avere il danno fatale.
La sua potenzialità creante può rimanere per sempre tale
nell’esaltazione della verginità; oppure dovrà essere
condivisa con l’accondiscendenza decisionale della madre;
oppure, nel caso di un distacco, si può configurare come
una cacciata ad opera dell’oggetto primario
dell’affetto. Solo l’alternativa di un forte referente
d’amore del padre, la cui compresenza tuttavia non può
che essere il correlato di una buona attitudine affettiva
nella madre, la figlia può accedere nel modo più completo
alla felicità del suo ruolo sessuale.
Nella
realtà prevalente la ginocrazia materna persegue, in
maniera più o meno consapevole, l’effetto-scopo di
contrastare il pieno e libero attuarsi delle naturali
conseguenze affettive della maturazione sessuale. L’arma
dell’affetto viene qui usata per legare la concorrente
potenziale; l’unità di madre e donna figlia (ma-donna)
relega nella con-fusione, che è frode nell’imbroglio del
legame, l’imperativo biologico sessuale. Ciò che è
indispensabile nel processo di liberazione della donna viene
recluso nel limbo del peccato, del colpevole, del proibito.
Si
trama una truffa ai danni della figlia; l’impostura
consiste nel disprezzare ciò che invece ha sommamente
valore nel reale: il sesso della donna, potente sopra ogni
cosa perché capace di attrarre, di dar piacere e procreare.
Il veleno della mela resta comunque un danno per
l’immagine del sé femminile (perché generato
dall’identità femminile stessa che promana dalla madre),
agisce come una maledizione, e sarebbe finanche fatale nel
cristallo di una bara, se non fosse per il bacio
dell’amante che ripristina la differenza di genere e
recupera, almeno
agli occhi maschili, il valore sessuale femminile. La
svalorizzazione del sesso femminile non ha origine causale
nella misoginia maschile, ma nell’imperfetto
rispecchiamento tra la funzione di identità e quella
materna. Per la stessa ragione è difficile individuare
soggettivamente la causa dell’insoddisfazione
nell’identificazione di ruolo; per esempio, può accadere
che le donne reagiscano rubando
la scena al ruolo maschile per tentare di volgere in
rivendicazione omosessuale la mancata elaborazione della
differenza di genere.
Anche
la propensione a ferire l’amante, a farlo soffrire nelle
prove d’amore o nel tradimento rivela la misura
dell’inadeguatezza della donna ad accedere ad un valore
della propria sessualità che non sia di implicito
disprezzo. Come può credere all’amore se lei stessa non
si ama? La percezione del proprio sesso come sporco,
l’apparente insensibilità nel procurare sofferenza a chi
s’offre in completa dedizione e, invece, la
predisposizione a subire il fascino del soggetto narcisista
ed egoista sono le caratteristiche e i riscontri
esperienziali (invero frequenti) che riguardano la giovane
donna che si trova a confrontarsi in corrispondenze
affettive a partire da una sessualità svalutata, ferita,
priva di autostima.
Nella
veste di spirito santo, la madre fa la peggior cosa nel
confondere a sé la figlia nell’unità mistica e genitale
della ma-donna.
Ogni esito successivo risulterà viziato da immaturità
affettiva o da una disposizione a sviluppare tratti di
sado-masochismo.