La Spada e la Roccia

 

Dal matriarcato alla civiltà sociale

Epica della differenza sessuale

 

Il cambiamento, o la sua negazione, trova il punto di forza sul destino dei figli. Sempre il matriarcato ha negato il tempo con la sua malia; ha volutamente confuso la spada con la roccia nell’indifferenza sessuale, finché un burattino (fatto dal padre) o la forza di un bambino (formatosi agli insegnamenti dello stregone) non hanno ristabilito, ogni volta, la legge della differenza, dell’emancipazione e della giustizia nel sociale[1].

Tutto ciò è già successo, al di là di ogni coscienza, anche a vantaggio dei soggetti cristiani. Si tratta ancora di riconoscere diffusamente e superare il debito crudele stipulato sopra i figli.

Se la figlia è scissa nell'alienazione tra corpo e appartenenza alla madre, il figlio maschio può apparire privilegiato, vezzeggiato dalla madre e invidiato dalla sorella; in realtà non esiste di per se stesso ma solo come fallo esibito dalla madre. Solo finché sarà il fallo riparatore della mancanza materna avrà diritto ad ogni sfrontatezza, il suo narcisismo è perfino irritante. Ma cosa accade a chi voglia varcare le colonne d'Ercole del libero arbitrio, verso l'autonomia affettiva? Se l'eterno ragazzo vuol accedere alla consapevolezza, all'autonomia e alla libertà? Disgrazia, passione e crocifissione. Morte per sangue. Cristo o Che Guevara, purché muoia; una rabbia emorragica gli presenta il conto del debito del parto, la sua autonomia non esiste perché viziata all'origine da un debito di sangue.

L'agnello non può difendersi dicendo che quell'offesa non l'ha fatta lui, che lui è venuto dopo, non per scelta, il lupo insiste: "Mi sporchi l'acqua". E lo sbrana. L’agnello è l’equivalente del figlio, mentre il pelo del lupo è di lana caprina: la ferocia delle fauci è l’istintiva aggressività della grande madre, la scena dell’acqua sporca e dell’agnello è quella del parto.

Un evento non voluto che trova il suo oggetto di rifiuto nel prodotto, anche se le ragioni vere di tanta aggressività sono a monte, nel difetto d’origine dell’incesto irrisolto. Chi genera senza disposizione d’amore getta via in un’unica soluzione l’acqua sporca e ciò che ha creato.

È necessario morire o uccidere per superare l'appartenenza primaria? L'emancipazione è rimandata alla resurrezione; l'identificazione di ruolo con il padre resta senza corpo e senza luogo (in cielo, alla destra del padre). Il matriarcato cristiano garantisce così, sull'infelicità dei figli, la sua riproduzione. Fuori da ogni legge e da ogni controllo del razionale, tale è la pretesa anche di fronte ad ogni logica di consapevole ricostruzione.

Oggi i figli non possono dire di non sapere, a questo serve l'educazione cristiana: pur senza essere religione di Stato il simbolo cattolico fa bella mostra di sé sulla parete della scuola. Non avete capito? Capirete! E, soprattutto, l'importante è credere, non sapere.

 

 

La guerra dei fratelli non-nati  

Il precetto cristiano è sadico nella prescrizione al sacrificio ed è masochista nell'atto della sua identificazione. È rappresentazione dell'incapacità di amare, è un modello affettivo immaturo, retaggio ancora troppo attuale dell'antico matriarcato primitivo, basato sulla proprietà dei corpi e delle menti dei figli come appartenenza mai in grado di risolversi in una vera emancipazione sociale. Ciò comporta come inevitabile esito l'infelicità e il fallimento del progetto di vita dei figli e dell'intero agire sociale.

Di contro, la conoscenza è uno stupro, è una lacerazione alla placenta del credo religioso. Il sapere religioso si propone non come s-velamento, ma come ri-velazione; in realtà è resistenza e paziente rattoppo degli strappi. È affermazione del primato del velo sul vero. Periodicamente sa essere anche inaudita ferocia: quando interpreta il ruolo di belva umana, per ricucire, con il filo spinato, gli strappi della storia. Ne ha fatto le spese, insieme ad ogni umana dignità, la cultura di origine ebraica per aver regalato all'Europa cristiana spunti di straordinaria civiltà.

Il cantautore Fabrizio De Andrè raccomanda: "non regalate terre promesse a chi non le mantiene"[2]. La storia mostra che la verità comporta una violenta reazione del boia velato; la bestia sembra mansueta ed assopita finché non si svela alla coscienza che il sacro e il sanguinario sono due facce della stessa morale.

Franco Fornari ha già indicato nell’eros materno il movente per gli esseri umani di distruttività della guerra[3]. In Psicanalisi della situazione atomica individua nell’oggetto dell’odio che motiva la guerra gli stessi referenti d’amore, in chiave proiettiva, delle relazioni familiari. Egli si ricollega alla tesi di A. Rascovsky e di Gaston Bouthoul, per i quali la guerra sarebbe l’espressione del figlicidio, di un infanticidio dilazionato, che realizzerebbe una fantasia di controllo socio-demografico, quasi un aborto differito, la cui responsabilità ricadrebbe sulla distruttività del padre (Erodoto affermava che in tempo di guerra i padri seppelliscono i figli mentre in tempo di pace i figli seppelliscono i padri). L’attribuzione della fonte della violenza sarebbe dunque rivolta ad un solo genitore. Fornari sposta invece la colpa della distruttività sulle fantasie fratricide del figlio[4]:

 

Poiché gli abitanti contenuti in uno stesso territorio sono tutti fratelli figli di una stessa madre (vedi l’inno nazionale italiano ‘Fratelli d’Italia…’ e l’inno nazionale francese ‘Allons enfants de la patrie…’), il fatto di essere in continua posizione di diffidenza verso i nemici si collegherebbe pertanto al fatto che i nemici sono i fratelli uccisi dai quali ci si sente perseguitati (…).

Come ho già rilevato, tali impulsi distruttivi e tali sentimenti di colpa persecutivi non sono solo rivolti verso i bambini-fratelli-non nati, ma anche verso la madre e il padre da parte dei bambini e verso i figli da parte dei genitori.

 

In questo senso il meccanismo di proiezione servirebbe a nascondere l’odio verso le persone che amiamo, mettendolo nel nemico. In realtà questa architettura interpretativa della proiezione paranoide dei conflitti inconsci familiari risente ancora fortemente del senso di colpa autolesionista che la pedagogia cristiana inculca nel bambino fin dal rito del battezzo. Come può il bambino inconscio che risiede in ciascun adulto odiare la madre? Ogni struttura di percezione esistenziale è derivata da esperienze interne ed esterne di relazione con la madre, in che modo potrebbe sviluppare autonomamente distruttività verso se stesso e verso il corpo creante? Ciò può accadere solo per introiezione di percezioni distruttive che provengono dalla madre stessa! Sembra proibito tuttavia prenderne atto perché non va svelata la distruttività che fa da contrappunto alla sacralità nell’entità creante e divina.

 

 

Il rispetto è atto riflesso

 

Sebbene il figlio sia e sia stato indotto ad assumersi la colpa di ogni rovina, non si è ancora visto, in età anagrafica, un bambino che butti nel cassonetto dei rifiuti il proprio genitore (altra cosa è la disposizione dell’adulto verso l’anziano).

Siamo ancora all’inganno proiettivo e speculare dell’agnello che sporcherebbe le acque al lupo. Egli è nato dopo e, in qualche modo, sarebbe responsabile della rottura o della sozzura (per fantasie di incesto) delle acque del parto nel corpo della madre! Questo dettato fisiologico è antico ed è sostantizzato nel paradigma del sado-masochismo cristiano: il figlio è la colpa e pertanto va ammonito. Onora il padre e la madre; il senso ribalta ogni verso dinamico della pedagogia; non è forse il generante il modello di identità ed identificazione?

Il rispetto nel figlio non è atto dovuto, ma sentimento riflesso!

Solo parzialmente Fornari ammette che può esserci odio verso i figli da parte dei genitori. Il ruolo della madre in particolare è visto come quello al cui cospetto trova motivo la guerra, tuttavia il muovere alla distruzione sembra il frutto di un impazzimento di tutte le cellule del corpo famigliare. Manca nell’autore, che è deceduto per tumore, la piena coscienza del fatto che la madre, oltre ad essere soggetto motivante, ha responsabilità diretta di mandante e committente del massacro.

È egli stesso il bambino-fratello-non nato, definizione che attribuisce allo statuto di soldato, che si batte contro i nemici fratelli per guadagnare il vitale e indispensato favore della patria madre. Questa prerogativa di dispensare o di negare il riconoscimento alla vita, o di mettere gli uni contro gli altri per ottenerlo, è esattamente l’espressione della ginocrazia del corpo generante. La dispensa materna è indispensabile alla vita. È la benedizione o la sventura; è nutrimento del destino; tale è il ruolo divino della madre. Questa è anche l’arma che essa usa, sull’intero creato, come registro del controllo. La crisi è la forma in cui la corda della dipendenza è imposta come non-scelta obbligata: necessità, affezione, guerra e malattia. Attraverso la crisi l’entità creante trascina l’intensità del travaglio della gestazione nella gestione del conflitto ai fini del possesso continuato sul reale, a costo anche dell’annegamento generale. La punizione divina che si fonda nel substrato affettivo è il vero grande fallo della madre, il suo potere è di ridurre gli esseri a strumenti della sua glori-ficazione.

 

 

Guerra e cancro. La bomba anatomica

 

La verità è semplice e tremenda, segue i solchi già tracciati dalle dinamiche fisiologiche e naturali. Le architetture razionali spesso hanno il solo scopo di coprire l’intollerabile realtà della sofferenza per il rifiuto d’amore. Così è in Fornari, dove la sua situazione atomica è in realtà deflagrazione anatomica del cancro. Tale malattia è un destino precoce nei non-nati per rifiuto o mancanza di riconoscimento del bambino da parte della madre: tumorati di dio per difetto narcisistico. La società dell’egoismo, dell’insensibilità, dell’indifferenza narcisista produce tumori: la patogenesi del cancro diventa struttura contingente nel processo di sviluppo indifferenziato nel corpo dei suoi figli prodotti in difetto di amore e di riconoscimento. Ad ogni eccesso di legame narcisista non può che corrispondere un prodotto di rifiuto, così, una madre indifferenziata socialmente, ma egocentrica nei tratti del carattere non può che produrre una qualità di rapporto oggettivato e non comprensivo verso il proprio figlio, il quale nasce nel limbo dell’incerto, del rifiuto e dell’indifferenziato, senza ricevere sufficiente materiale affettivo per costruire una solida struttura delle fondamenta.

Nel soggetto adulto l’aggressività che deriva dall’essere (stati) rifiutati non può accedere facilmente alla coscienza del soggetto, egli tende comunque ad accusarsi degli insuccessi funzionali e ad assolvere la madre: lo smacco narcisistico è già una ferita irreparabile negli effetti, per qualità e spettanza di vita; se ci fosse ammissione del rifiuto, della negazione, dell’insensibilita, della disidentità per mancanza d’amore, il soggetto si troverebbe di fronte al baratro del nulla, alla voragine dell’io e alla propria assenza. Ciò è intollerabile. È impossibile pensare il nulla perché il nulla è già la morte.

L’aggressività verso la madre che ci rifiuta non può che volgersi, come autodistruzione, in rivolta citologica. Odio di tutti contro tutti nel proprio corpo-famiglia-patria: contro il fratello, contro il padre e, per collasso, contro se stesso-madre. La rivolta che avesse come oggetto la madre, in quanto identità, non può che essere innanzitutto contro il sé del soma. Ma-lato è il lato materno di ogni regressione; nel singolo, come nel plurale della storia. Ancora una volta non si tratta solo di un gioco di fonemi, ma di una constatazione clinica rilevata infinite volte; in proposito, osserva Naouri[5]:

 

Questo tutte le madri lo sanno e fanno di quest'ingombrante conoscenza della morte che hanno il potere di donare insieme alla vita il pretesto della loro follia a cui, per quanto facciano o vogliano, non potranno sottrarsi mai più.

Del resto, è proprio questa follia che, senza che lei se ne accorga, incita la madre a fuggire la realtà e a salvaguardare meticolosamente l'illusione che suo figlio non sia mai uscito da lei.

 

La parola latina incestus significa "non mancante", e a torto il senso di perdita è stato riferito alla castrazione edipica del figlio: egli percepisce come propria questa mancanza ma solo in quanto la condivide, nell'unico sentire esistenziale, in simbiosi con la madre. È la madre che non vuole perdere il fallo-bambino, pertanto, preferisce ritenerlo nel limbo del non-nato, fino all'estremo di una morte cristiana.  Oppure, se proprio se ne deve distaccare, che la castrazione diventi allora di natura sessuale, in modo che la simbiosi permanga nella comune condivisione di una elisione del fallo, nell'impotenza della femminilizzazione maschile. Ed ecco il figlio prete oppure omosessuale. Solo nell'accezione più sana, la maturità affettiva della madre, che in questo caso non è solo tale ma anche una donna che coltiva interessi propri affettivi e sociali, può tollerare la perdita depressiva del figlio, verso il quale conserva la competenza affettiva di ruolo, ma non la perniciosa influenza infettiva del possesso.

Recita così la dedica in apertura al già citato libro Psicanalisi della situazione atomica di Fornari:

 

A mia madre che ha dato definitivamente significato di bene e di male a tutta la mia vita.

 

A Fornari, che è morto di tumore cercando nei suoi scritti le ragioni della vita e del malessere suo e del tempo, dedichiamo le parole di Fabrizio De André anch’egli scomparso vittima di un simile destino di rigetto[6]:

 

Il mio Pinocchio fragile

prodotto artigianale

di ordigni costruiti

su scala industriale

di me non farà mai

un cavaliere del lavoro;

io son di un’altra razza:

son bombarolo!

 

La bomba anatomica è il bambino. La pulsione sessuale è chiaramente espressa nell’intento distruttivo; chi conosce la storia nell’album musicale, sa infatti dell’esito autolesivo. Il Pinocchio figlio in gestazione è il tumore (tu muore): è l’Altro (il tu) che muore in ciascuno come spettanza di vita negata attraverso la qualità di una relazione primaria mancata. Il fantoccio è la caricatura dell’io corporeo che non si è potuto formare. Per Fornari il pacifismo, per De Andrè la protesta trovano l’effetto dell’impegno e della denuncia civile nell’implosione.

L’identità guerra-cancro, che si conferma quale destino di implosione distruttiva nel discorso evolutivo dei non-nati, è la denuncia civile e accorata di Oriana Fallaci. Giornalista, celebre testimone della guerra nel Vietnam, Oriana Fallaci è sedotta dall’enigma della guerra, finché anche lei si ritrova protagonista dell’esperienza della malattia tumorale e affida ad un libro l’analisi del suo dramma esistenziale; il titolo è di grande sintesi espressiva: Lettera a un bambino mai nato. L’autrice non ne è consapevole, va da sé che il riferimento è autobiografico.

Le fantasie di rinascita sono espressioni ricorrenti nelle persone che convivono con il tumore, proprio perché alla base della rivolta implosiva c’è un difetto di strutturazione delle fondamenta del proprio narcisismo, conseguenza di un debito di riconoscimento affettivo mai soddisfatto con la madre. L’autore di Affetti e cancro è anche l’acuto estensore del Codice vivente, saggio nel quale Fornari raccoglie, interpreta e svolge i sogni delle donne in gravidanza, cercando di favorire con la maieutica della lingua e con lo studio del fonemi la nascita del bambino tutto intero, contro ogni rischio vitale di ritenzione che apre allo statuto doloroso dei non-nati. La fantasia di rinascita tende a reiterare l'anelito di un debutto alla vita che non è mai stato celebrato, meno che mai all'atto del parto, perché la valenza attribuita al figlio dalla madre era quella di non desiderato. Il limbo esiste davvero; qui, tra i nati sfortunati.

 

 

Oltre l'omertà dell'ombra, il gallo canta ancora

 

Nella guerra come nella malattia, nel singolo come nel sociale, l’autodistruzione è il destino riservato ai non-nati (nonna-ti) dell’incesto. Il processo è divino perché non c’è evidenza di causa nella macchinazione. Ex machina deus; nella passione, crocifissione e morte di Cristo, il figlio è apparentemente solo nel destino di un disegno divino di cui è, insieme, il mezzo e il fine prediletto. I tributi di sangue sull’altare del diritto primario sono un rito ancora attuale; è prassi incontrastata, indotta, resa ideologia santa e rivendicata dalla teologia del sacrificio umano; la stessa che volutamente confonde i bisogni di giustizia nella carità e impone a tutti, come colpa, la suggestione della madre dolorosa delle piaghe.

Dal punto di vista del dominio, invece, la negazione ad opera della divinità creante materializza la funzione di controllo sul reale. Il tempo eterno (nell’illusione dell’immobilità generazionale dei ruoli) dilata la propria esistenza come estensione a scapito dei figli e delle figlie. L’eternità (ex ter), è l’unica forma concessa di sortita dal logos del tre famigliare, premio post mortem alla credulità, frode di un risarcimento che mai sarà riscosso, moneta falsa di scambio per esigere lo spossessamento reale della vita. L'internità continuata nel grembo della madre terra, nell’intero arco tra la nascita e la morte, è la pretesa di inglobare, nell’implicito del distacco non avvenuto, ogni riuscita nella vita di ciascuno. A ciò si oppone lo stress della pulsione sessuale che interrompe la continuità del possesso, per aprire alla libertà dell’esterno, contro ogni tributo (debito di appartenenza dovuto) e contro ogni minaccia di sterminio (dominio del volere uno-e-trino).

È strepitoso come il linguaggio (in)canti! Come il gallo di Pietro, la lingua canta per tra-dire, nella pendenza di una minaccia di passione e morte che incombe sopra i creati figli di dio, che c’è uno spartiacque tra chi ha il coraggio, l’ardire di ammettere di riconoscere la verità e chi invece, piegato per paura, nega (tre volte) di volerne sapere, confuso e arruolato nella setta di fede. Il credo è minaccia contro ogni sapere; ma il gallo canta ancora, anche oltre le tre volte del rito di cancellazione.

Là dove la fratellanza rivoluzionaria creerebbe azione sessuale nel rivolgimento generazionale, guerra e malattia seminano invece l’odio tra fratelli. La grande madre disperde le intese e le riduce in corto circuito di affiliazioni settarie in conflitto. Il cerchio si chiude per negare l’autonomia del divenire. Così l’universalità del diluvio, del massacro e dello sterminio giunge, con ira divina, quando la misura è colma, a resettare il mondo.

Il delirio biblico registra l'evento esemplare del salvataggio di una coppia di individui per sorta nel registro genetico delle specie, in modo che l'intero creato faccia atto di sottomissione con il ritorno all'unica famiglia, nel seno della grande arca madre (è questo il matriarcato). L’evento sanguinario si ripropone nelle fasi cruciali in cui ripartorire il mondo rappresenta la realizzazione del fantasma di possesso e di controllo sui corpi e sulle menti. L’apocalisse è avvertimento, rivelazione sul fatto che la morte (per guerra, catastrofe o malattia) è la purga che esorcizza il cambiamento come evoluzione, autonomia e distacco di maturazione.

  

Massacro. Il sacro codice  di guerra

 

Tanto più veemente è la distruzione quanto più grande è la possibilità temuta o reale che il mondo, inteso come insieme dei creati, si emancipi nella libertà e nell’indipendenza dei soggetti, nel superamento della ginocrazia materna. Il figlio-bambino è posseduto dalla madre; il figlio-adulto deve essere sottomesso al dominio del suo prolungamento nella suggestione di dio. Scrive Bonvecchio[7]:

 

Ignorare l’Ombra della guerra non è dissimile dall’ignorare l’inconscio. Se la si misconosce o la si rimuove, essa erompe con la forza inusitata e squassante di un vulcano per lungo tempo inattivo.

(…) Senza dubbio si manifesta con la stessa feroce aggressività con cui la Madre Terribile desidera riappropriarsi o vendicare un figlio perduto, a costo di seminare, attorno a sé, desolazione e morte.

 

Quindi cita Neumann[8] a proposito dell’immagine archetipica della Grande Madre:

 

…malattia, fame e bisogno, ma innanzitutto la guerra sono i suoi alleati.

 

La perdita del figlio, o meglio, del godimento del suo usufrutto, è per la madre perdita del ruolo onnipotente che le deriva dalla fantasia che l’attitudine a procreare sia diritto di possesso sull’intero dominio del reale in quanto creato. Al figlio non spetta la proprietà di ruolo che è strutturale nel suo essere biologico e affettivo: la madre conserva il valore d’uso su ciò che ha partorito. Pertanto l’essere del figlio è gravato dall’ipoteca dello spossessamento (elisione del ruolo sessuale). Il rapporto di usura trascina alla crisi (nel rapporto di schiavitù, è l’utero che usa, non il pene). Il prezzo del riscatto di un tale stato di sequestro non può che essere stimato pari alla vita stessa: inestimabile è il debito verso l’esattore divino e creatore.

Nella fasi della storia in cui la tecnologia dei processi umani o (come nella fase attuale a cavallo di un millennio) i riti epocali di cambiamento, pongono l’incognita emergente di un avanzamento possibile e necessario all’emancipazione, allora la grande madre rimarca col sangue il primato del possesso sul reale, così la sua natura animale delinea i confini del suo territorio.

Su questo modello la teologia militare di ogni tempo, impone lo statuto belligerante di Nato su tutto il genere umano, come farebbe lo spirito santo sul figlio creato; l’imposizione della teologia del nato soffoca nel sangue, come blasfema e improponibile ogni pretesa di autonomia, di sovranità e di libertà.

Dice la minaccia: tirare troppo la corda fa sì che questa si spezzi…, come la pazienza! La pretesa di libertà che tende il cordone della dipendenza genera una quantità di pulsione opposta e contraria sotto forma di ingiunzione. Quando non basta il sacrificio esemplare del predestinato, giunge la guerra a fare da cancellazione, travaglio e prigione. La forclusione dell’Altro nel reale inaugura la compulsione violenta di una psicosi possessiva, reificando la complessità a due categorie: il monolitico e il nemico.

Non c’è nulla di creativo in questo atto di riappropriazione tribale: è processo di negazione del nuovo, dell’esistente e della vita nella forma più eclatante della ferocia. Si rappresenta sul registro della carne e rifugge da ogni elaborazione sui piani di rappresentazione della coscienza o della legge. In questo senso è ma-s-sacro.

Inno alla sacralità materna, tentativo di confutare il ciclo biologico come evoluzione: l’alternanza ciclica di pace, guerra e sagra del possesso è opposta al divenire del tempo, nell’illusione di far quadrare la spirale dell’essere nel cerchio urobico dell’incesto famigliare.

 

 

La città incinta

 

Il matriarcato delle religioni (tutte le religioni) si è sentito sommamente minacciato, nell’essenza più estrema, quando il movimento politico dei produttori di ricchezza (il movimento operaio in modo cosciente,  ma anche lo stesso capitale, sia pure in forma alienata, per necessità produttiva e di mercato) è giunto a dichiarare apertamente l’intenzione di ricomporre l’aggregazione di appartenenza sociale solo intorno alla condizione di classe su scala internazionale, superando come principio nella dispersione solidaristica, o nella libera circolazione di uomini e merci, ogni mera identità di razza e di nazione. Il maschile tende spontaneamente a riprodurre una dinamica del ricambio e della circolazione.

Questo almeno è ciò che accade in epoca recente nella misura in cui la socializzazione dei mezzi di comunicazione e delle tecnologie (non ancora della proprietà dei mezzi di produzione) impone al dominio di riadeguare i suoi strumenti, anche nel tentativo di esorcizzare l’ormai avvenuta acquisizione sul piano della consapevolezza scientifica della natura di economia sessuale (e non solo sociologica) di questi meccanismi propri della distruttività animale.

Nel passato invece la guerra svolgeva una diversa funzione sessuale e demografica, risolvendo con la forza dello stupro la stagnazione dell’incesto entro le mura dei luoghi comuni. Si trattava, come per Troia, di mettere in-cinta una città, magari consenziente dopo anni ed anni di isolamento ad introdurre, in buona fede, il cavallo fecondo di guerrieri tra i battenti delle porte di accesso, fino nel grembo fortificato. Giocare nel sangue era come risolvere con la forza ciò che, per legame di appartenenza, non si attuava per ratto d’amore.

 

Finché fu triste, Troia si difese con le armi. Ma nel momento in cui si rallegrò, aprì le sue porte al cavallo pieno di guerrieri nemici.[9]

 

Del resto le mura sono il monumento visibile della sessualità e della quantità della resistenza opponibile. Epopea cavalleresca ed ars amatoria. Il nesso è colto da Ovidio Nasone. Il ricambio e l’uscita dalla forza di legame del clan famigliare poteva avvenire solo nella veste di una spoglia di guerra. Gorgianamente la violenza risolveva il nodo del consenso. Il destino delle città seguiva quello del corpo della donna.

Per secoli, nella storia delle armi, aprire con la spada una ferita di sangue nel corpo del nemico era il prezzo ritenuto necessario per rendere accettabile la ferita sessuale nella donna, e per conquistarla in duello. L’oggetto passivo della contesa era dunque anche il soggetto motivante, nel fine e nella forma, di ogni trama dell’azione. Se ciò risultasse senza alcun dubbio vero, ci sarebbe ancora da chiedersi, con Fornari, quale insofferenza anatomica abbia portato il conflitto odierno alla soglia della distruzione atomica.

L’umanità intera deve ancora affrancarsi dal debito verso le conseguenze dell’atto di dolore intrinseco nel parto. Il debito di sofferenza genera violenza fino a tramutare in rituale dell’odio anche l’amore. Il trauma fisiologico, che colora di aggressività l’affermarsi della differenza sessuale, motiva la violenza pulsionale della spada. In questa misura la guerra e l’odio riempiono il posto contiguo dell’amore. Si tratta in coscienza di rinunciare al pathos della guerra attraverso l’emancipazione. Per Marx[10], è l'amore che

 …per primo insegna veramente all'uomo a credere nel mondo oggettivo fuori di lui.

 Quanto sarebbe più semplice, e l’umanità intera sarebbe più capace di amare, se consapevolmente ci si adoperasse per ridurre il trauma della nascita e si ponessero in atto misure adeguate per favorire l’emancipazione precoce e protetta dei figli sottraendoli non alla responsabilità e all’amore, ma alla violenza del possesso privato delle madri!

È maturo anche il momento di restituire, una volta per sempre, la pretesa invisibilità dell'entità che agisce in veste del ruolo divino (e del suo smodato imperversare) alla responsabilità esatta della natura umana del suo sesso. Credere non può più costituire l'alibi per non voler sapere o vedere ciò che si commette.

  

Apologia del matricidio

 

Quello che deve essere messo in discussione non è il potere dell’immanenza creante che è reso legittimo dall’oggettiva natura fisio-affettiva, ma il suo uso criminale sostenuto e perseguito dalle teologie dominanti. Non si tratta infatti di correggere la natura (solo chi odia inconsciamente la madre odia anche la natura, mentre si schierano nella politica di una sua difesa aggressiva i soggetti che, nel mascheramento controfobico, non possono riconoscere in se stessi tale odio); si tratta invece di comprenderla e di saperla amare nel rispetto delle differenze delle diversità biologiche, riconoscendo le cause profonde della distruttività umana che, una volta, erano legate ai processi di necessità e sopravvivenza; adesso, nel contesto della realtà tecnologica liberante dal bisogno, sono obsolete rispetto ad ogni tentativo di apologia del dominio.

L’iniziativa della denuncia consapevole ha dunque il compito di affermare che la crudeltà come sistema non trova riscontro nel bisogno della sopravvivenza, essa è colpevole, non ammissibile e va superata. Bisogna opporsi agli enti economici e morali che perseguono il fine di ricreare le condizioni del bisogno, della necessità e della morte in forma indotta e artificiale o, addirittura, esaltano il martirio, fuori da ogni contesto, come valore filiale di dedizione. Giungeremo finalmente a non produrre scorie, odio e distruzione verso noi stessi ed il pianeta.

La civiltà sociale si fonda sulla ricchezza e pluralità delle relazioni umane; dall’unico indifferenziato alla molteplicità dei linguaggi e dell’ambiente, è questo il percorso evolutivo della qualità umana. La pedagogia di una comprensione assoluta resta comunque una utopia ed un equivoco se intesa come unità di percezione che ci esime nella vita dalla paura di incontrare la solitudine e la morte. L’identità assoluta di appartenenza al corpo dell’origine è per definizione una condizione persa (paradiso perduto) che elide il soggetto nella sua essenza di persona. L’identità deve lasciare il posto ai processi adattivi dell’identificazione nelle relazioni. Il vivente deve arrendersi all’evidenza di essere soggetto sempre in perdita che si costituisce intorno all’imperfezione e al rischio dell’impatto post-natale, ai quali può opporre sessualità, invenzione ed arte nella dialettica affettiva della vita. L’affetto può colonizzare ciò che non è umano sulla spinta pulsionale dell’istinto di riproduzione.

Si tratta di riconoscere ed accettare il mondo come utero amico, altro e diverso rispetto all’origine, non di negarlo restando imprigionati al guinzaglio dell’unico legame. In questo senso il matricidio ideale risolve nell’appartenenza collettiva il debito assoluto del dominio.

Nel processo di individuazione, la castrazione, correttamente intesa come elisione del figlio-pene posseduto dalla madre e restituzione del figlio all’autonoma proprietà di ruolo, segna il momento di rottura tra la condizione percepita come onnipotenza narcisistica ed il superamento dell’edipo.

Dunque la castrazione non è femminilizzazione, monito di riduzione e assimilazione dell’autonomia maschile alla ginocrazia materna (come avviene tra Crono e Urano per disposizione di Gea, o come si ritualizza nella circoncisione), ma è apoteosi della differenza sessuale, liberazione di genere, accesso alle funzioni superiori dell’amore nel sistema, infine superamento della distruttività umana!

 

Il taumaturgo di Hamelin

 L’analisi freudiana del mito greco si ferma al parricidio e attribuisce la presunzione di colpa al figlio; ma la spiegazione del significato profondo di ogni conflitto in cui il figlio esautora il padre risiede nell’evidenza che è la madre che si accoppia con la sua progenie perseguendo il tentativo, il cui esito è tragedia, di coprire ed esorcizzare la necessità del matricidio quale condizione alla base di ogni riuscita alla vita.

Questa verità è resa eclatante da Oreste e dalla sorella Elettra che uccidono la madre parricida e aprono la prospettiva di relazioni sociali in un mondo in cui si realizza il riscatto dei fratelli. È la lezione di Virgilio che fa risalire alla morte della città-madre Troia le premesse della gloria dei romani. Enea salva il padre Anchise e raddoppia la negazione del legame di transfert primario sulla pira di Didone: egli non ama tale donna, perché incarna il fantasma della madre la cui esigenza è di intralcio al compimento della grandezza dell’impresa. La fondazione di Roma nel mito virgiliano può sviare dall’interpretazione vera: l’impresa eccezionale è, per ciascuno, quella di poter essere normale. I grandi riferimenti ideali infatti realizzano le aspirazioni della quotidianità media dei singoli. Un uomo, nella donna (la nuova città da fecondare), non può certo amare la madre, ma la propria immagine del limite ideale. Per il soggetto maschile, l’amore si profila all’orizzonte; la stazione nel luogo dell’origine non sviluppa neppure la necessaria differenza per una identificazione sessuale.

Il matricidio è ancora l’intuizione risolutiva di Scipione, il quale prima contro Cartagena, poi contro Cartagine, muove la scelta decisiva che segna la fine di Annibale, anch’egli figlio della città di Didone. Distrutto in Cartagine il fantasma della grande madre, Roma stessa ne assumerà le sembianze nella storia. La restaurazione matriarcale troverà, negli stessi luoghi fatali, la sua apologia cristiana con Sant’Agostino.

Il matricidio, inteso come condanna dell’incapacità della famiglia ad educare, è infine, il tema liberatorio della favola medioevale a tutti nota, Il Pifferaio Magico. Il messaggio emancipatorio e socializzante è limpido, diretto e spietato, come raramente avviene nelle fiabe che pure nascono dalla cultura popolare a suo stesso uso e consumo pedagogico. La città di Hamelin viene privata di tutti i suoi bambini dal Pifferaio Magico il quale ha già sperimentato l’ingratitudine, l’incapacità alla generosità e gli effetti della fissazione anale all’egoismo e al denaro degli abitanti adulti. Il piffero del misterioso taumaturgo, ha facilmente ragione della moltitudine dei topi che infestano la città tormentando gli abitanti, quale segno dell’avidità anale, appunto, espresso nella forma del loro attaccamento al denaro. La qualità fallica dello strumento pone in evidenza l’importanza della questione della maturazione genitale nella formazione della personalità matura, capace di sviluppare l’idea di un mondo solidale, a partire almeno dalle nuove generazioni: o uomini o topi, recita la morale.

Non importa la specificazione di quale possa essere il mondo migliore possibile in alternativa a quello reale, l’intento emancipatorio si realizza nell’atto stesso della separazione dei figli dalle famiglie; l’effetto liberatorio è raggiunto a costo di rasentare l’angoscia di separazione verso l’ignoto, nello sviluppo tronco del racconto.

Il distacco è di per sé evento che produce redenzione, come, al contrario, la mancanza della differenziazione nel percorso di precisazione dell’individuo nel sociale porta alle degenerazioni dell’incesto matriarcale.

 

 

Mutter alles, un muro alla berlina

 

È intanto ancora necessario ribadire alla coscienza di ciascuno quali sono le strutture che sottendono alla guerra. L’idealità germanica si è riconosciuta nella nazione tedesca sul modello della società-famiglia, del clan allargato a contenere, come un utero, l’intero bacino di appartenenza, rivendicando una propria identità religiosa cristiano l-uter-ana, e una propria capacità di misura del mondo a cui ridurre la realtà circostante (uter alles). A differenza del matriarcato romano fondato sull’incesto famigliare con la madre che esautora sessualmente il padre (papismo), nel bacino tedesco l’incesto è sociale, la famiglia è l’intera comunità, il clan nazionale; qui il padre è cancelliere politico per istituzione; suo compito è quello di regolare il transito da e verso l’esterno a tutela dell’unicità territoriale (la razza). Dice Fornari[11]:

 

Anche Hitler infatti cominciò a delirare di guerra partendo dal fantasma persecutorio della Germania-madre soffocata e uccisa dagli ebrei e dai popoli che le stavano intorno: di qui la guerra illusoriamente fantasticata come mezzo per procurare alla Germania uno ‘spazio vitale'.

 

La questione si precisa in realtà nell’incompatibilità alla coesistenza tra lo spazio interno in quanto utero sociale e quello esterno in ogni caso negato e disprezzato nell’oggettivazione della sua diversità (razze inferiori non ariane) rispetto al primato dell’utero-nascita-nazione dell’identità collettiva di appartenenza. La grande madre germanica (Deutscheland mutter alles) ha tentato di ridurre il mondo al suo modello di ginocrazia sociale. In questo confortata e affiancata dal cattolicesimo vaticano che schierava il suo campione, a cui furono attribuite tutte le fedi della nazione, addirittura nell’intento di direzione ideologica e politica dell’asse nazismo-fascismo (nascismo).

Entrambe le parrocchie hanno indicato la via del parricidio, contro il modello culturale ebraico, quale via maestra per riaffermare il primato del sangue e della razza sul sociale (nazionalsocialismo).

Il modello sociale è quello della setta imperniata intorno ad un capo che assomma il potere spirituale e legale. Non importa il sesso del capo, il modello è sempre ginocratico. Dice Jamine Chasseguet-Smirgel[12]:

 

La figura paterna è in effetti scacciata, esclusa dal gruppo come il Super–io (…).

Così il capo partecipa più della madre onnipotente che del padre. Si è spesso paragonato il nazismo [primato della nascita] a una religione, le assemblee di Norimberga a delle messe e Hitler a un grande sacerdote. In effetti il culto così tributato ha per oggetto più 'la dea-madre' (Blut und Buden) che il padre. Si assiste nelle masse così costituite a un vero e proprio sradicamento del padre e dell'universo paterno e contemporaneamente di tutti i derivati dell'edipo e, per ciò che concerne il nazismo, il ritorno alla natura, all'antica antologia Germanica, manifestando l'aspirazione alla fusione con la madre onnipotente.

 

Già..., il nazismo! Dov’era dunque dio? Si chiedono come testimoni Elie Wiesel e Primo Levi. Il dio cristiano era certo con i loro aguzzini (got mit uns), per aiutare a rieducare attraverso il potere liberante del lavoro tendente a costo zero (arbeit macht frei) lo strappo alla cultura della placenta cristiana operato dall'invenzione da parte di una intelligenza non cristiana, più emancipata per via del riferimento strutturale al potere socializzante e sessualizzante del padre come è nel laicismo della cultura ebraica alla base del marxismo, della psicoanalisi, della relatività nella scienza. Uno sterminio esemplare perché non ci sia un altro e diverso capace di smentire e superare il primato biologico della nascita e della nazione attraverso l'affermazione invece del primato della vita e del sociale; 'che questi altri tornassero di là, da dove sono venuti, attraverso il camino inverso. Non si può essere certi che questa storia non trovi altre forme per ripetersi finché non sarà stato detto e compreso il motivo profondo di ciò che è stato nel cuore della civilissima Europa.

Il muro del pianto tedesco è stato rimosso a Berlino dai nuovi bisogni di rimozione del nascente nazionalismo europeo. Per alcuni decenni il monito di ver-gogna della parete ha messo alla berlina l’intolleranza settaria della psicosi narcisista. Tuttavia ogni rimozione ripropone intatto il reiterato affacciarsi del sintomo irrisolto. Il nuovo millennio segnerà il percorso che porterà al crollo le mura di Gerico del dominio matriarcale, fino a svelare quanto c’è ancora di attuale in esse dell’antico enigma delle mura troiane. Il nuovo millennio impone una sfida di consapevolezza per l’essere umano: si tratta di raggiungere, comprendere e superare il muro del “sono” nella coscienza sociale, superando anche le paure più ancestrali.

 

 

Maramao non è morto

 

Emancipazione o sconfitta nella reazione è il dilemma di ogni evoluzione civile. Come sempre la donna figlia è chiamata al ruolo motivante perché si svolga in tutta l’estensione naturale la rivoluzione del ricambio generazione, perché la luna copra, in una eclissi inaugurale, lo spettro del sole alla terra madre, riservando a se stessa, per un attimo significativo, il luminoso impatto sull’altra faccia della sfera[13]. La portata simbolica dell’eclissi di sole è nell’augurio che la donna sviluppi, nella differenza dall’altra donna, le condizioni di emancipazione verso la liberazione della pulsione sessuale, a beneficio d’amore per la condizione umana. Alla luce del sole, la magia dell’amore può rompere la malia della possessione. La vita si afferma nei modi in cui la luce relega il potere dell’ombra alle dipendenze del soggetto.

La coscienza innanzitutto deve acquisire i necessari criteri di igiene affettiva per separare finalmente gli ambiti rituali e simbolici della religione dalle regole di governo delle responsabilità comuni.

La passività indifferente delle religioni nelle vicende di involuzione sociale è stata solo apparente. Come la donna che tollera per anni in casa un marito violento verso i figli, non è credibile che possa essere semplicemente assimilata al ruolo delle vittime, bensì è complice oggettiva e, a ben vedere (e sia pure in modo ambivalente), è pur sempre l’ispiratrice del clima famigliare; allo stesso modo[14] la chiesa di Roma ha saputo e taciuto ciò che altri cristianissimi autori, sulla base di una lunga tradizione storica di pogrom, perpetravano ai danni di ebrei e minoranze.

Per sua natura sessuale ed affettiva la violenza del matriarcato si riserva il ruolo oscuro del mandante. Oppure rivendica pubblicamente come forma ineluttabile di amore il martirio ed il sacrificio umano.

Si può esaltare in modo così esteso il ruolo salvifico della morte senza che l’olocausto divenga realtà effettuale? Affermare ciò in coscienza vuol dire voler professare una cattiva fede.

Ecco la profonda natura fisio-affettiva dei veli cosali della storia.

Ancora nell'odierna rappresentazione della sacralità, la placenta materna rivendica il suo contenuto per non sentirsi vuota: la Sacra Sindone reclama il suo contenuto (con-te-nato) umano, placenta e sudario di un corpo che non si vuole dare alla vita ma trattenere per sé come fallo autoprodotto e sempre desiderato. È amore ciò che è capace di distruggere per desiderio di possesso pur di non liberare? Quanto miseri e poco misteriosi sono i misteri della fede!

Bisogna superare tutte le paludi della colpa (che, in quanto tale, non può che essere attribuita in forma proiettiva) per giungere ad accettare l'idea che la verità è indissolubilmente legata alla responsabilità e al contributo di ciascuno. Al terapeuta, che apprende il suo sapere nella dialettica tra il metodo e la prassi umana, la verità si affaccia nelle sembianze del fantasma, nella medesima sembianza in cui il padre si svela ad Amleto, con tutti i dubbi e le verifiche che impone una scoperta che mette in mora certezze e convinzioni tanto più evidenti quanto più svolgevano la funzione di una efficace copertura[15]:

 

Se questo si fosse rivelato possibile, se io l'avessi vissuto e avessi potuto testimoniare personalmente o tramite altri, avrei potuto concludere che molto più spesso di quanto crediamo, se non sempre, la morte di una creatura giovane - e del resto perché non qualunque morte? - è una forma di uccisione, se non addirittura di omicidio. Ricordo che, nella mia cultura di origine, quando la salma viene composta nella bara tutti quelli che assistono sono invitati a chiederle perdono ad alta voce. Ero quasi sul punto di sostenere che morirebbe chiunque si accorga che nessuna delle persone che contano nella sua vita tiene veramente a lui.

 

Pinocchio fa marameo; si fa beffe della morte da impiccato: "Se non è morto, è segno che è sempre vivo" sentenzia il dottore. Maramao non è morto; il naso gli ricresce per negare che è il suo sesso ad essere castrato. È dunque il fallo il vero oggetto del desiderio. Del desiderio di chi ci ha creato. Viva Pinocchio, eroe anticristiano.



[1] Oggi spetta ai ghost buster della scienza soggettiva, la psicoanalisi, il compito di catturare il fantasma dell’immanenza matriarcale, svelarne la natura “divina” e i limiti distruttivi di un creazionismo che si riproduce sempre in debito di maturità ed emancipazione, che “rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate” (Marx, Engels; Il Manifesto).

[2] Fabrizio De Andrè; Rimini, Dischi Ricordi S.p.A., 1979.

[3] F. Fornari; Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Mi, 1979, pp. 140-141.

[4] F. Fornari; Psicanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Mi, 1970, pp. 40-41.

[5] A. Naouri; Op. cit., p. 74.

[6] Fabrizio De Andrè e Giuseppe Bentivoglio; Storia di un impiegato, La bomba in testa, Ed. musicali: Editori Associati su licenza Dischi Ricordi, 1973.

[7] C. Bonvecchio, C. Risè; Op. cit., p. 87.

[8] E. Neumann in C. Bonvecchio, C. Risè; Op. cit., p. 87.

[9] Publio Ovidio Nasone; L’arte di amare, Demetra s.r.l., Vr, 1996,  p. 24.

[10] K. Marx; La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 24-25.

[11] F. Fornari; Psicanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Mi, 1970, p. 75.

[12] J. Chasseguet Smirgel; Op.cit., pp. 59, 60.

[13] Il riferimento è all’eclissi di sole dell’11 agosto 1999. I valori magici e suggestivi che, in ogni tempo, sono stati attribuiti a tali eventi derivano la loro efficacia dalla proiezione delle dinamiche umane sull’interazione fisica degli astri. È invece ben più vero che è la natura fisica dell’universo a condizionare la natura biologica della vita, ivi comprese le dinamiche affettive che influiscono sulle nostre relazioni. Nel Veneto, già nel testo area di riferimento per alcune osservazioni di ambiente sessuale, l’appuntamento astronomico è coinciso, soprattutto nelle donne, con una singolare propensione di indossare capi di abbigliamento di colore nero. Tale moda, spontanea, inedita e affatto straordinaria per quantità ed estensione, è un comportamento indotto forse da fantasie su questa eclissi che assume risvolti sessuali di cambiamento di epoca e di generazione, in particolare nel rapporto di seduzione tra figlia luna e sole padre. Bisogna tuttavia supporre che il perdurare della moda delle donne in nero indichi un blak out di certezza nelle possibilità di controllo affettivo sul reale; il nero, come negazione polare al rosso, evoca anche i messaggi depressivi della guerra.

[14] Per ciò che riguarda l’identificazione dell’idea di dio con l’immanenza affettiva della madre, con tutto quello che ne consegue in fatto di qualità e responsabilità nella determinazione della misura del mondo, anche la Chasseguet, a conclusione del suo lavoro sul narcisismo, arriva ad ammettere che la mistica religiosa “Costituisce una fusione con l’oggetto primario e, anche quando questo è rappresentato coscientemente da Dio, nondimeno resta in fondo un equivalente della madre precedente la differenziazione.”

J. Chasseguet Smirgel; Op. cit. p. 169.

[15] A. Naouri; Op. cit., p. 104.

 

 

 

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