Per
una fisica dell'emancipazione
Il
tempo è relazione
L’essere
se stessi nella relazione con l’altro fonda il
tempo; questo è, in definitiva, tutto ciò che
conta nella realtà umana. Il tempo è relazione,
recupero del rapporto identico non più come
appartenenza primaria al corpo indifferenziato
materno, ma identità di sé nella molteplicità del
sociale. Proprietà di ruolo, per ciascuno. In
questa accezione, il tempo, come spettanza di vita,
è intensità di relazione. Il tempo non è denaro,
secondo ciò che invece afferma l’impotenza
narcisistica riguardo alla relazione (non essere
strutturalmente capaci di relazione comporta il
fraintendere la libera economia pulsionale per una
economia del possesso materiale, in questo modo
viene reso gerarchico e non paritario l’incontro
con il simile): chi non ha proprietà di ruolo lo
ruba agli altri. L’ignoranza di sé è violenza
nel reale. Necessità di sottomissione del mondo ai
propri limiti angusti ovvero accettazione del
vincolo di subordinazione; paura degli altri,
controllo e negazione del tempo-relazione, riduzione
a merce di ogni valore. Alienazione e reificazione
in unità di scambio del tempo umano di relazione.
La percezione del falso esistenziale si oppone
all'autentico (che si autorizza da sé) dell'essere
evoluto capace di autostima.
Che
il tempo sia economia della relazione, intensità di
relazione, deriva dal fatto che il tempo è una
invenzione umana che ha lo scopo di contrastare
l’angoscia dell’esordio nell’ignoto dopo il
distacco avvenuto con il parto dall’identità
indifferenziata. Il tempo come scansione e la
relazione nascono da questo distacco
dall’indifferenziato proprio per supplire, con una
economia del ritmo e della comunicazione,
all’angoscia di perdita assoluta. Più esattamente
si può dire che i concetti di tempo e temperatura
sono i surrogati sociali rispettivamente del ritmo
cardiaco e del calore corporeo percepiti a suo tempo
dal feto nel corpo materno. Il tempo diviene
relazione che sostituisce l’identico nella
dialettica dell’equivoco, cioè della scommessa di
comunicare attraverso i mezzi del luogo comune.
Non
si tratta di concetti astratti. La loro materialità
è strabiliante. Da questa fisica teorica delle
relazioni umane si può ricavare la comprensione di
un fenomeno evidente a tutti e mai debitamente
considerato: la previsione della durata di vita
nelle donne è mediamente superiore di alcuni anni a
quella dell’uomo. È un dato biologico rilevato
dalla statistica che conferma una distorsione
dell’identità temporale tra i due sessi; la
differenza di genere fisiologico comporta infatti
una diversa modalità e intensità della relazione
affettiva e sessuale: il fatto che la donna
partorisca i corpi dei nuovi nati, dopo un periodo
di gestazione nel proprio corpo, fa sì che la sua
relazione sui figli sia di natura ed intensità
diversa da quella maschile; la qualità di questa
relazione è tale da definire un tempo diverso nella
donna da quello dell’uomo. Il primato del parto
garantisce anche un primato del tempo relazione, in
particolare, con i figli. La femminilità è più
longeva perché meno differenziata e garantita da
una oggettiva identità di relazione. Aldo Naouri
rileva come, nella donna
…in
modo molto più consistente che nel suo partner, al
momento della procreazione si mette in moto il
fantasma della sua immortalità. Mentre l'uomo,
preservato da un simile fantasma dall'irriducibile
distanza dei corpi, accetta la realtà della
procreazione e tenta di trascendere la sua
condizione di mortale proiettandola sul figlio, la
donna ha la possibilità di appoggiarsi
sull'incomparabile prossimità dei corpi che ha
appena sperimentato per sognare di sconfiggere il
tempo. Ha accanto a sé, reale, viva e calda, la
promessa che è riuscita a fabbricarsi.
Ma
il corpo della madre è anche il corpo dal quale i
nati si devono differenziare se si vuole garantire
lo sviluppo intero della persona dalla condizione
psicotica animale a quella sociale sessuale e
consapevole. È la madre, in realtà, che apre un
debito sui figli la cui appartenenza prolungata nel
possesso (nel sesso dell’incesto) è uno smacco
per la loro riuscita. Se la sua competenza
fisiologica e affettiva si tramuta in abuso di
possesso, l'egoismo della donna può sbarrare il
passo ai figli verso il padre e al suo potere
socializzante che, soltanto nella differenza
sessuale, è in grado di emancipare. La facoltà di
dare la vita è anche il potere più regressivo.
Anche il posto del padre dipende infatti dal diritto
di veto della madre. Perché, si chiede Naouri,
questa radicalità delle competenze sessuali è
così difficile da far ammettere ed è rifiutata
dagli uomini e dalle donne?
Per
due motivi diversi: per gli uomini perché li
situerebbe in un ruolo secondario se non addirittura
inferiore, per le donne perché accrescerebbe in
modo intollerabile una responsabilità che non sono
disposte a guardare apertamente in faccia e che le
costringerebbe, facendole rinunciare all'influenza
sui figli, ad affrontare la loro situazione di
esseri mortali.
Tale
onnipotenza è in realtà una condizione alienata ed
alienante, al punto da sostanziare nella realtà
delle relazioni sociali la psicosi della religione e
del presunto diritto naturale allo sfruttamento. Per
lo stesso motivo il potere avvolgente della placenta
può soffocare il mondo; se non risolto da una
adeguata emancipazione, può ricacciare nell’uovo
nel non nato il nuovo soggetto. Così, la condizione
più evoluta di mammiferi può regredire a quella di
ovipari o di marsupiali là dove si imponga una
resurrezione pasquale perché il figlio, recluso per
difetto di ripartizione, giunga a disfarsi
dell’interessata proprietà sul suo corpo avanzata
dal sesso della madre.
Se
la distorsione della relazione primaria si nutre
dell'illusione di essere immortali (nella realtà è
furto di vita sui nati), è vero che ogni
distorsione temporale descrive una precisa
corrispondenza nelle forme delle relazioni umane.
Può allora accadere che si possa avere più o meno
tempo da dedicare a una persona specificando
l’esatto grado di attenzione affettiva che
proviamo nei suoi riguardi. Nella relazione
terapeutica tra malato e curante, per esempio, il
tempo relazione è quantità di vita che si
contrappone alla (verificabile in tutti i casi)
distorsione di relazione che si registra tra il
paziente e l’ambiente affettivo che lo definisce.
Anche in quel caso è la relazione che cura, non la
medicina.
Si
può essere in ritardo o giungere in anticipo ad un
incontro e in tal modo si traduce il senso più
profondo e vero di quella relazione. Ogni
deformazione spazio-temporale è funzione della
forza di attrazione gravitazionale degli affetti
umani, che a loro volta sono metafora biologica
della fisica ambientale. Si può affermare in questo
senso che la teoria della relatività elaborata da
Albert Einstein sia con coerenza applicabile anche
all’universo umano della fisica relazionale, dove
affetti e gravità sono forze equivalenti. La
portata dell’intuizione olistica trova in questa
estensione una conferma clamorosa.
L’aumento
dell’età media della popolazione mondiale è a
torto attribuita solo alle mutate condizioni di
igiene sociale, a meno di non volere includere tra
queste cause, come centrale, il grande sviluppo dei
mezzi di comunicazione e di interazione umana che si
sono imposti in modo esponenziale, perfino
stressante. La libertà, la qualità e
l’estensione della comunicazione umana sono il
vero elisir che allunga la vita.
Miseria
del divino
Certo,
anche il vampiro è immortale; egli esemplifica il
rapporto di narcisismo emofiliaco di appartenenza
non risolta con la madre; non ha una identità di
soggetto, ogni suo riflesso è vuoto nel rimando
dello specchio; questa appartenenza irrisolta ne fa
il campione dell’isolamento e della fobia sociale,
dello sfruttamento delle altrui risorse. Egli non ha
una sua vita: insensibile, egoista ed infantile
pretende di succhiare ogni risorsa. Non ha
proprietà di ruolo sessuale: Dracula
confonde l’utero
con il loculo
nel raso rosa di una bara. La sua immortalità si
sostanzia di un uso del tempo relazione come
appropriazione e sfruttamento dell’altro. Ruba il
tempo dissanguando l’altro nella relazione
diseguale. Ogni vampiro produce il derubato. Se si
considera il mito cristiano, della morte per sangue,
è possibile in proporzione stabilire la quantità e
la dislocazione dei parassiti profittatori
nell’attualità della norma sociale.
Un esempio: la figlia o il figlio relitto,
esibito come una croce a carico della famiglia, che
vive in casa per aver fallito o mai intrapreso un
autonomo discorso con la vita, è esattamente la
riserva vitale dal quale il vecchio genitore estrae
il plusvalore, la relazione rubata, per prolungare
la propria esistenza; ciò può accadere solo a
condizione che il figlio-clone sia stato
sufficientemente fiaccato dalla volontà del
destino, e a patto che sia diffusa, santificata in
forma istituzionale, la complicità sociale.
Crono
mangia i figli per impedire, nella negazione del
parto come avvenuto, l’avvicendamento
generazionale. Nella realtà tuttavia nulla resta
immutabile nell’identico assoluto. In ciò risiede
la miseria del divino; l’imperfezione, la
caducità e il primato degli affetti assegnano
infatti la proprietà del mondo alla genialità
degli umani. Per quanto riguarda questi ultimi, la
realtà è la dialettica di un equivoco più o meno
riuscito nel gioco proiettivo del rispecchiamento
affettivo. Il linguaggio trasforma la certezza della
perdita assoluta dell’identità primaria (paradiso
perduto) nella perdita relativa dell’equivoco
della comunicazione e dell’invenzione. Anche se il
luogo comune ci restituisce la certezza
dell’essere per la vita, la realtà resta comunque
una risorsa dell’improbabile, un equivoco nello
scambio della relazione: bisogna in ogni caso
tollerare come irriducibile lo scarto della
differenza; ogni devianza dalla norma sfugge alla
cattura di una normalizzazione statistica. La
rinuncia all’unicità totalizzante è condizione
data e necessaria. Al di là di ogni nostalgica
regressione al primato della nascita (nascismo), che
si sostanzia nella fantasia di ogni dittatura
settaria e matriarcale, è più realistico fidarsi
di una intelligenza affettiva che sa avvalersi, per
l’orientamento, della percezione integrata di
testa, cuore e sesso. Non può esserci benessere
senza relazione sociale; non può esistere soggetto
umano evoluto senza accettazione della differenza,
senza il superamento di ogni cattura in attitudine
alla comprensione.
Non
c'è società senza padre
Il
ruolo del padre incarna questa differenza
dall’identico. La sua funzione in rapporto ai
figli è essenziale: è al tempo stesso di limite
miliare e di emancipazione; al padre è riferito,
inevitabilmente, il paradigma del sociale. Non è
perciò auspicabile la prefigurazione di un mondo
senza padre. È una contraddizione in termini
parlare di una società senza padre. Mitscherlich
nel suo testo, divenuto riferimento obbligato per la
ricerca nell’ambito della psicologia sociale,
auspica l’avvento di una società emancipata
dall’autoritarismo famigliare; tale eventualità
tuttavia non può realizzarsi agendo sui piani
morali della legge, ma sulle cause originali che
possono inibire i processi di liberazione: non di
morale si tratta, ma del registro degli affetti, in
particolare della corda originaria di legame.
Scambiare il ruolo del cancelliere, del secondino,
che caratterizza il padre nella famiglia
autoritaria, con il ruolo del mandante materno è
l’errore di lettura della realtà affettiva che si
compie, strutturalmente, per la difficoltà a
distinguere nei suoi veri contorni l’entità
affettiva che ci domina e dalla quale unicamente ci
dobbiamo emancipare.
Al
contrario, è auspicabile un incremento sensibile,
in parte già realizzato, della competenza affettiva
del padre nei rapporti con la prole. A tale polo
affettivo si appella ogni referenza di autonomia
formativa nel figlio e nella figlia.
Non
può esistere una società senza padre, dal momento
che è il padre che fonda ogni possibilità per i
figli di incontrare il sociale al di fuori del
chiuso dell’incesto matriarcale.
Una
società senza padre sarebbe una società utero, in
grado di esautorare anche la famiglia, ma incapace
di emancipare i soggetti oltre il concetto di
appartenenza al branco perché tali soggetti,
sebbene socializzati in una famiglia allargata a
setta sociale, non sarebbero in grado di operare e
di tollerare una distinzione tra un sé (individuale
o collettivo) e ogni altro. Ciò è avvenuto nella
società tedesca. Il sociale, aperto oltre la
famiglia e oltre ogni setta, emancipa e centrifuga i
nuovi soggetti nell’avventura umana, ricchi del
bagaglio di affetti acquisiti dai genitori i quali
agiscono in qualità di soggetti responsabili, ma
assolutamente non proprietari del destino dei figli.
Edipo
non ha colpa
Nella
differenza di ruolo tra i genitori il padre è
incapace di possesso
in quanto non è lui il corpo di gestazione, gli è
più affine la funzione di proprietà
verso i beni e l’identificazione dei ruoli.
Ecco perché la ginocrazia del matriarcato
sbarra la strada ai figli nel rapporto con il padre,
ne sequestra il ruolo, ne criminalizza come deviante
il potere sessualizzante, ne elide la potestà
affettiva nelle separazioni coniugali, ne ingloba o
nega le
funzioni riproduttive nel pleonasmo
dell’artificio.
La
madre nell'accezione cristiana incoraggia e promuove
il parricidio, prende essa stessa il posto del padre
(dio è padre e madre secondo la teologia ufficiale;
il papa
è, alla lettera, un padre senza accento), oppure
spetta ad uno dei figli interpretare la distorsione
di ruolo nell'incesto. Dal mito di Gea, fino ai
nostri giorni, è l'incesto con il figlio che
motiva, dall'interno, ogni atto parricida.
La
matriarca predilige sposarsi con i figli. Scaricando
altrove, sugli oggetti esterni all'incesto,
i debiti del mancato distacco, del rifiuto,
dell'aberrazione e dell'opposizione che
nell'innaturale dipendenza vengono contratti. Le
separazioni coniugali avvengono appunto per difetto
di emancipazione o per diretta attrazione
gravitazionale delle famiglie di origine, e vedono
sancita (ancora nella quasi totalità dei casi)
istituzionalmente l'elisione della pari dignità
della figura paterna di fronte ai minori.
Se,
a rigore, il termine uxoricidio
designa l’uccisione della donna nel ruolo di
moglie (uxor-is),
non esiste nel glossario un termine ad hoc per
definire l’uccisione del marito, se non nel suo
ruolo di padre: il parricidio è possibile solo a
patto che l’esecuzione sia ad opera del figlio, in
quanto arma fallica posseduta dall’intenzione
della madre. L’attribuzione della volontà al
figlio nell’edipo è uno dei pochi aggiornamenti
di carattere sostanziale all’insegnamento di Freud
(la psicoanalisi si evolve non per parricidio,
come tende a precisare Lacan).
Va
detto che l’attenzione sessuale infantile per la
madre (come movente presunto) non è attribuibile
alla volontà del bambino come causa efficiente: è
solo causa agente, in quanto la percezione del
bambino, prima di essere tale è immediatamente
identità del sentire dell’adulto in forma
assoluta di plagio; nel bambino la pulsione non è
ancora, secondo l’accezione di Lacan,
il discorso
dell’altro, che matura nel rispecchiamento
dello stimolo ambientale ma è discorso monocorde,
ossia è identità di percezione con la madre. È
essenzialmente il sentire della madre nel corpo in
formazione. Come in un effetto pantografo, la
scrittura dell’identità si esprime attraverso un
altro corpo significante, in un agire che è al
tempo stesso costituente per il nuovo soggetto.
L’accesso
alla sovrapposizione sincronica nell’identità
primaria rimarrà costante anche nel soggetto più
adulto, questi ne è posseduto in modo così tenace
e così indistinto nelle aree più istintuali della
psiche da poterlo elaborare (in mancanza di
strumenti conoscitivi) solo come atto di fede e
possessione divina. Così, come dio comanda,
l’uomo dispone.
Anche
il parricidio, nella topica matriarcale, ha senso
nella misura in cui realizza il fantasma di
sostituzione del fallo-figlio al posto del
fallo-marito, sempre rispetto al godimento della
madre.
Nel mito di Edipo, difatti, il parricidio non è
intenzione dell’autore, ma è nella prescrizione
del destino. D’altra parte, come potrebbe alla
lettera un debuttante rimanere legato alla corda di
partenza quando invece ha quella del traguardo che
gli resta da tagliare?
L’interpretazione
freudiana attribuisce una motivazione di colpa al
figlio a partire da una esegesi del modello
famigliare ebraico della dinamica
dell’identificazione sessuale: il complesso di
castrazione è una conseguenza del rito di
circoncisione, operato a cura di un soggetto
maschile che effettivamente inaugura un ruolo di “aggressore”
fisiologico in
fase primaria anche per il padre. L’effetto si
sovrappone parzialmente a quello meno simbolico,
più potente e rimosso del trauma del parto che
conferisce il primato materno. Ciò in qualche modo
sortisce l’effetto di ridurre la distanza nella
discrepanza del potere di imprinting tra i genitori.
Alla
luce del sole, il senso dell'ombra
Dal
punto di vista della percezione del figlio Isacco,
il padre Abramo si sovrappone al ruolo divino,
perché è difficile distinguere il mandante
dall’esecutore e perché il mandante è nel punto
vuoto, dirige fuori scena restando nell’ombra. Il
padre assume direttamente le sembianze del
totalitarismo divino solo nella misura in cui è
stretto esecutore dei voleri dell’ombra. Il potere
che compete al padre, quello della legge, è
altrimenti molto più visibile e materiale; per sua
natura è soggetto alla responsabilità degli
uomini, alla loro stessa verifica e controllo. Il
paradigma del governo della democrazia si sostanzia
sulla volontà del popolo sovrano: è esattamente
l’opposto della dittatura della ginocrazia e della
teologia.
La
critica della storia ha sempre raggiunto e colpito
il corpo maschile fautore dell’oppressione; quasi
mai ha sconfitto la tendenza alla restaurazione del
dominio che appartiene all’enigma della sfinge e
che è il mandante stesso dell’ingiustizia. Il
maschile è tiranno solo se incarna il difetto
matriarcale; altrimenti il sole mantiene il suo
potere, che è essenzialmente descrittivo, sempre
alla luce dell’evidenza delle cose; nel regno del
giorno (della ragione). È infatti il sole che
confina l’ombra (regina della notte) alle strette
dipendenze del soggetto.
Il
dio madre degli ebrei sostituisce il rito
dell’immolazione-rifiuto del primogenito con
quello simbolico dell’evirazione-femminilizzazione,
cioè della circoncisione. Con questo rito, in cui
si afferma il pieno arbitrio sul fallo maschile, il
figlio è accettato come proprio dal padre (nella
forma) e nella sostanza dalla madre che ne assimila
parzialmente la differenza genitale. Il processo di
castrazione si realizza, è vero, per opera del
padre, in accordo all’esegesi freudiana, e
tuttavia ha lo scopo più recondito ed essenziale di
placare l’invidia di controllo sul portatore del
pene quale interposta espressione del sentire della
madre (per la quale il figlio è pur sempre un po’
se stessa
bambina).
Fallo
materno e castrazione
Anche
e soprattutto la madre motiva la castrazione del
figlio. Herweg rileva nella sostanza la sua
partecipazione attiva al rito:
Secondo
la halakah
il padre è obbligato a circoncidere o a far
circoncidere il proprio figlio; elemento essenziale
della cerimonia è però il fatto che la madre
consegni il neonato e lo riprenda alla fine. In tal
modo entrambi, madre e padre, dichiarano la loro
disponibilità all’atto. In Esodo
4, 25 Zippora, moglie di Mosè, circoncise il
proprio figlio, preservando così il marito
dall’ira di Dio [che lo aveva condannato a
morte per tale omissione].
L’interpretazione
della nota risulta più interessante alla luce di
una lettura che tenga conto della solita ambiguità
del ruolo materno che risiede nella doppia
dislocazione di moglie e dio.
La
circoncisione è così divenuta quasi un simbolo
della disponibilità del maschio ai comandamenti di
Dio (…). Le bambine, che crescevano accanto alla
madre, non avevano invece bisogno di una simile
traslazione.
È
addirittura Zippora, in origine, a circoncidere il
figlio, sottolineando in questo modo diretto la
natura esigente della marcatura divina, a guisa di
taglio, sul sesso del neonato maschio (femminilizzazione).
Da allora in poi il compito viene attribuito al
padre con la supervisione della minaccia che
caratterizza anche l’umore del dio degli ebrei.
Il
senso di
colpa e la sua attribuzione nel figlio si
struttura così come correlato reattivo al processo
di identificazione con l’aggressore (con entrambi
gli aggressori),
quindi anche contro il padre (in Freud il concetto
di identificazione con l’aggressore ha come
oggetto di riferimento esclusivo il padre; verso la
madre, con ogni evidenza, si tratta ancora di
identità indistinta e inesplicata). Nel modello
ebraico, la madre accentua il suo potere
nell’immanenza, il padre nella forma, col parziale
vantaggio di una sua più visibile presenza nel
reale.
Nell’allegoria
di riferimento, anche il
gatto e la volpe sono, in fondo, una
rappresentazione oggettiva dell’accoppiata
famigliare contro cui il figlio può recriminare.
Dal
canto suo, Pinocchio reca in modo fin troppo
evidente il segno del complesso di evirazione: il
suo naso non fa che crescere quando egli viene colto
in fallo.
Tuttavia, se è vulnerabile al raggiro ed
all’inganno della coppia traditrice, è assente in
lui ogni traccia di aggressività specificatamente
diretta contro il padre, il falegname aveva usato il
taglio della lama non per monito, ma per fabbricare
il ragazzo per intero; e in più, per ripasso
d’amore (si potrebbe dire per podofilia),
gli aveva rifatto anche i piedi:
«Pinocchiuccio
mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?».
I
piedi presiedono, nell’investimento simbolico
pulsionale che si attribuisce alle parti del corpo,
alla funzione di contatto con la terra la cui
valenza è chiaramente materna. Il raddoppio di
creazione sottolinea la seconda funzione a cui
presiede l’organo: quella della libertà di
movimento. Una terza funzione simbolica dei piedi è
quella sessuale infantile: lo stesso nome Edipo
significa dai
piedi gonfi (le spiegazioni sono diverse);
senza una logica etimologica, vale la libera
associazione linguistica e rappresentazionale tra il
piede (podo)
e il bambino (pedo).
Il mito vuole che Laio, padre di Edipo, fosse anche
l’iniziatore dell’amore pedofilo, avendo rapito
a tal scopo il fanciullo Crisippo. La maledizione
che si attuerà ha dunque cause remote. Nella
clinica psicoanalitica, come del resto dimostra il
mito di Edipo, l’uso del corpo dei figli come
oggetto sessuale del padre ha come movente remoto un
uguale interessamento sostitutivo e complementare
della sessualità materna.
Va
da sé che Pinocchio non crede
Quando
il gatto e la volpe in veste di assassini minacciano
di morte figlio e padre in successione logica,
Pinocchio tradisce se stesso, incapace di tradire
l’amore per il padre:
«E
dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!»
«Anche
tuo padre!»
«No,
no, no, il mio povero babbo no!» gridò il
Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare
così, gli zecchini gli suonarono in bocca.
Ciò
dimostra che con l’amore si può ottenere di
meglio che con la paura. L’amore è la forza vera
che attribuisce potere e consenso, quando invece la
deterrenza della paura si coniuga solo con il
controllo.
Collodi
rende con delicatezza l’effetto leggero e
liberante dell’amore paterno, come forse non si
conosceva in maniera diffusa nelle famiglie di
allora. Quando l’imbarazzo si fa più evidente
l’autore si rifugia, come un bravo maestro di
scuola elementare, nel raziocinio un po’ pedante
della morale.
Quando
il senso morale si accompagna al senso di giustizia
e all’amore del padre è naturale l’insorgere
dello spirito libertario contro ogni oppressione
nella vita nel singolo e immediatamente nel sociale.
La
leggenda di Guglielmo Tell ha il punto culminante
del suo messaggio di libertà nella scena in cui la
freccia scoccata dall’eroe colpisce la mela posta
sul capo del figlio. È la prova di un amore al
maschile che non teme il sospetto d’incesto.
Insomma, non si tratta di Laio ed Edipo il cui
rapporto è sbarrato in partenza dal sesso materno:
qui la mela
è ancora il simbolo della sessualità femminile, ma
risulta nei fatti ben distinta dal corpo del figlio,
non esige il tributo di sangue, non sessualizza il
corpo del figlio al posto del proprio e, quindi,
accetta di essere
centrata. Non c'è liberazione sociale se la
donna non accetta il proprio ruolo sessuale. Il mito
dell’arciere è simile, certo in meglio, a quello
ebraico di Abramo ed Isacco. La prova è ingiusta e
rischiosa ma segna il punto di passaggio verso un
esito di riscatto sociale, oltre ogni vessazione. In
Guglielmo Tell è assente ogni parvenza di concorso
nella minaccia sul figlio, pertanto manca in
proporzione ogni ingerenza religiosa che nasconde
nelle forme della pietà la pulsione distruttiva
conseguenza dell’incesto.
In
quanto a Pinocchio, nel corso del libro non si fa
riferimento, neppure per sbaglio, all’idea di dio
o a qualche precetto religioso. Segno che una buona
educazione, per quanto possa essere datata, può
fare sempre meglio senza evangelizzazione, anche in
una società indottrinata sino al midollo. Deve
essere stata proprio una simile considerazione
a disporre l’attenzione ecclesiale
all’opera, davvero inopportuna e priva di
sensibilità, di inglobare il pulito laicismo della
pedagogia paterna nel dettato cristiano matriarcale.
Rana
rupta
Secondo
il cardinale Biffi: “Pinocchio,
il celebre burattino creato dalla penna di Carlo
Collodi, contiene un messaggio positivo, molto
vicino al Vangelo”.
In
nessun caso Pinocchio potrebbe sviluppare un senso
religioso: egli sa benissimo come e da chi è stato
generato, egli stesso ne può testimoniare. Il pieno
stato di coscienza al momento dell’origine rende
superflua ogni elaborazione sovrannaturale o in
chiave mistica del senso della vita e della
provenienza. Possedere il codice della propria
nascita affranca dalla confusione che imbriglia l'io
nella schiavitù di appartenenza al d'io.
Tuttavia è ribadito: extra
ecclesiam nulla salus. La cupola si fa misura
del mondo, nega ogni cosa nell’incorporare. Ogni
inglobamento è distruttivo nell’intento.
La
placenta oscura il cielo: tra terra e cèllofan è
la metafora moderna.
Si
può incartare il mondo? Sacchetti simili a placente
artificiali minacciano anche i mammiferi
del mare. Come va a finire la storia? Rana
rupta et bos!
Come la celebre rana della favola di Fedro
che si misura a confronto con il bue, si gonfia, si
gonfia fino a scoppiare.
Dante,
tra gli altri, fu devoto indigesto. Egli seppe
mimetizzare nell’offerta celebrativa all’impero
papale, in allegoria a quanto fece Virgilio per
Roma, l’intento terapeutico di indicare al mondo
l’esemplare percorso a ritroso che dalle cavità e
gli orifizi infernali (nel
mezzo della vita, la selva) giunge a purgare
l’essere fino al punto di riveder il
sole e le altre stelle in un cielo senza più
debiti di appartenenza primaria. Anche lui si avvale
del salvacondotto speciale dell’amore del padre,
nella persona di Virgilio, per cogliere
nell’aggiramento della suggestione letteraria
l’impareggiabile soddisfazione, più che temeraria
per quei tempi, di mandare ben due papi
all’inferno. Anche la religiosità può essere
ricondotta, nel canovaccio di una commedia, al
doppio senso arguto dell’allegoria. Il poeta è
sommo nel farsi egli stesso giudice divino. E
creatore. Più ancora per aver attivato,
dall’interno, un dispositivo di critica ben
confezionato, tra i più attivi nel millennio nei
suoi effetti politici e formativi. Lo sguardo
dell’intelligenza, nella misura in cui esiste,
viene a capo di ogni cieco intestino di ritenzione
matriarcale.
Il
piede della lumaca
A
questo punto è opportuno chiedersi se anche il
burattino abbia espresso forme di tensione critica
nei confronti della figura materna, nella
fattispecie la fata. La tensione aggressiva è in
realtà negazione della castrazione e affermazione
della propria identità sessuale. Nell’episodio
del burattino dinanzi alla casa della fata il
confronto assume il connotato sessuale di un
conflitto tra l’indisponente lentezza della
lumaca, che sempre allude nelle simbologie oniriche
alla fallicità clitoridea della sessualità
femminile, e la reazione di Pinocchio che se la
prende con l’uscio di casa:
«Ragazzo
mio» gli rispose dalla finestra quella bestiola
tutta pace e tutta flemma, «ragazzo mio, io sono
una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta».
E
la finestra si richiuse.
Di
lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi
le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre
chiusa.
Allora
Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia
il battente della porta per bussare un gran colpo da
far rintronare tutto il casamento: ma il battente
che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla
viva, che sgusciandogli dalle mani sparì nel
rigagnolo d’acqua in mezzo alla strada.
«Ah,
sì?» gridò Pinocchio sempre più accecato dalla
collera. «Se il battente è sparito, io seguiterò
a bussare a furia di calci».
E
tiratosi un poco indietro, lasciò andare una
solennissima pedata nell’uscio della casa. Il
colpo fu così forte, che il piede penetrò nel
legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò
a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile: perché
il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un
chiodo ribadito.
Tra
rabbia e provocazione, tra l’agire irato e
l’indisponente passività, si gioca un confronto
tra fallicità diverse: il piede del burattino e il
piede della lumaca. È conflitto tra estremità
sessuali per definire chi possiede il fallo e chi lo
ambisce non solo sessualmente, ma per ribadirne
il possesso come cattura a negazione della falla o
dell’esistenza di una sessualità al femminile
definita dalla mancanza, dal desiderio e quindi
dall’attraenza. Il vero primato in gioco non è
tanto quello della procreazione, quanto quello
dell’orgasmo. Il matriarcato ha necessità di
colpevolizzare e negare il piacere sessuale, nei
figli e nelle figlie, al fine di esaltare il primato
dell’appartenenza prolungata.
È
il cielo che avvolge la terra!
La
funzione erotizzante sui figli è prerogativa del
padre. Il corpo della madre non può risolversi a
tanto perché i figli sarebbero riportati nel vicolo
cieco dell’inglobamento originario. Ecco perché
Edipo diviene cieco. L’incesto con la madre
preclude il sociale inteso come ri-uscita; nega la
luce. Nega la piazza nella chiusura di una chiesa.
Nel gioco del difetto originario, Ulisse pianta la
trave nell’occhio del Ciclope.
Il
matriarcato non può che falsificare, nella pretesa
del principio di unicità, la realtà della
differenza sessuale. Nella divulgazione popolare,
l’inganno può giungere al ridicolo di porre il
quesito se sia nato prima l'uovo
o la gallina.
Dall'uovo e dalla gallina da soli non può nascere
alcunché: ancora una volta si elide il ruolo del
padre. Eppure la rivoluzione copernicana, e poi
Galilei con il fallo del cannocchiale, avevano già
fatto giustizia della fallace apparenza del piatto
servito da madre
terra. Pinocchio con il suo naso, Galilei con il
cannocchiale negano la castrazione sessuale, mimando
la rappresentazione del fallo e del vero.
Rivoluzione anticristiana quella del cannocchiale!
Solo
ai credenti
madre terra può servire il piatto illusorio delle
due dimensioni; mentre invece è sufficiente mimare
il fallo di un cannocchiale che padre cielo svela la
portata della nostra condizione. Parafrasando le
dimensioni del gusto diremmo che il piatto
della vita diviene sapido
ai sapienti.
La
verità è che il cielo avvolge la terra; e che il
mare ha la stessa luce del cielo. Cielo e mare
sono coinemi
del padre.
Natura
vuole che il padre sia premessa e successivo valore
di ogni creazione!
Secondo
il codice
naturale di significazione, l’acqua dolce è
un coinema materno. Il mare, come le lacrime e tutto
ciò che sa
di sale, è un coinema dell’amore del padre
anche se spesso gli si attribuisce razionalmente un
simbolismo materno. Lo stesso Fornari
parla del mare in tempesta come di un contenitore
materno cattivo; in realtà, il riferimento
ancestrale del mare riporta non tanto all’origine
della vita amniotica, ma più oltre, fino agli
spermatozoi, e alle particelle di vita da cui tutto
è generato sulla terra. Nel progressivo affermarsi
del processo di autonomia del bambino verso la
scoperta dei rapporti umani, saranno le lacrime del
primo distacco a marcare, ancora del sapore del
sale, l’impatto con l’ambiente in assenza della
madre, nella fase che apre all’incontro con gli
affetti e le libere associazioni del sociale.
In
Dante l’esilio sa
di sale. Nel vecchio pescatore di Hemingway il
mare si precisa con ingenua chiarezza come funzione
d’amore del padre, dove l’ambivalenza del genere
sessuale, che il protagonista del racconto
attribuisce al mare, tradisce la lettura di una
aggressività di sostituzione verso il primato
affettivo della donna.
Non
sempre il genere linguistico coincide con quello
sessuale. In lingua francese, dove il mare si
declina al femminile, la poesia di Baudelaire
riconferma l’attribuzione maschile di questo ruolo
sessuato, quando paragona il moto incessante del
mare sulla costa alla spinta ritmata dell’uomo nel
rapporto sessuale con l’amata.
Nel
film di Woody Allen, Edipo
relitto, l’invadenza della madre nelle vicende
di coppia del protagonista assume dimensioni tanto
castranti da stagliarsi visivamente nel cielo di New
York, denunciando fuor di metafora la prerogativa di
enorme influenza che la madre conserva sul destino
affettivo dei figli adulti e sul fallimento
dell’amore in quanto alternativa impossibile (a-ma)
alla continuità di legame irrisolto. È
interessante segnalare come negli interni del film
sia sempre presente il significante d’arredo del
cannocchiale; l’insipido del piatto servito dalla
madre, il pollo lesso, diviene poi valore
emblematico della sconfitta dell’esistenza
affettiva. Il tutto è giocato con magistrale ironia
ed autoironia dagli interpreti tra i quali, nel
ruolo di protagonista, lo stesso autore.