Tra Terra e Cellofan

 

Per una fisica dell'emancipazione

  Il tempo è relazione

 L’essere se stessi nella relazione con l’altro fonda il tempo; questo è, in definitiva, tutto ciò che conta nella realtà umana. Il tempo è relazione, recupero del rapporto identico non più come appartenenza primaria al corpo indifferenziato materno, ma identità di sé nella molteplicità del sociale. Proprietà di ruolo, per ciascuno. In questa accezione, il tempo, come spettanza di vita, è intensità di relazione. Il tempo non è denaro, secondo ciò che invece afferma l’impotenza narcisistica riguardo alla relazione (non essere strutturalmente capaci di relazione comporta il fraintendere la libera economia pulsionale per una economia del possesso materiale, in questo modo viene reso gerarchico e non paritario l’incontro con il simile): chi non ha proprietà di ruolo lo ruba agli altri. L’ignoranza di sé è violenza nel reale. Necessità di sottomissione del mondo ai propri limiti angusti ovvero accettazione del vincolo di subordinazione; paura degli altri, controllo e negazione del tempo-relazione, riduzione a merce di ogni valore. Alienazione e reificazione in unità di scambio del tempo umano di relazione. La percezione del falso esistenziale si oppone all'autentico (che si autorizza da sé) dell'essere evoluto capace di autostima.

Che il tempo sia economia della relazione, intensità di relazione, deriva dal fatto che il tempo è una invenzione umana che ha lo scopo di contrastare l’angoscia dell’esordio nell’ignoto dopo il distacco avvenuto con il parto dall’identità indifferenziata. Il tempo come scansione e la relazione nascono da questo distacco dall’indifferenziato proprio per supplire, con una economia del ritmo e della comunicazione, all’angoscia di perdita assoluta. Più esattamente si può dire che i concetti di tempo e temperatura sono i surrogati sociali rispettivamente del ritmo cardiaco e del calore corporeo percepiti a suo tempo dal feto nel corpo materno. Il tempo diviene relazione che sostituisce l’identico nella dialettica dell’equivoco, cioè della scommessa di comunicare attraverso i mezzi del luogo comune.

Non si tratta di concetti astratti. La loro materialità è strabiliante. Da questa fisica teorica delle relazioni umane si può ricavare la comprensione di un fenomeno evidente a tutti e mai debitamente considerato: la previsione della durata di vita nelle donne è mediamente superiore di alcuni anni a quella dell’uomo. È un dato biologico rilevato dalla statistica che conferma una distorsione dell’identità temporale tra i due sessi; la differenza di genere fisiologico comporta infatti una diversa modalità e intensità della relazione affettiva e sessuale: il fatto che la donna partorisca i corpi dei nuovi nati, dopo un periodo di gestazione nel proprio corpo, fa sì che la sua relazione sui figli sia di natura ed intensità diversa da quella maschile; la qualità di questa relazione è tale da definire un tempo diverso nella donna da quello dell’uomo. Il primato del parto garantisce anche un primato del tempo relazione, in particolare, con i figli. La femminilità è più longeva perché meno differenziata e garantita da una oggettiva identità di relazione. Aldo Naouri[1] rileva come, nella donna

 …in modo molto più consistente che nel suo partner, al momento della procreazione si mette in moto il fantasma della sua immortalità. Mentre l'uomo, preservato da un simile fantasma dall'irriducibile distanza dei corpi, accetta la realtà della procreazione e tenta di trascendere la sua condizione di mortale proiettandola sul figlio, la donna ha la possibilità di appoggiarsi sull'incomparabile prossimità dei corpi che ha appena sperimentato per sognare di sconfiggere il tempo. Ha accanto a sé, reale, viva e calda, la promessa che è riuscita a fabbricarsi.

 Ma il corpo della madre è anche il corpo dal quale i nati si devono differenziare se si vuole garantire lo sviluppo intero della persona dalla condizione psicotica animale a quella sociale sessuale e consapevole. È la madre, in realtà, che apre un debito sui figli la cui appartenenza prolungata nel possesso (nel sesso dell’incesto) è uno smacco per la loro riuscita. Se la sua competenza fisiologica e affettiva si tramuta in abuso di possesso, l'egoismo della donna può sbarrare il passo ai figli verso il padre e al suo potere socializzante che, soltanto nella differenza sessuale, è in grado di emancipare. La facoltà di dare la vita è anche il potere più regressivo. Anche il posto del padre dipende infatti dal diritto di veto della madre. Perché, si chiede Naouri, questa radicalità delle competenze sessuali è così difficile da far ammettere ed è rifiutata dagli uomini e dalle donne[2]?

 Per due motivi diversi: per gli uomini perché li situerebbe in un ruolo secondario se non addirittura inferiore, per le donne perché accrescerebbe in modo intollerabile una responsabilità che non sono disposte a guardare apertamente in faccia e che le costringerebbe, facendole rinunciare all'influenza sui figli, ad affrontare la loro situazione di esseri mortali.

 Tale onnipotenza è in realtà una condizione alienata ed alienante, al punto da sostanziare nella realtà delle relazioni sociali la psicosi della religione e del presunto diritto naturale allo sfruttamento. Per lo stesso motivo il potere avvolgente della placenta può soffocare il mondo; se non risolto da una adeguata emancipazione, può ricacciare nell’uovo nel non nato il nuovo soggetto. Così, la condizione più evoluta di mammiferi può regredire a quella di ovipari o di marsupiali là dove si imponga una resurrezione pasquale perché il figlio, recluso per difetto di ripartizione, giunga a disfarsi dell’interessata proprietà sul suo corpo avanzata dal sesso della madre.

Se la distorsione della relazione primaria si nutre dell'illusione di essere immortali (nella realtà è furto di vita sui nati), è vero che ogni distorsione temporale descrive una precisa corrispondenza nelle forme delle relazioni umane. Può allora accadere che si possa avere più o meno tempo da dedicare a una persona specificando l’esatto grado di attenzione affettiva che proviamo nei suoi riguardi. Nella relazione terapeutica tra malato e curante, per esempio, il tempo relazione è quantità di vita che si contrappone alla (verificabile in tutti i casi) distorsione di relazione che si registra tra il paziente e l’ambiente affettivo che lo definisce. Anche in quel caso è la relazione che cura, non la medicina[3].

Si può essere in ritardo o giungere in anticipo ad un incontro e in tal modo si traduce il senso più profondo e vero di quella relazione. Ogni deformazione spazio-temporale è funzione della forza di attrazione gravitazionale degli affetti umani, che a loro volta sono metafora biologica della fisica ambientale. Si può affermare in questo senso che la teoria della relatività elaborata da Albert Einstein sia con coerenza applicabile anche all’universo umano della fisica relazionale, dove affetti e gravità sono forze equivalenti. La portata dell’intuizione olistica trova in questa estensione una conferma clamorosa.

L’aumento dell’età media della popolazione mondiale è a torto attribuita solo alle mutate condizioni di igiene sociale, a meno di non volere includere tra queste cause, come centrale, il grande sviluppo dei mezzi di comunicazione e di interazione umana che si sono imposti in modo esponenziale, perfino stressante. La libertà, la qualità e l’estensione della comunicazione umana sono il vero elisir che allunga la vita.

  

Miseria del divino

 Certo, anche il vampiro è immortale; egli esemplifica il rapporto di narcisismo emofiliaco di appartenenza non risolta con la madre; non ha una identità di soggetto, ogni suo riflesso è vuoto nel rimando dello specchio; questa appartenenza irrisolta ne fa il campione dell’isolamento e della fobia sociale, dello sfruttamento delle altrui risorse. Egli non ha una sua vita: insensibile, egoista ed infantile pretende di succhiare ogni risorsa. Non ha proprietà di ruolo sessuale: Dracula confonde l’utero con il loculo nel raso rosa di una bara. La sua immortalità si sostanzia di un uso del tempo relazione come appropriazione e sfruttamento dell’altro. Ruba il tempo dissanguando l’altro nella relazione diseguale. Ogni vampiro produce il derubato. Se si considera il mito cristiano, della morte per sangue, è possibile in proporzione stabilire la quantità e la dislocazione dei parassiti profittatori nell’attualità della norma sociale.  Un esempio: la figlia o il figlio relitto, esibito come una croce a carico della famiglia, che vive in casa per aver fallito o mai intrapreso un autonomo discorso con la vita, è esattamente la riserva vitale dal quale il vecchio genitore estrae il plusvalore, la relazione rubata, per prolungare la propria esistenza; ciò può accadere solo a condizione che il figlio-clone sia stato sufficientemente fiaccato dalla volontà del destino, e a patto che sia diffusa, santificata in forma istituzionale, la complicità sociale.

Crono mangia i figli per impedire, nella negazione del parto come avvenuto, l’avvicendamento generazionale. Nella realtà tuttavia nulla resta immutabile nell’identico assoluto. In ciò risiede la miseria del divino; l’imperfezione, la caducità e il primato degli affetti assegnano infatti la proprietà del mondo alla genialità degli umani. Per quanto riguarda questi ultimi, la realtà è la dialettica di un equivoco più o meno riuscito nel gioco proiettivo del rispecchiamento affettivo. Il linguaggio trasforma la certezza della perdita assoluta dell’identità primaria (paradiso perduto) nella perdita relativa dell’equivoco della comunicazione e dell’invenzione. Anche se il luogo comune ci restituisce la certezza dell’essere per la vita, la realtà resta comunque una risorsa dell’improbabile, un equivoco nello scambio della relazione: bisogna in ogni caso tollerare come irriducibile lo scarto della differenza; ogni devianza dalla norma sfugge alla cattura di una normalizzazione statistica. La rinuncia all’unicità totalizzante è condizione data e necessaria. Al di là di ogni nostalgica regressione al primato della nascita (nascismo), che si sostanzia nella fantasia di ogni dittatura settaria e matriarcale, è più realistico fidarsi di una intelligenza affettiva che sa avvalersi, per l’orientamento, della percezione integrata di testa, cuore e sesso. Non può esserci benessere senza relazione sociale; non può esistere soggetto umano evoluto senza accettazione della differenza, senza il superamento di ogni cattura in attitudine alla comprensione.

 

 

Non c'è società senza padre

 

Il ruolo del padre incarna questa differenza dall’identico. La sua funzione in rapporto ai figli è essenziale: è al tempo stesso di limite miliare e di emancipazione; al padre è riferito, inevitabilmente, il paradigma del sociale. Non è perciò auspicabile la prefigurazione di un mondo senza padre. È una contraddizione in termini parlare di una società senza padre. Mitscherlich nel suo testo, divenuto riferimento obbligato per la ricerca nell’ambito della psicologia sociale[4], auspica l’avvento di una società emancipata dall’autoritarismo famigliare; tale eventualità tuttavia non può realizzarsi agendo sui piani morali della legge, ma sulle cause originali che possono inibire i processi di liberazione: non di morale si tratta, ma del registro degli affetti, in particolare della corda originaria di legame. Scambiare il ruolo del cancelliere, del secondino, che caratterizza il padre nella famiglia autoritaria, con il ruolo del mandante materno è l’errore di lettura della realtà affettiva che si compie, strutturalmente, per la difficoltà a distinguere nei suoi veri contorni l’entità affettiva che ci domina e dalla quale unicamente ci dobbiamo emancipare.

Al contrario, è auspicabile un incremento sensibile, in parte già realizzato, della competenza affettiva del padre nei rapporti con la prole. A tale polo affettivo si appella ogni referenza di autonomia formativa nel figlio e nella figlia.

Non può esistere una società senza padre, dal momento che è il padre che fonda ogni possibilità per i figli di incontrare il sociale al di fuori del chiuso dell’incesto matriarcale.

Una società senza padre sarebbe una società utero, in grado di esautorare anche la famiglia, ma incapace di emancipare i soggetti oltre il concetto di appartenenza al branco perché tali soggetti, sebbene socializzati in una famiglia allargata a setta sociale, non sarebbero in grado di operare e di tollerare una distinzione tra un sé (individuale o collettivo) e ogni altro. Ciò è avvenuto nella società tedesca. Il sociale, aperto oltre la famiglia e oltre ogni setta, emancipa e centrifuga i nuovi soggetti nell’avventura umana, ricchi del bagaglio di affetti acquisiti dai genitori i quali agiscono in qualità di soggetti responsabili, ma assolutamente non proprietari del destino dei figli.

 

 

Edipo non ha colpa

 

Nella differenza di ruolo tra i genitori il padre è incapace di possesso in quanto non è lui il corpo di gestazione, gli è più affine la funzione di proprietà verso i beni e l’identificazione dei ruoli.  Ecco perché la ginocrazia del matriarcato sbarra la strada ai figli nel rapporto con il padre, ne sequestra il ruolo, ne criminalizza come deviante il potere sessualizzante, ne elide la potestà affettiva nelle separazioni coniugali, ne ingloba o nega  le funzioni riproduttive nel pleonasmo dell’artificio.

La madre nell'accezione cristiana incoraggia e promuove il parricidio, prende essa stessa il posto del padre (dio è padre e madre secondo la teologia ufficiale; il papa è, alla lettera, un padre senza accento), oppure spetta ad uno dei figli interpretare la distorsione di ruolo nell'incesto. Dal mito di Gea, fino ai nostri giorni, è l'incesto con il figlio che motiva, dall'interno, ogni atto parricida.

La matriarca predilige sposarsi con i figli. Scaricando altrove, sugli oggetti esterni all'incesto,  i debiti del mancato distacco, del rifiuto, dell'aberrazione e dell'opposizione che nell'innaturale dipendenza vengono contratti. Le separazioni coniugali avvengono appunto per difetto di emancipazione o per diretta attrazione gravitazionale delle famiglie di origine, e vedono sancita (ancora nella quasi totalità dei casi) istituzionalmente l'elisione della pari dignità della figura paterna di fronte ai minori.

Se, a rigore, il termine uxoricidio designa l’uccisione della donna nel ruolo di moglie (uxor-is), non esiste nel glossario un termine ad hoc per definire l’uccisione del marito, se non nel suo ruolo di padre: il parricidio è possibile solo a patto che l’esecuzione sia ad opera del figlio, in quanto arma fallica posseduta dall’intenzione della madre. L’attribuzione della volontà al figlio nell’edipo è uno dei pochi aggiornamenti di carattere sostanziale all’insegnamento di Freud (la psicoanalisi si evolve non per parricidio, come tende a precisare Lacan).

Va detto che l’attenzione sessuale infantile per la madre (come movente presunto) non è attribuibile alla volontà del bambino come causa efficiente: è solo causa agente, in quanto la percezione del bambino, prima di essere tale è immediatamente identità del sentire dell’adulto in forma assoluta di plagio; nel bambino la pulsione non è ancora, secondo l’accezione di Lacan[5], il discorso dell’altro, che matura nel rispecchiamento dello stimolo ambientale ma è discorso monocorde, ossia è identità di percezione con la madre. È essenzialmente il sentire della madre nel corpo in formazione. Come in un effetto pantografo, la scrittura dell’identità si esprime attraverso un altro corpo significante, in un agire che è al tempo stesso costituente per il nuovo soggetto.

L’accesso alla sovrapposizione sincronica nell’identità primaria rimarrà costante anche nel soggetto più adulto, questi ne è posseduto in modo così tenace e così indistinto nelle aree più istintuali della psiche da poterlo elaborare (in mancanza di strumenti conoscitivi) solo come atto di fede e possessione divina. Così, come dio comanda, l’uomo dispone.

Anche il parricidio, nella topica matriarcale, ha senso  nella misura in cui realizza il fantasma di sostituzione del fallo-figlio al posto del fallo-marito, sempre rispetto al godimento della madre[6]. Nel mito di Edipo, difatti, il parricidio non è intenzione dell’autore, ma è nella prescrizione del destino. D’altra parte, come potrebbe alla lettera un debuttante rimanere legato alla corda di partenza quando invece ha quella del traguardo che gli resta da tagliare?

L’interpretazione freudiana attribuisce una motivazione di colpa al figlio a partire da una esegesi del modello famigliare ebraico della dinamica dell’identificazione sessuale: il complesso di castrazione è una conseguenza del rito di circoncisione, operato a cura di un soggetto maschile che effettivamente inaugura un ruolo di “aggressore” fisiologico in fase primaria anche per il padre. L’effetto si sovrappone parzialmente a quello meno simbolico, più potente e rimosso del trauma del parto che conferisce il primato materno. Ciò in qualche modo sortisce l’effetto di ridurre la distanza nella discrepanza del potere di imprinting tra i genitori.

 

 

Alla luce del sole, il senso dell'ombra

 

Dal punto di vista della percezione del figlio Isacco, il padre Abramo si sovrappone al ruolo divino, perché è difficile distinguere il mandante dall’esecutore e perché il mandante è nel punto vuoto, dirige fuori scena restando nell’ombra. Il padre assume direttamente le sembianze del totalitarismo divino solo nella misura in cui è stretto esecutore dei voleri dell’ombra. Il potere che compete al padre, quello della legge, è altrimenti molto più visibile e materiale; per sua natura è soggetto alla responsabilità degli uomini, alla loro stessa verifica e controllo. Il paradigma del governo della democrazia si sostanzia sulla volontà del popolo sovrano: è esattamente l’opposto della dittatura della ginocrazia e della teologia.

La critica della storia ha sempre raggiunto e colpito il corpo maschile fautore dell’oppressione; quasi mai ha sconfitto la tendenza alla restaurazione del dominio che appartiene all’enigma della sfinge e che è il mandante stesso dell’ingiustizia. Il maschile è tiranno solo se incarna il difetto matriarcale; altrimenti il sole mantiene il suo potere, che è essenzialmente descrittivo, sempre alla luce dell’evidenza delle cose; nel regno del giorno (della ragione). È infatti il sole che confina l’ombra (regina della notte) alle strette dipendenze del soggetto[7].

Il dio madre degli ebrei sostituisce il rito dell’immolazione-rifiuto del primogenito con quello simbolico dell’evirazione-femminilizzazione, cioè della circoncisione. Con questo rito, in cui si afferma il pieno arbitrio sul fallo maschile, il figlio è accettato come proprio dal padre (nella forma) e nella sostanza dalla madre che ne assimila parzialmente la differenza genitale. Il processo di castrazione si realizza, è vero, per opera del padre, in accordo all’esegesi freudiana, e tuttavia ha lo scopo più recondito ed essenziale di placare l’invidia di controllo sul portatore del pene quale interposta espressione del sentire della madre (per la quale il figlio è pur sempre un po’ se stessa bambina).

 

 

Fallo materno e castrazione

 

Anche e soprattutto la madre motiva la castrazione del figlio. Herweg rileva nella sostanza la sua partecipazione attiva al rito[8]:

 

Secondo la halakah il padre è obbligato a circoncidere o a far circoncidere il proprio figlio; elemento essenziale della cerimonia è però il fatto che la madre consegni il neonato e lo riprenda alla fine. In tal modo entrambi, madre e padre, dichiarano la loro disponibilità all’atto. In Esodo 4, 25 Zippora, moglie di Mosè, circoncise il proprio figlio, preservando così il marito dall’ira di Dio [che lo aveva condannato a morte per tale omissione].

 

L’interpretazione della nota risulta più interessante alla luce di una lettura che tenga conto della solita ambiguità del ruolo materno che risiede nella doppia dislocazione di moglie e dio.

 

La circoncisione è così divenuta quasi un simbolo della disponibilità del maschio ai comandamenti di Dio (…). Le bambine, che crescevano accanto alla madre, non avevano invece bisogno di una simile traslazione.

 

È addirittura Zippora, in origine, a circoncidere il figlio, sottolineando in questo modo diretto la natura esigente della marcatura divina, a guisa di taglio, sul sesso del neonato maschio (femminilizzazione). Da allora in poi il compito viene attribuito al padre con la supervisione della minaccia che caratterizza anche l’umore del dio degli ebrei.

Il senso di colpa e la sua attribuzione nel figlio si struttura così come correlato reattivo al processo di identificazione con l’aggressore (con entrambi gli aggressori), quindi anche contro il padre (in Freud il concetto di identificazione con l’aggressore ha come oggetto di riferimento esclusivo il padre; verso la madre, con ogni evidenza, si tratta ancora di identità indistinta e inesplicata). Nel modello ebraico, la madre accentua il suo potere nell’immanenza, il padre nella forma, col parziale vantaggio di una sua più visibile presenza nel reale.

Nell’allegoria di riferimento, anche il gatto e la volpe sono, in fondo, una rappresentazione oggettiva dell’accoppiata famigliare contro cui il figlio può recriminare[9].

Dal canto suo, Pinocchio reca in modo fin troppo evidente il segno del complesso di evirazione: il suo naso non fa che crescere quando egli viene colto in fallo. Tuttavia, se è vulnerabile al raggiro ed all’inganno della coppia traditrice, è assente in lui ogni traccia di aggressività specificatamente diretta contro il padre, il falegname aveva usato il taglio della lama non per monito, ma per fabbricare il ragazzo per intero; e in più, per ripasso d’amore (si potrebbe dire per podofilia), gli aveva rifatto anche i piedi[10]:

 

«Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?».

 

I piedi presiedono, nell’investimento simbolico pulsionale che si attribuisce alle parti del corpo, alla funzione di contatto con la terra la cui valenza è chiaramente materna. Il raddoppio di creazione sottolinea la seconda funzione a cui presiede l’organo: quella della libertà di movimento. Una terza funzione simbolica dei piedi è quella sessuale infantile: lo stesso nome Edipo significa dai piedi gonfi (le spiegazioni sono diverse)[11]; senza una logica etimologica, vale la libera associazione linguistica e rappresentazionale tra il piede (podo) e il bambino (pedo). Il mito vuole che Laio, padre di Edipo, fosse anche l’iniziatore dell’amore pedofilo, avendo rapito a tal scopo il fanciullo Crisippo. La maledizione che si attuerà ha dunque cause remote. Nella clinica psicoanalitica, come del resto dimostra il mito di Edipo, l’uso del corpo dei figli come oggetto sessuale del padre ha come movente remoto un uguale interessamento sostitutivo e complementare della sessualità materna.

  

Va da sé che Pinocchio non crede

 Quando il gatto e la volpe in veste di assassini minacciano di morte figlio e padre in successione logica, Pinocchio tradisce se stesso, incapace di tradire l’amore per il padre[12]:

 

«E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!»

«Anche tuo padre!»

«No, no, no, il mio povero babbo no!» gridò il Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare così, gli zecchini gli suonarono in bocca.

 

Ciò dimostra che con l’amore si può ottenere di meglio che con la paura. L’amore è la forza vera che attribuisce potere e consenso, quando invece la deterrenza della paura si coniuga solo con il controllo.

Collodi rende con delicatezza l’effetto leggero e liberante dell’amore paterno, come forse non si conosceva in maniera diffusa nelle famiglie di allora. Quando l’imbarazzo si fa più evidente l’autore si rifugia, come un bravo maestro di scuola elementare, nel raziocinio un po’ pedante della morale.

Quando il senso morale si accompagna al senso di giustizia e all’amore del padre è naturale l’insorgere dello spirito libertario contro ogni oppressione nella vita nel singolo e immediatamente nel sociale.

La leggenda di Guglielmo Tell ha il punto culminante del suo messaggio di libertà nella scena in cui la freccia scoccata dall’eroe colpisce la mela posta sul capo del figlio. È la prova di un amore al maschile che non teme il sospetto d’incesto. Insomma, non si tratta di Laio ed Edipo il cui rapporto è sbarrato in partenza dal sesso materno: qui la mela è ancora il simbolo della sessualità femminile, ma risulta nei fatti ben distinta dal corpo del figlio, non esige il tributo di sangue, non sessualizza il corpo del figlio al posto del proprio e, quindi, accetta di essere centrata. Non c'è liberazione sociale se la donna non accetta il proprio ruolo sessuale. Il mito dell’arciere è simile, certo in meglio, a quello ebraico di Abramo ed Isacco. La prova è ingiusta e rischiosa ma segna il punto di passaggio verso un esito di riscatto sociale, oltre ogni vessazione. In Guglielmo Tell è assente ogni parvenza di concorso nella minaccia sul figlio, pertanto manca in proporzione ogni ingerenza religiosa che nasconde nelle forme della pietà la pulsione distruttiva conseguenza dell’incesto.

In quanto a Pinocchio, nel corso del libro non si fa riferimento, neppure per sbaglio, all’idea di dio o a qualche precetto religioso. Segno che una buona educazione, per quanto possa essere datata, può fare sempre meglio senza evangelizzazione, anche in una società indottrinata sino al midollo. Deve essere stata proprio una simile considerazione  a disporre l’attenzione ecclesiale all’opera, davvero inopportuna e priva di sensibilità, di inglobare il pulito laicismo della pedagogia paterna nel dettato cristiano matriarcale.

 

 

Rana rupta

 

Secondo il cardinale Biffi: “Pinocchio, il celebre burattino creato dalla penna di Carlo Collodi, contiene un messaggio positivo, molto vicino al Vangelo[13].

In nessun caso Pinocchio potrebbe sviluppare un senso religioso: egli sa benissimo come e da chi è stato generato, egli stesso ne può testimoniare. Il pieno stato di coscienza al momento dell’origine rende superflua ogni elaborazione sovrannaturale o in chiave mistica del senso della vita e della provenienza. Possedere il codice della propria nascita affranca dalla confusione che imbriglia l'io nella schiavitù di appartenenza al d'io. Tuttavia è ribadito: extra ecclesiam nulla salus. La cupola si fa misura del mondo, nega ogni cosa nell’incorporare. Ogni inglobamento è distruttivo nell’intento.

La placenta oscura il cielo: tra terra e cèllofan è la metafora moderna.

Si può incartare il mondo? Sacchetti simili a placente artificiali minacciano anche i mammiferi del mare. Come va a finire la storia? Rana rupta et bos! Come la celebre rana della favola di Fedro che si misura a confronto con il bue, si gonfia, si gonfia fino a scoppiare.

Dante, tra gli altri, fu devoto indigesto. Egli seppe mimetizzare nell’offerta celebrativa all’impero papale, in allegoria a quanto fece Virgilio per Roma, l’intento terapeutico di indicare al mondo l’esemplare percorso a ritroso che dalle cavità e gli orifizi infernali (nel mezzo della vita, la selva) giunge a purgare l’essere fino al punto di riveder il sole e le altre stelle in un cielo senza più debiti di appartenenza primaria. Anche lui si avvale del salvacondotto speciale dell’amore del padre, nella persona di Virgilio, per cogliere nell’aggiramento della suggestione letteraria l’impareggiabile soddisfazione, più che temeraria per quei tempi, di mandare ben due papi all’inferno. Anche la religiosità può essere ricondotta, nel canovaccio di una commedia, al doppio senso arguto dell’allegoria. Il poeta è sommo nel farsi egli stesso giudice divino. E creatore. Più ancora per aver attivato, dall’interno, un dispositivo di critica ben confezionato, tra i più attivi nel millennio nei suoi effetti politici e formativi. Lo sguardo dell’intelligenza, nella misura in cui esiste, viene a capo di ogni cieco intestino di ritenzione matriarcale.

 

 

Il piede della lumaca

 

A questo punto è opportuno chiedersi se anche il burattino abbia espresso forme di tensione critica nei confronti della figura materna, nella fattispecie la fata. La tensione aggressiva è in realtà negazione della castrazione e affermazione della propria identità sessuale. Nell’episodio del burattino dinanzi alla casa della fata il confronto assume il connotato sessuale di un conflitto tra l’indisponente lentezza della lumaca, che sempre allude nelle simbologie oniriche alla fallicità clitoridea della sessualità femminile, e la reazione di Pinocchio che se la prende con l’uscio di casa[14]:

 

«Ragazzo mio» gli rispose dalla finestra quella bestiola tutta pace e tutta flemma, «ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta».

E la finestra si richiuse.

Di lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa.

Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per bussare un gran colpo da far rintronare tutto il casamento: ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani sparì nel rigagnolo d’acqua in mezzo alla strada.

«Ah, sì?» gridò Pinocchio sempre più accecato dalla collera. «Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci».

E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile: perché il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo ribadito.

 

Tra rabbia e provocazione, tra l’agire irato e l’indisponente passività, si gioca un confronto tra fallicità diverse: il piede del burattino e il piede della lumaca. È conflitto tra estremità sessuali per definire chi possiede il fallo e chi lo ambisce non solo sessualmente, ma per ribadirne il possesso come cattura a negazione della falla o dell’esistenza di una sessualità al femminile definita dalla mancanza, dal desiderio e quindi dall’attraenza. Il vero primato in gioco non è tanto quello della procreazione, quanto quello dell’orgasmo. Il matriarcato ha necessità di colpevolizzare e negare il piacere sessuale, nei figli e nelle figlie, al fine di esaltare il primato dell’appartenenza prolungata.

 

 

È il cielo che avvolge la terra!

 

La funzione erotizzante sui figli è prerogativa del padre. Il corpo della madre non può risolversi a tanto perché i figli sarebbero riportati nel vicolo cieco dell’inglobamento originario. Ecco perché Edipo diviene cieco. L’incesto con la madre preclude il sociale inteso come ri-uscita; nega la luce. Nega la piazza nella chiusura di una chiesa. Nel gioco del difetto originario, Ulisse pianta la trave nell’occhio del Ciclope.

Il matriarcato non può che falsificare, nella pretesa del principio di unicità, la realtà della differenza sessuale. Nella divulgazione popolare, l’inganno può giungere al ridicolo di porre il quesito se sia nato prima l'uovo o la gallina. Dall'uovo e dalla gallina da soli non può nascere alcunché: ancora una volta si elide il ruolo del padre. Eppure la rivoluzione copernicana, e poi Galilei con il fallo del cannocchiale, avevano già fatto giustizia della fallace apparenza del piatto servito da madre terra. Pinocchio con il suo naso, Galilei con il cannocchiale negano la castrazione sessuale, mimando la rappresentazione del fallo e del vero. Rivoluzione anticristiana quella del cannocchiale!

Solo ai credenti madre terra può servire il piatto illusorio delle due dimensioni; mentre invece è sufficiente mimare il fallo di un cannocchiale che padre cielo svela la portata della nostra condizione. Parafrasando le dimensioni del gusto diremmo che il piatto della vita diviene sapido ai sapienti[15].

La verità è che il cielo avvolge la terra; e che il mare ha la stessa luce del cielo. Cielo e mare sono coinemi del padre.

Natura vuole che il padre sia premessa e successivo valore di ogni creazione!

Secondo il codice naturale di significazione, l’acqua dolce è un coinema materno. Il mare, come le lacrime e tutto ciò che sa di sale, è un coinema dell’amore del padre anche se spesso gli si attribuisce razionalmente un simbolismo materno. Lo stesso Fornari[16] parla del mare in tempesta come di un contenitore materno cattivo; in realtà, il riferimento ancestrale del mare riporta non tanto all’origine della vita amniotica, ma più oltre, fino agli spermatozoi, e alle particelle di vita da cui tutto è generato sulla terra. Nel progressivo affermarsi del processo di autonomia del bambino verso la scoperta dei rapporti umani, saranno le lacrime del primo distacco a marcare, ancora del sapore del sale, l’impatto con l’ambiente in assenza della madre, nella fase che apre all’incontro con gli affetti e le libere associazioni del sociale.

In Dante l’esilio sa di sale. Nel vecchio pescatore di Hemingway il mare si precisa con ingenua chiarezza come funzione d’amore del padre, dove l’ambivalenza del genere sessuale, che il protagonista del racconto attribuisce al mare, tradisce la lettura di una aggressività di sostituzione verso il primato affettivo della donna.

Non sempre il genere linguistico coincide con quello sessuale. In lingua francese, dove il mare si declina al femminile, la poesia di Baudelaire riconferma l’attribuzione maschile di questo ruolo sessuato, quando paragona il moto incessante del mare sulla costa alla spinta ritmata dell’uomo nel rapporto sessuale con l’amata.

Nel film di Woody Allen, Edipo relitto, l’invadenza della madre nelle vicende di coppia del protagonista assume dimensioni tanto castranti da stagliarsi visivamente nel cielo di New York, denunciando fuor di metafora la prerogativa di enorme influenza che la madre conserva sul destino affettivo dei figli adulti e sul fallimento dell’amore in quanto alternativa impossibile (a-ma) alla continuità di legame irrisolto. È interessante segnalare come negli interni del film sia sempre presente il significante d’arredo del cannocchiale; l’insipido del piatto servito dalla madre, il pollo lesso, diviene poi valore emblematico della sconfitta dell’esistenza affettiva. Il tutto è giocato con magistrale ironia ed autoironia dagli interpreti tra i quali, nel ruolo di protagonista, lo stesso autore.



[1] A. Naouri; Op. cit., pp. 183, 184.

[2] A. Naouri; Op. cit., p. 283.

[3] È comprensibile la tendenza a monetizzare la relazione curante da parte degli enti del marketing aziendale legati all’industria sanitaria; in tal modo si riconosce e si sfrutta l’ansia di relazione privata e personalizzata che la persona in difficoltà esprime per compensare il bisogno di dipendenza correlato allo stato di malattia. Mai come in questo esempio, coerente alla logica capitalista, il tempo di vita è alienato alla forma di denaro.

[4] Alexander Mitscherlich; Verso una società senza padre, Feltrinelli, Mi, 1977.

[5] J. Lacan; La cosa freudiana e altri scritti, G. Einaudi ed., To, 1972.

“L’Altro è il luogo in cui si costituisce l’io” (p. 215); cioè, tra l’essere soggetto ed oggetto, quella autoreferenza interiore che è la profondità di risonanza nell’eco di ciascuno. La coscienza di sé è prodotto di quella differenziazione possibile dall’indifferenziato della con-fusione primaria che permette il percepirsi soggetti in quanto tali.

[6] Differente la situazione là dove il patto tra fratelli si costituisce a sistema che prescinde da entrambi i genitori: dall’alleanza tra Zeus e i fratelli nasce il popolo degli uomini; così anche la Roma delle origini e quella repubblicana si costituisce sul patto tra uguali (i villaggi sui sette colli), ne è traccia l’abitudine successiva a stipulare patti separati di alleanza con i gruppi limitrofi, vero punto di forza della politica di espansione romana. I segni matriarcali come la lupa dei gemelli sono interpretazioni celebrative successive. Infine, anche nella tradizione virgiliana, la legittimità  eroica di Enea origina dalla dedizione al padre Anchise e al superamento della centralità femminile (la stessa Troia e il destino di Didone, che più tardi diventerà quello della delenda Cartago).

[7] In lingua tedesca il sole è di genere femminile; nella mappatura del simbolico affettivo ciò comporta una lettura della spazializzazione sociale (nell’ambito sociale della lingua madre) tutta al femminile. L’dentità sociale tedesca, in effetti, è aperta al suo interno ma tradizionalmente chiusa o è competitiva nei confronti delle differenze esterne. Se l'attribuzione di genere sessuale al cielo è della stessa natura della terra, tra terra e cielo si crea uno spazio chiuso e indifferenziato. Tra il limite ed il centro, lo spazio è definito con l'esclusione del maschile. La fallicità maschile si afferma di conseguenza negli stessi ruoli funzionali alla coesione che si osservano nel gruppo settario, dove l'aggressività eccedente è diretta verso le differenze dell'esterno.

 [8] R.M. Herweg; Op.cit., pp. 86-87.

[9] Zoppo (la volpe) e orbo (il gatto) possono essere infatti le stimmate impartite (furbi et orbi) da una particolare (bene)dizione della differenza sessuale.

[10] C. Collodi; Op. cit., p. 24.

[11] R. Graves; I Miti Greci, Longanesi & C., Mi, 1996, pp. 338-342, 369.

[12] C. Collodi; Op.cit., p. 51.

[13] Il Gazzettino di Padova, “Pinocchio una specie di Bibbia”, 9 agosto 1998, p. 13.

Nel resoconto giornalistico si fa cenno alla pubblicazione, a cura del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, del libro: “Contro Mastro Ciliegia. Commento teologico alle avventure di Pinocchio”, edito negli Oscar Mondadori. La questione è ripresa dal Corriere della Sera del 15 aprile ’99 (p. 35) a cura di D. Fertillio, con il titolo “Pinocchio, bravo burattino cattolico. I laici insorgono”. Ancora sul Corriere del 5 maggio ’99 a p. 33: “Biffi. La favola di san Pinocchio”.

[14] C. Collodi; Op.cit., p. 128.

[15] Woody Allen; Edipo relitto, in New York Stories, tre film a episodi, USA, 1989.

[16] Franco Fornari; Il codice vivente, Bollati Boringheri, To, 1994, pp. 20-43.

 

 

 

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