Il Sesso di Antonia

 

Esproprio e negazione del ruolo femminile

   Un rito molto materno, anamnesi della violenza

 

Le statistiche sulle violenze denunciate dalle donne presso le associazioni di autodifesa mostrano sorprendentemente che il soggetto percentualmente più pericoloso (87,4%) per la donna è di gran lunga il marito, l'amico o il convivente: le uniche persone che una donna può scegliere "liberamente" nella vita[1]! Vale allora la considerazione (nell'articolo citato non ne viene colta l'evidenza) che la violenza che una donna subisce nella vita è pari e proporzionale alla violenza subita nel rapporto primario famigliare; la componente sado-masochista che connota i rapporti attuali è purtroppo funzione di scarico della tensione di legame che si forma nella cattiva simbiosi formativa nel rapporto materno.

Quel che è peggio è che le donne non sembrano in grado di far fronte a questa realtà con sufficiente consapevolezza. È più facile proiettare nel rapporto con l'uomo, in quanto ma-rito (rito materno), l'infelicità esistenziale e la disperazione che in loro è divenuta strutturale. In quanto a quest'altro soggetto, il maschio, sono anche frequenti le conferme negative.

Ai figli spettatori del disagio famigliare non può che risultare naturale riconoscersi nella percezione (e nel giudizio) affettivo della madre, per via della simbiosi prevalente. Ciò rende ancora più difficile il percorso di individuazione delle cause dell'infelicità, anche quando il soggetto si trovi a considerare la questione in età adulta.

Quella dell’infelicità affettiva, viziata anche dalla violenza e dal dramma, è una storia già tutta scritta nell’anamnesi famigliare[2].

 

Siamo categorici: Nell’anamnesi psicoanalitica non si tratta di realtà, ma di verità, giacché è effetto di una parola piena il riordinare le contingenze passate dando loro il senso delle necessità future, quali le costituisce quel po’ di libertà con cui il soggetto le rende presenti.

 

 

Giulietta a faccia in su. Come uno scherzo può diventare vero

 

Se il fu-turo è maturazione (turo) di quanto del passato (fu) insiste per essere riparato, arginato, risolto, allora il futuro non ha luogo se non nel presente (pre-sente): il presente è già futuro perché l'esperienza attuale è esperienza costituente, è scrittura a sua volta motivata dalle pre-iscrizioni del passato. Lo statuto del presente è alla mercé dell'emozione, è dominio della pulsione. Per quanto aggiornata, la stampa quotidiana della ragione è già superata all'atto della fruizione. L'impatto con il reale non esime alcuno dal vivere in un rischio assoluto; neanche chi si para con il cumulo dell'avere dall'incertezza dell'essere e dalla certezza di un debito con il non essere. Il presente è psicosi, assunta e ricomposta nel linguaggio. Proprio del valore onirico di questo non essere recita Amleto.

Vivere il presente è follia, esposizione per necessità e per diritto alla folla del molteplice e del plurale. La follia è virtù, il suo elogio è saggezza, dal momento che non c'è economia che garantisca il controllo. Nell'economia ufficiale, l'aderenza alla realtà è raggiunta al costo di una assunzione ciclica del crollo, quasi che toccare il fondo possa fornire lo strumento di scandaglio della misura del reale. È un inutile espediente: alla stregua della traccia di briciole che Pollicino si lascia dietro per non perdersi nel bosco, la ricchezza non dispensa dal rischio di vivere la storia raccontata dal destino.

Non c'è rete all'esistenza. Nel compimento del passo dell'esperienza, non c'è ragione che non si coniughi all'azzardo. Mentre è una "facoltà di" fine a se stessa quella di vivere il presente, è concretamente sul rischio che poggia la vera esperienza, non fosse altro che per muovere di un passo. Al futuro, dunque, è indirizzata la posta della ragione, che è l'idea reificata dalla resistenza del tempo. L'astratta sembianza, traccia della relazione percepita, è tradotta e convertita nella fissazione chimica dei neuroni.

Indirizzata al futuro, per paradosso, la ragione è il ricordo. Nello scarto di tempo tra il lampo dell'idea vissuta e il tuono della scrittura c'è la relazione di una diversa consistenza della materia nella quale veicola la frequenza dell'impulso. Il piede e l'orma, nell'incedere del passo. Che sia traccia, resto o coprofilia la memoria è, appunto, una funzione della resistenza al transito, di una certa consistenza del vissuto.

I popoli della transumanza, i nomadi della carovana, adorano una pietra nera, centro di uno sciame di mille e più moschee, che è tutto ciò che resta, in forma divina, del perenne transitare di uomini e greggi tra un orizzonte e l'altro del deserto. Il narcisismo corporeo dell'infanzia, in questo resto, si riattualizza nei profumi, nel ronzio degli arabeschi musicali, negli inchini collettivi accovacciati, nello spiritualismo del corano.

La posta inviata alla memoria del futuro giunge sempre nella sembianza del ritardo che intreccia i fili del ricordo, feticcio residuo del senso iniziale, reiterazione dell'essere in ciò che più risente. Non resta che disputare sentenze alla ragione dei posteri!

Presentimento e risentimento sono le energie che dirigono il fantasma dell'esistenza nell'accadimento tra il soggetto e l'adesso del presente, dove ad-esso è il rimando a quanto di oggettivo consiste nel destino.

Occorre un esempio di questa scrittura del passato nella quale si legge il fu-turo attraverso il presente? La storia di Romeo e Giulietta ce ne può fornire uno eclatante. Nel colloquio a tre tra la madre Donna Capuleti, la Nutrice e la stessa Giulietta che introduce la comunicazione di destinare la giovane in sposa al nobile Paride, si fa cenno a un episodio occorso a Giulietta quando era stata da poco svezzata dalla nutrice. Questa, dopo aver ricordato che Giulietta avrebbe la stessa età di sua figlia Susanna morta nell’infanzia, ricorda l’episodio la cui portata suggestiva si rivela attuale alla vigilia delle nozze, perché lega il trauma infantile ad una premonizione di morte:

 

Nutrice

 

E da quel giorno [dallo svezzamento] sono passati undici anni;

ché allora sapeva stare diritta da sola; anzi, per la croce,

sgambettare sapeva e trotterellare in giro;

ché proprio il giorno prima s’era ammaccata la fronte;

e allora mio marito – riposi in pace!

Era un vero burlone – pigliò su la bimba;

“Ehi” dice “mi caschi a faccia in giù?

A faccia in su mi cascherai quando avrai più giudizio;

non è così, Lietta?” e, per la Madonna santa,

quel batuffoletto smise di piangere e disse: “Sì”.

Pensare a come uno scherzo può diventare vero!

Parola, che se potessi vivere mille anni

non potrei mai scordarlo: “Non è così, Lietta?”

E quella sciocchina smette di piangere e dice: “Si”.

 

Donna Capuleti

 

Basta, basta, per favore, taci.

 

Nutrice

 

Sì, signora; però non posso fare a meno di ridere

a pensare che lei dovesse smetterla di piangere e dire: “Sì”.

Eppure, parola, aveva in fronte un bernoccolo

grosso come un fagiolo di galletto;

un brutto colpo; e lei piangeva forte:

“Ehi” dice mio marito “mi caschi a faccia in giù?

A faccia in su mi cascherai quando avrai gli anni;

non è così, Lietta?”. Lei smette di piangere e dice: “Sì”.

 

Giulietta

 

E smettila tu pure, nutrice, dico io.

 

Nutrice

 

Calma, ho finito. Dio ti conceda la sua grazia!

 

Visto, in quale reiterato sadismo si è formata la premessa al destino di Giulietta? (To see now how a jest shall come about!) Pensare a come uno scherzo può diventare vero! Shakespeare ha saputo essere medium della realtà affettiva nella trasposizione letteraria. Il riferimento alla bimba coetanea morta, la delicata fase evolutiva nella quale si colloca il trauma della caduta, l’imprinting a scadenza differita in età sessuale completa, dove il cadere a faccia in su allude sia all’atto sessuale che alla morte, tutto ciò ha l’efficacia di una prescrizione; non è la costruzione della mente di uno psicoanalista, ma il riflesso della grande sensibilità di un interprete del vero.

Nella psicoanalisi del linguaggio, come nella scrittura del grande drammaturgo, l’analista deve saper cogliere il senso dell’interpretazione nei ruoli espressivi del soggetto, rimanendo nel punto vuoto, fuori scena. L’interpretazione analitica del linguaggio è arte almeno quanto il linguaggio dell’artista è fluire del senso in libera associazione di stampo freudiano.

In modi come questo evocato da Shakespeare, l’inciampo della vita trova le sue premesse, divenute attuali, nello stile del ruolo affettivo primario, nella fattispecie della nutrice (possiamo equiparare la rilevanza del suo ruolo a quello di una nonna), ma al cospetto consapevole e direttivo della madre.

Si consideri ora quale possa essere il reale valore sul singolo e nella portata sull’esito sociale dell’esaltazione del sacrificio umano, elevato ad atto d’amore; tale è il valore patognomico del dettato pedagogico cristiano.

 

 

Dio colpisce e dio risana

 

La malattia ed anche il trauma mostrano una particolare coloritura affettiva della corda del destino; tale corda è sulla persistenza di un ricordo che tanto più si attualizza in forma innegabilmente casuale, senza pre-vedibilità o spiegazione, quanto più è cancellata dietro il cancello dell'inconscio l'origine traumatica della sua fissazione: innanzitutto la gestazione e il parto, ma anche ogni trauma successivo dell'infanzia rimarcano il legame di identità del figlio con l'identità materna anche in età adulta e in condizioni di lontananza fisica. Come un corto circuito, involontario, ma inesorabilmente efficace il sentire della madre si fa destino per i soggetti (in participio) derivati; così, in allegoria, l'acqua nelle tubature non distingue la differenza in cui si esprime il gocciolare di un rubinetto o lo zampillo di una vasca, essa è ciò che motiva ogni espressione.

C'è un'epoca che si può definire fase dell'inversione di dipendenza, in cui l'adulto coglie il senso della sua decadenza e sente di non essere più in condizioni di dare in proporzione all'autorità che gli compete; è il momento del cambio generazionale quando i figli a loro volta sono adulti ed hanno impegni di responsabilità sociale. In questa fase può accadere, e non è raro che succeda, che l'anziano rifiuti di mutare, se non lo ha fatto in precedenza o se non ne ha la disposizione, la qualità della relazione con il figlio riconoscendo, per esempio, che il ruolo di questi è cambiato da quello di dipendenza a uno, eventualmente, di supporto per il genitore. È in tali casi che il destino mostra la corda dell'onnipotenza affettiva che si riattualizza in oggettivi fallimenti e resistenze coerentemente e in proporzione all'originale bagaglio delle antiche fissazioni a cui è ancorato. La fase depressiva dell'anziano, in particolare se si tratta della madre, si impone ancora, quale realtà direttiva, nelle esperienze della fenomenologia di vita delle persone. Si parla allora di sfortuna, se le cose vanno male. Oppure di crisi del sistema, se il fenomeno ha rilevanza epocale.

Rachel Herweg non manca di fornirci un ritratto anche del matriarcato ebraico più autolesivo nella figura di Glückel di Hameln (1646-1724), donna ebrea del tardo medioevo ashkenazita, autrice di un libro di memorie sulle vicende familiari[3]. Si sposa a quattordici anni, a sedici ha la prima figlia, Zippora. Partorisce la primogenita con l’aiuto della madre. Si pensa che la bimba sia affetta dalla peste:

 

Non riuscivo a credere che, quando stava per sacrificare suo figlio, nostro padre Abramo stesse peggio di noi.

 

Dio, secondo la tradizione, chiede che gli sia consacrato ogni primogenito: il primo parto di ogni madre o di animali. Il primo nato è anche quello che meno la giovane madre sente come suo: a tal punto grava l’ipoteca affettiva dell’esigenza primaria. Qui il rimando a padre e figlio ha una valenza sessuale invertita della relazione figlia madre.

La figlia Zippora ha un miglioramento:

 

Non potemmo fare a meno di piangere di gioia, e avremmo voluto mangiarci la bambina…

 

La bambina muore all’età di tre anni. A quarantatré anni, dopo varie vicissitudini economiche, la donna rimane vedova; ha dodici figli. Rachel Herweg ci dà altri ragguagli:

 

Dopo undici anni di vedovanza, e dopo aver rifiutato per riguardo ai figli (sic!) molte ‘offerte di matrimoni principeschi’, decide di sposare lo stimato banchiere e capo di comunità Hirtz Levy (…). Il fatto che il suo secondo matrimonio sia stato infelice, che ben presto il marito abbia perso tutto il suo patrimonio e sia morto lasciandola in miseria, Glükel lo considera una punizione divina per i propri peccati. (…) Ella dà implicitamente ai figli la colpa della sua misera vecchiaia (…).

 

La donna non sembra essere consapevole di  quanto il suo racconto sia prescrittivo. La fede in dio realizza, non tanto il fantasma della donna, che rimane alienata nella sua sofferenza, quanto quello della sua funzione materna. La descrizione narrata giunge dopo: intanto il vissuto interiore della madre ha determinato nel reale la natura degli accadimenti sulla base dei propri sensi di colpa, della determinazione e della necessità di controllo. Glückel trae la conclusione[4]:

 

Dio colpisce e Dio risana, sia lodato il Suo nome in eterno.

 

Ma è il suo vissuto interiore che crea il destino e diviene scrittura! Influenza gli eventi sulla base di una trama nella quale rientrano i fatti economici (i fallimenti), la malattia e l’isolamento[5]. I dati oggettivi segnano il limite di autonomia nei figli sui quali grava anche il debito di gratitudine e di colpa.

 

 

Odore di santità

 

Il caso riportato è l’esemplificazione più estrema del matriarcato ashkenazita nel clima tedesco-ebraico del primo Settecento. Si può notare come, in questa occasione, la figura paterna sia stata debole e marginale in relazione al ruolo forte ed esigente della madre. Se ciò può accadere nella comunità di cultura ebraica, che pure rivendica una centralità del potere socializzante del padre, a maggior ragione il destino di sacrificio, sventura ed illibertà assurge ad esplicito  paradigma dell’ananke nel modello famigliare incentrato sul potere tribale (e trino) dello spirito santo cristiano.

Qui impera la ginocrazia della madonna che è simbolo anatomico (nell'iconografia della statuina e per gli espliciti attributi) del genitale femminile. Le pieghe del mantello, il volto piccolo, tondo e incappucciato, gli attributi di verginità o di fecondità…, sono riferimenti espliciti nella forma e nella funzione al genitale femminile. Nel disegno della statuina, in particolare, è evidente una doppia funzione sessuale: è data anche una natura fallica dell’oggetto; si tratta più esattamente di un falso pene nel senso che Janine Chasseguet attribuisce al pene anale[6]:

 

Ora, il solo pene che si possa possedere attraverso l’evoluzione che conduce alla genitalità è il pene anale. Il soggetto che presenta il nucleo strutturale che ho cercato di definire fabbricherà un’opera rappresentante un pene anale idealizzato, cioè un pene anale che egli tenterà di far passare per un pene genitale o, meglio ancora, per un pene superiore a quello genitale.

 

In questo senso, di compensazione anale alla mancanza del pene genitale, è riferibile anche il valore simbolico del serpente, spesso raffigurato ai piedi della madonna. Il serpente (smisurato e terrificante appare anche nella storia di Pinocchio) per la sua natura viscida e sinuosa non è propriamente un simbolo del fallo, ma rimanda più precisamente al pene anale e all’erotismo pregenitale. L’iconografia della madonna, in modo coerente con il dettato matriarcale, assomma su di sé e, in definitiva, tende ad esautorare ogni differenza sessuale.

La fissazione nevrotica che attribuisce all’oggetto ogni aura in odore di santità non può che essere riferita ad una fase anale dello sviluppo precedente ad ogni rifinitura e maturità evolutiva raggiunta con il superamento dell’edipo nel carattere genitale, capace di soddisfazione sessuale.

La madonna è venerata da frotte di pie adoranti fino alle estreme e cicliche coerenze, a cui si assiste nei miracoli, di flussi lacrimosi e di sangue. È comprensibile l'intensità fisio-affettiva di tanta devozione. È comunque sorprendente constatare quanto grande sia l'ostentazione dell'amore omosessuale così ritualizzato. La differenza sessuale è negata fino al punto di mettere in dubbio la possibilità della figlia di procreare; la castità sarebbe d’obbligo se l’esigenza di realtà non imponesse, consacrato dall’uso, il raddoppio della morale. Di convenienza l’iter procreativo si realizza senza amore e in assoluto controllo della madre, la quale non può che assumere, in parte, il ruolo del seduttore maschile. Direttamente o per corpo interposto.

Lo ius primae noctis, l’umiliante esproprio sessuale imposto sul corpo della figlia, in funzione di sposa, è il rituale beffardo scagliato contro la pretesa di autonomia della coppia; lasciamo stare Don Rodrigo: né più né meno è ciò che fa lo spirito santo su Maria! L'indicibile entità fonte e spirito del dominio è l'Innominato che si intromette fra i promessi sposi.

 

 

La giusta via per Caterina

 

Si arriva, nell’iconografia cristiana, a rappresentare una maternità fallica, pur di inglobare, negandolo, il ruolo maschile (il quale in verità è superfluo rispetto alla ridotta possibilità concessa alla figlia di accedere alla propria sessualità): è di dominio mondiale la rappresentazione del Sant’Antonio da Padova raffigurato con il bambinello in braccio. Così effigiato non è certo un padre separato a cui sia stato affidato il figlio minore. Viene in tal guisa esibita l’ennesima trasposizione in un corpo maschile dell’impossibilità della donna di accedere interamente al proprio ruolo sessuale. La suggestione è nel rintocco vocale di un don che cela nella forma tronca l’incertezza sessuale della donna.

Non è stata divulgata la vera storia delle perversioni mistiche cristiane attraverso il metodo dell’esplicazione del valore simbolico veicolato in queste scene esemplari, perché, per disgrazia, all’inizio del terzo millennio, la storia è ancora troppo attuale. Eppure, il genio di Shakespeare ha saputo comprendere e rappresentare l’immanenza matriarcale della città del celebrato santo in modo così profondo ed efficace da denunciare che non può esistere amore né coppia matrimoniale se prima non si ristabilisce la differenza sessuale![7] Nel suo tirocinio rieducativo Petruccio deve fare il ricalco, non per sua disposizione, ma motivato nell’interesse dell’amata, agli atteggiamenti di aggressività di cui è inquinato, per malia, l’umore permaloso della “bisbetica domata” (la dolce Caterina). Combatte come un San Giorgio contro il drago per far sgusciare dalla torre la fanciulla imprigio-nata dalla sua stessa preclusione all’amore. Odio d’amore finché il fallo della lingua non verrà superato, sullo stesso terreno del dispetto, dal gioco della differenza sessuale.

La donna può amare ed essere amata solo se smette di competere, armata, contro la propria mancanza, e anziché inviperirsi mimando un falso pene, può scoprire di possedere la forza gravitazionale dell’attraenza che tutto muove, nel mondo della fisica, come in quello dell’amore. Shakespeare argutamente allude, attraverso il gioco della sottomissione, ad una intesa tra gli amanti che riserva alla donna un potere ben maggiore di quello per cui competeva nella forma esteriore.

La città ingrata non ha dedicato al drammaturgo che l’ha resa famosa né la targa di una piazza né una via.

 

 

La città che non sa amare

 

Nella città del santo, Padova è così conosciuta nel mondo, sono tanti gli elementi, nella tradizione storica e nell’analisi dell’immaginario urbanistico, che, rivelano la vocazione ginocratica, fallofobica e matriarcale, qui più concreta e materiale che in ogni altra città. È noto, per esempio, che dalla centrale piazza Garibaldi una imponente statua del laico condottiero, su iniziativa religiosa popolare, fu spostata nel vicino Corso del Popolo che porta verso la stazione, mentre al posto originario nella piazza (che ha conservato il nome) svetta, su un’alta colonna, la statua della madonna.

L’opposizione alla mancanza anatomica, vissuta come ingiustizia e configurata nel vuoto architettonico dell’arco sotto l’orologio in Piazza dei Signori, trova riscontro nell’omissione della bilancia, emblema di giustizia, tra i segni scolpiti nello zodiaco sul quadrante. L’esecutore, per una mancanza subita, si astenne ad arte dal fare l’opera completa. Il tema evidenziato è quello dell’ingiustizia; il giu-sto, si è detto, è per eccellenza di natura penale e sta nel mezzo; si tratta, all’evidenza, di un diritto: il vuoto dell’arco al femminile non tollera la mancanza del fallo fantasticato. Il segno mancante recrimina sul fatto che il fallo è preteso funzione anatomica del femminile.

L’apoteosi ginocratica è ancora il senso architettonico, di grande effetto scenografico, dell’isola Memmia, nel centro di Prato della Valle dove domina la mole di Santa Giustina; l’isoletta circolare è guarnita di una quantità di statue a edificazione, in serie monumentale, della sacralità centrale. Qui il tema della giustizia e della mancanza viene risolto dalla compensatoria dovizia dei falli di pietra. I residenti avversano con fierezza (e petizioni) l’ipotesi annosa che l’equilibrio architettonico possa essere violato dalla sinuosa e fallica sagoma di un tram. Al cospetto di un Sant’Antonio-col-bambino perfino la maternità di una madonna, in quanto donna, rappresenta un passo avanti più evoluto nel percorso di identificazione sessuale. Nell’analisi delle fantasie dei locali, c’è tuttavia chi predilige la larga piazza nelle passeggiate serali per godere della rinomata bellezza del tram-onto[8].

 

 

Il tram di santa Giustina

 

La rimozione del fallo implica l’esclusione della funzione creativa ed il rifiuto della spontaneità e del sociale. La chiusura alla realtà esterna nell’unicità del chiuso famigliare eleva l’incesto a modello di organizzazione collettiva. Gli effetti di tenuta sono gli stessi di un generale impoverimento della differenza sessuale.

Le fantasie e i significanti trovano un denominatore comune nell’affermazione di una identità territoriale forte, solidale, indifferenziata e gregaria che si sostanzia di un rapporto organico, funzionale ma non di integrazione verso gli apporti umani di provenienza esterna. È una realtà, quella della pianura veneta, che con evidenza storica ha subìto una prolungata esposizione ai periodici e sanguinosi flussi di invasione su un territorio che non può contare di valide protezioni naturali. Qui la difesa è nel baluardo umano, prevale l’agorafobia, la diffidenza e la restrizione del sociale.

È diffusa la sensazione del doppio urbanistico, cioè la percezione, nella persona che non ha familiarità con i luoghi, di percorrere strade di accesso alla città o ponti che sono simili tra loro fino ad essere invarianti. Molte vie hanno uno sbocco cieco. Se si eccettua la zona del reticolo romano nel nord est della provincia, le strade non hanno la linearità che ci si aspetterebbe in una estensione di pianura, ma danno piuttosto l’idea di un labirinto. Le chiese hanno le dimensioni di una piazza; enormi, troneggiano come fabbriche o granai nei quartieri dai profili bassi di case unifamiliari. Così, non di rado il centro dei paesini dell’intorno non è segnalato dallo slargo di una piazza, quanto piuttosto dallo spigolo miliare della chiesa.

Dante chiama Antenora il girone infernale dei fedigrafi nella convinzione (in verità, vi sono anche smentite letterarie) che Antenore, esule troiano mitico fondatore di Padova, fosse un traditore. Nell’immaginario, la funzione del doppio architettonico prelude al tradimento del luogo come incontro.

In maniera opposta rispetto alla vicina e sensuale Venezia, avamposto d'oriente in Europa, la creatività è merce da importare attraverso l'utilizzo di luoghi-funzione adatti allo scopo: il santo, l'ospedale, l'università, le strutture alberghiere termali; neanche il santo patrono è di origine locale. Al di là dell'Adige e del Po (oggettive e valide difese naturali) la stessa natura umana si espande liberamente nella sagra del sociale[9]. Padova resta la città di Antonia, città che non sa amare in quanto non accede alla differenza sessuale[10].

 

 

Gratta e vinci in borsa

 

È lo stesso immaturo sviluppo della sessualità femminile che porta oggi a prefigurare una soluzione industriale alla riproduzione biologica con l'inseminazione artificiale. L'immacolata fecondazione ripropone in chiave tecnologica il mito della maternità cristiana.

La figlia sembra accettarne la suggestione: pur di non mettere in crisi il rapporto con la mamma attraverso un sano conflitto di separazione molte donne sopportano l'impotenza nei rapporti affettivi; in casi estremi, sono disposte ad appaltare la proprietà dell'utero (grande conquista del movimento femminista) alla scienza di mercato. Di regola infelicità e separazioni; il rapporto con l'uomo è fuori portata. La responsabilità del fallimento viene proiettata contro l'identità maschile; si tende ad invocare una uguaglianza funzionale contro ogni spontanea evidenza di ruolo sessuale.

La morale sessuofobica si adopera per cancellare, con la suggestione affettiva della colpa, ogni acquisizione di coscienza da parte della donna giovane dell’effettivo potere che le deriva dall’esercizio della sua sessualità nei termini concreti della creazione dei desideri e dei bisogni del mondo. Sfugge alla donna-figlia (non alla madre) che lo sfregamento della lampada dei desideri è ciò che accende e comanda il genio dell’onnipotenza che struttura il desiderio, la fortuna e la felicità come rappresentazione e reale accadimento nella realtà.

È l’espressione di una libera sessualità che inventa e colora il mondo con i toni del benessere, dell’amore e della conoscenza, a beneficio di tutti.

La negazione egoistica ed interessata di questo potere nella figlia, ad opera della matrigna, riporta alla condizione di schiavitù ed ignoranza ogni proiezione del reale, aliena il desiderio nell’impotenza, confina la fortuna nella truffa organizzata di una lotteria: l’erario delle frustrazioni estrae plusvalore dall’attività onanistica del gratta e vinci. Del resto, non è più cosa recente il gioco frenetico delle mani in borsa; l’autoerotismo nel quale la finanza surroga, nella presunta compensazione anale della moneta e nel feticismo della merce, l’alienazione del divieto alla soddisfazione sessuale. La produzione e il possesso di capitale materializzano, come forma dominante del paradigma sociale, il fantasma inconscio della matrona; l’erotismo della sessualità matriarcale struttura il godimento del possesso, il controllo sulle azioni delle aziende filiali, la distorsione del valore come quantità di vita-lavoro reificata in denaro contro l’effettivo valore di chi sa essere e di chi sa fare; fa regredire al rapporto di costo-dipendenza il concetto di tempo che, lungi dall’essere denaro, scandisce invece la relazione tra simili nella fisiologia della comunicazione tra gli esseri umani.

 

 

La falla e il fallimento nel ciclo dell'azienda madre

 

Il ca-pitale è la sostanza innalzata a sistema del godimento di una sessualità immatura che si motiva sulla raccolta e l’accumulo del prodotto metabolizzato in una particolare forma di valore; pecunia non olet, ma dal punto di vista simbolico equivale alla produzione del pene anale (secondo l’accezione della Chasseguet) la cui autenticità è pretesa di natura superiore a quella del fallo maschile.

Nella realtà il capitale produce falsi valori e accumula effetti dell’alienazione: situato per definizione sulla negazione del fallo non può che fallire. E il fallimento, in quanto strutturale, si presenta periodicamente, come ciclo, nella sembianza di flussi di crisi e distruzione di risorse.

Marxismo e psicoanalisi sono in continuità logica nell’analisi della perversione che, dalla sfera del privato, si fa dominio sociale. Constatare che dalla famiglia alla forma sociale la questione si pone nei termini del possesso e del controllo è già prendere atto che il paradigma del potere è perversione costantemente alle prese con il problema della sua legittimazione. Marx svela la truffa nel meccanismo della produzione di plusvalore che diviene feticismo della merce ed alienazione dei rapporti umani; Freud costruisce il dispositivo per rendere visibile in che modo una evoluzione immatura, incapace di soddisfazione sessuale, porti alla chiusura del soggetto su posizioni sadiche ed antisociali.

All’inizio del terzo millennio manca ancora la capacità di sintetizzare in modo accessibile per tutti una mappa della fisiologia degli affetti che risolva il problema della quantità di emancipazione necessaria per far fronte agli obblighi di liberazione imposti dalla variabile tecnica degli strumenti a disposizione e dall’enorme efficacia della potenzialità umana.

Tuttavia prende definitivamente piede la consapevolezza sulla natura sessuale e matriarcale del dominio anche nella saggistica di divulgazione sociale. Ne L’ombra del potere di Risè e Bonvecchio[11] si afferma esplicitamente:

 

Non è dunque la donna ad aver vinto, ma la madre. Anzi la Grande Madre.

La Società-Grande Madre di tutti i consumi, per abbietti, inutili e pericolosi che siano. Per vincere ha dovuto far fuori, espellere dalla coscienza collettiva, il principio psicologico e l’ordine simbolico opposto ad essa: il Fallo e il mondo maschile.

La grande azienda, presentata a torto come espressione della psicologia maschile, è generalmente una traduzione produttiva e commerciale della figura della Grande Madre: appagatrice di bisogno, dotata di grande potere, non tende a creare solidarietà tra i suoi uomini (…), ma li mette in concorrenza fra di loro, rompe insomma l’unità del campo maschile suscitando la competizione per ottenere i favori della Madre-azienda.

 

Risè mette in guardia dalle disfunzioni della società Grande Madre[12]:

 

…l’intera società (non solo le sue Grandi Aziende) è diventata una grande madre, che ha come prima funzione quella di mantenere in vita l’individuo per stimolarne e soddisfarne le richieste, e alimentare quindi il circuito della produzione e del consumo. Siamo tutti animali ‘da compera’, cresciuti per acquistare prodotti fabbricati artificialmente, ed è soprattutto in questa veste di compratori che il sistema informativo–mediatico, ma anche politico, della società occidentale si occupa di noi.

È tuttavia un sistema che tende a incepparsi.

 

L’intero sistema umano è in crisi. Non sa rinnovarsi perché non sa rinunciare al prototipo basato sul furto di vita che alimenta dall’interno il mondo dei balocchi. Il matriarcato impone il labirinto del senso e del valore nella produzione e nel consumo. L’ipermercato è lo spazio urbanistico ideale. È stato Marx in realtà ad accorgersi, molto per tempo, che tutto (carne, oggetti e sentimenti) viene ridotto a merce nella sussunzione totale. La madre si fa pancia del reale, attenta a rimangiarsi ogni elemento che potrebbe differenziarsi e, situandosi dal punto di vista dell’Altro, potrebbe denunciare il complotto dell’unicità, il senso distruttivo della follia dell’appartenenza totale che si articola nel controllo.

 

 

La sola proprietà che abbia valore

 

L’appiattimento sul corpo femminile è regressivo anche rispetto al grado di intelligenza sociale della specie. Risè incalza affermando che l’uomo matrizzato non è più in grado di produrre idee:

 

L’uomo ‘matrizzato’ è come un cane senza naso: non possiede per istinto una direzione, ignora in quali territori, in quali forme la sua identità maschile lo porterebbe a trovare gioia e realizzazione. (…)

Ma soprattutto l’uomo matrizzato, a identità maschile debole, produce meno idee: per rendersene conto basta guardare ai programmi politici dell’Occidente negli ultimi vent’anni (…).

Ma se il maschio si indebolisce, l’atto nuovo, l’idea folle, ma anche semplicemente l’idea, tende a non esserci più, e senza idea, senza la spinta del maschile, senza la capacità di dono gratuito assicurato dall’impulso della forza fallica, la società dei consumi non può rinnovarsi  e corre verso la crisi.

 

Quella che Risè chiama società matrizzata non può che fallire. Il capitalismo in qualità di paradigma materno è destinato, ciclicamente, al fallimento. Fino all’autodistruzione. Questo sistema si regge sul totem del falso fallo, il pene anale eretto a fantasma compensatorio della falla, cioè della sessualità femminile che insiste nel pensarsi al maschile, escludendo il vero fallo, in quanto alienata a se stessa. Il falso, per definizione, non potrà mai ingannare il vero; ogni babelica costruzione in linea con questa  fantasia non può che registrare ciclicamente il crollo di ogni illusione.

Dobbiamo ancora ripetere con il marxismo che, sebbene non sia garantita la riuscita di un progetto di liberazione sociale, è ineluttabile tuttavia la distruttività e l’annientamento di un tale sistema fondato sull’alienazione?

La verità è che anche la ricerca dell’utopia socialista come nuova visione del mondo è stata, oltre che contrastata, anche amata e perseguita fino a che si è espressa nel solco consueto del parricidio sociale. Una lettura più approfondita dell’analisi del reale in grado di svelare il vero attributo sessuale del dominio pone di colpo nelle stesse masse popolari  e tra gli intellettuali socialisti l’ideale del comunismo in crisi; si pretende di asserirne il fallimento anche davanti all’evidenza di un capitalismo, che sebbene regni incontrastato, è geneticamente incapace di dispensare benessere in ragione dell’enorme quantità di risorse accumulate. Il dominio della mamma non si tocca. Altro che cristiani!

Decidere tra la nuova barbarie del dominio o la civiltà sociale è questione di differenza sessuale. È questione di libertà sessuale. È esattamente l’opposto dell’accentramento dei ruoli prescritto dalla teologia matriarcale, con l’esclusione del fallo maschile. In altri tempi la violenza dello stupro risolveva la crisi nel rinvio della ciclicità delle crisi. Spetta ancora alla coscienza, allargata a maturazione sociale, favorire lo scatto di emancipazione per la specie umana.

Si tratta in definitiva di pervenire alla consapevolezza che l’unica proprietà che abbia reale valore è, per ciascuno, quella del proprio ruolo sessuale.   

In questo senso l’essere si riappropria del vero valore, che solo nella sua forma alienata è attribuito all’avere. La proprietà di se stessi, che si realizza per ciascun soggetto sull’asse ideale tra testa, cuore e sesso, nell’aplomb di una nuova identità matura, è la conquista più preziosa che l’umanità abbia mai perseguito, nel lungo percorso dalla condizione di schiavitù e di bisogno, a quella della conoscenza e del rapporto dialettico con la natura fisica che ci ha prodotto. È la libertà.

 

[1] Avvenimenti, settimanale, n. 24, 25/06/1997, pag. 15.

[2] J. Lacan; La cosa freudiana e altri scritti, Nuovo Politecnico 48, Einaudi, To, 1985, p. 104.

[3] R. M. Herweg; Op. cit., pp. 34, 120-135.

[4] R. M. Herweg; Op. cit., p. 125.

[5] Secondo Monica Herweg: ”A loro volta la millenaria vicenda della Diaspora e la storia delle persecuzioni degli ebrei hanno poi contribuito ad approfondire il legame con la madre, nella misura in cui la casa e la famiglia, di cui la madre è tradizionalmente custode, sono diventate importante luogo di sopravvivenza, rifugio, roccaforte e cuore dell’esistenza ebraica”. Op. cit. p. 88.

Con ciò si afferma un implicito valore centripeto, verso il centro della comunità, dell’ostilità-isolamento che promana dall’ambiente circostante. Anche così si fa nazione.

[6] Janine Chasseguet Smirgel; L’ideale dell’Io, Raffaello Cortina Editore, Mi, 1996, p. 85.

[7] W. Shakespeare; La bisbetica domata, in Shakespeare tutto il teatro, Newton Compton ed., 1993.

Il drammaturgo farà continuare la contesa sul cl-amore del filo di spada della lingua tra Benedetto di Padova e Beatrice di Messina in Tanto rumore per nulla.

[8] Dopo che queste note erano già state scritte, giunge nel giugno 1999 una conferma implicita, coerente con l’interpretazione simbolica proposta: Giustina Destro viene eletta sindaco a Padova dopo una campagna di opinione popolare che ha avuto tra i temi principali l’avversione aperta al progetto del tram cittadino, in opposizione agli interessi economici e urbanistici portati avanti dall’amministrazione precedente di sinistra.

[9] La differenza tra il modello privato famigliare del Veneto e la dinamicità sociale e municipale dell’Emilia è l’oggetto di uno studio condotto da Gianni Riccamboni, docente di Scienza Politica all’università di Padova, e da Patrizia Messina, ricercatrice nello stesso ateneo, per conto dell’Osservatorio sulle trasformazioni in Veneto. Il riferimento è comparso sulla cronaca de Il Gazzettino del 21 maggio ’99, negli articoli a firma di Francesco Jori: “Il Po separa due opposte culture” (pp. 1-4), “Caro Veneto, impara dall’Emilia” (p. 10).

[10] Si può a questo punto avanzare una verifica, con il metodo di una fisica sperimentale degli affetti, sulla coerenza descrittiva di un tale sistema umano di adattamento ambientale: se è vero che l’incesto del chiuso famigliare è elevato a sistema omogeneo dell’intera identità territoriale, allora anche l’accumulo di rifiuto, conseguenza teorizzata della condizione di cattività dei soggetti, dovrebbe aver raggiunto evidenze di proporzioni strutturali. Ebbene, nell’area geografica in questione, il rifiuto assume in effetti rilevanza non solo nei comportamenti del soggetto collettivo (inquinamento e culto del pulito), ma è addirittura risorsa in quantità industriale (Ab ano) dei fanghi termali. Nella toponomastica locale, le terme euganee di Abano e Montegrotto sostanziano questa interpretazione. La rimozione del fallo è coerente con l’apoteosi di valore del bene anale. Per giungere a Venezia (città simbolo della genitalità femminile) si passa invece per il significante geografico di Dolo (la colpa), lungo la riviera del Brenta, e di Mira (in slavo, la pace) che lava la colpa in proporzione industriale con le sue fabbriche di detersivi.

[11] Claudio Bonvecchio, Claudio Risè; L’ombra del potere, Red edizioni, Como, 1998, pp. 100-102.

[12] C. Bonvecchio, C. Risè; Op. cit., pp. 100-107.

 

 

 

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