Esproprio
e negazione del ruolo femminile
Un
rito molto materno, anamnesi della violenza
Le
statistiche sulle violenze denunciate dalle donne presso
le associazioni di autodifesa mostrano sorprendentemente
che il soggetto percentualmente più pericoloso (87,4%)
per la donna è di gran lunga il marito, l'amico o il
convivente: le uniche persone che una donna può
scegliere "liberamente" nella vita!
Vale allora la considerazione (nell'articolo citato non
ne viene colta l'evidenza) che la violenza che una donna
subisce nella vita è pari e proporzionale alla violenza
subita nel rapporto primario famigliare; la componente
sado-masochista che connota i rapporti attuali è
purtroppo funzione di scarico della tensione di legame
che si forma nella cattiva simbiosi formativa nel
rapporto materno.
Quel
che è peggio è che le donne non sembrano in grado di
far fronte a questa realtà con sufficiente
consapevolezza. È più facile proiettare nel rapporto
con l'uomo, in quanto ma-rito
(rito materno), l'infelicità esistenziale e la
disperazione che in loro è divenuta strutturale. In
quanto a quest'altro soggetto, il maschio, sono anche
frequenti le conferme negative.
Ai
figli spettatori del disagio famigliare non può che
risultare naturale riconoscersi nella percezione (e nel
giudizio) affettivo della madre, per via della simbiosi
prevalente. Ciò rende ancora più difficile il percorso
di individuazione delle cause dell'infelicità, anche
quando il soggetto si trovi a considerare la questione
in età adulta.
Quella
dell’infelicità affettiva, viziata anche dalla
violenza e dal dramma, è una storia già tutta scritta
nell’anamnesi famigliare.
Siamo
categorici: Nell’anamnesi psicoanalitica non si tratta
di realtà, ma di verità, giacché è effetto di una
parola piena il riordinare le contingenze passate dando
loro il senso delle necessità future, quali le
costituisce quel po’ di libertà con cui il soggetto
le rende presenti.
Giulietta
a faccia in su. Come uno scherzo può diventare vero
Se
il fu-turo è
maturazione (turo) di quanto del passato (fu) insiste
per essere riparato, arginato, risolto, allora il futuro
non ha luogo se non nel presente (pre-sente): il
presente è già futuro perché l'esperienza attuale è
esperienza costituente, è scrittura a sua volta
motivata dalle pre-iscrizioni del passato. Lo statuto
del presente è alla mercé dell'emozione, è dominio
della pulsione. Per quanto aggiornata, la stampa
quotidiana della ragione è già superata all'atto della
fruizione. L'impatto con il reale non esime alcuno dal
vivere in un rischio assoluto; neanche chi si para con
il cumulo dell'avere dall'incertezza dell'essere e dalla
certezza di un debito con il non essere. Il
presente è psicosi, assunta e ricomposta nel
linguaggio. Proprio del valore onirico di questo non
essere recita Amleto.
Vivere
il presente è follia, esposizione per necessità e per
diritto alla folla del molteplice e del plurale. La
follia è virtù, il suo elogio è saggezza, dal momento
che non c'è economia che garantisca il controllo.
Nell'economia ufficiale, l'aderenza alla realtà è
raggiunta al costo di una assunzione ciclica del crollo,
quasi che toccare
il fondo possa fornire lo strumento di scandaglio
della misura del reale. È un inutile espediente: alla
stregua della traccia di briciole che Pollicino si
lascia dietro per non perdersi nel bosco, la ricchezza
non dispensa dal rischio di vivere la storia raccontata
dal destino.
Non
c'è rete all'esistenza. Nel compimento del passo
dell'esperienza, non c'è ragione che non si coniughi
all'azzardo. Mentre è una "facoltà
di" fine a se stessa quella di vivere il
presente, è concretamente sul rischio che poggia la
vera esperienza, non fosse altro che per muovere di un
passo. Al futuro, dunque, è indirizzata la posta della
ragione, che è l'idea reificata dalla resistenza del
tempo. L'astratta sembianza, traccia della relazione
percepita, è tradotta e convertita nella fissazione
chimica dei neuroni.
Indirizzata
al futuro, per paradosso, la ragione è il ricordo.
Nello scarto di tempo tra il lampo dell'idea vissuta e
il tuono della scrittura c'è la relazione di una
diversa consistenza della materia nella quale veicola la
frequenza dell'impulso. Il piede e l'orma, nell'incedere
del passo. Che sia traccia,
resto o coprofilia la memoria è, appunto, una funzione
della resistenza al transito, di una certa consistenza
del vissuto.
I
popoli della transumanza, i nomadi della carovana,
adorano una pietra nera, centro di uno sciame di mille e
più moschee, che è tutto ciò che resta, in forma
divina, del perenne transitare di uomini e greggi tra un
orizzonte e l'altro del deserto. Il narcisismo corporeo
dell'infanzia, in questo resto, si riattualizza nei
profumi, nel ronzio degli arabeschi musicali, negli
inchini collettivi accovacciati, nello spiritualismo del
corano.
La
posta inviata alla memoria del futuro giunge sempre
nella sembianza del ritardo che intreccia
i fili del ricordo,
feticcio residuo del senso iniziale, reiterazione
dell'essere in ciò che più risente.
Non resta che disputare sentenze
alla ragione dei posteri!
Presentimento
e risentimento sono le energie che dirigono il fantasma
dell'esistenza nell'accadimento tra il soggetto e
l'adesso del presente, dove ad-esso
è il rimando a quanto di oggettivo consiste nel
destino.
Occorre
un esempio di questa scrittura del passato nella quale
si legge il fu-turo attraverso il presente? La storia di
Romeo e Giulietta ce ne può fornire uno eclatante. Nel
colloquio a tre tra la madre Donna Capuleti, la Nutrice
e la stessa Giulietta che introduce la comunicazione di
destinare la giovane in sposa al nobile Paride, si fa
cenno a un episodio occorso a Giulietta quando era stata
da poco svezzata dalla nutrice. Questa, dopo aver
ricordato che Giulietta avrebbe la stessa età di sua
figlia Susanna morta nell’infanzia, ricorda
l’episodio la cui portata suggestiva si rivela attuale
alla vigilia delle nozze, perché lega il trauma
infantile ad una premonizione di morte:
Nutrice
E
da quel giorno
[dallo svezzamento]
sono passati undici anni;
ché
allora sapeva stare diritta da sola; anzi, per la croce,
sgambettare
sapeva e trotterellare in giro;
ché
proprio il giorno prima s’era ammaccata la fronte;
e
allora mio marito – riposi in pace!
Era
un vero burlone – pigliò su la bimba;
“Ehi”
dice “mi caschi a faccia in giù?
A
faccia in su mi cascherai quando avrai più giudizio;
non
è così, Lietta?” e, per la Madonna santa,
quel
batuffoletto smise di piangere e disse: “Sì”.
Pensare
a come uno scherzo può diventare vero!
Parola,
che se potessi vivere mille anni
non
potrei mai scordarlo: “Non è così, Lietta?”
E
quella sciocchina smette di piangere e dice: “Si”.
Donna
Capuleti
Basta,
basta, per favore, taci.
Nutrice
Sì,
signora; però non posso fare a meno di ridere
a
pensare che lei dovesse smetterla di piangere e dire:
“Sì”.
Eppure,
parola, aveva in fronte un bernoccolo
grosso
come un fagiolo di galletto;
un
brutto colpo; e lei piangeva forte:
“Ehi”
dice mio marito “mi caschi a faccia in giù?
A
faccia in su mi cascherai quando avrai gli anni;
non
è così, Lietta?”. Lei smette di piangere e dice:
“Sì”.
Giulietta
E
smettila tu pure, nutrice, dico io.
Nutrice
Calma,
ho finito. Dio ti conceda la sua grazia!
Visto,
in quale reiterato sadismo si è formata la premessa al
destino di Giulietta? (To
see now how a jest shall come about!)
Pensare
a come uno scherzo può diventare vero! Shakespeare
ha saputo essere medium della realtà affettiva nella
trasposizione letteraria. Il riferimento alla bimba
coetanea morta, la delicata fase evolutiva nella quale
si colloca il trauma della caduta, l’imprinting a
scadenza differita in età sessuale completa, dove il cadere
a faccia in su allude sia all’atto sessuale che
alla morte, tutto ciò ha l’efficacia di una
prescrizione; non è la costruzione della mente di uno
psicoanalista, ma il riflesso della grande sensibilità
di un interprete del vero.
Nella
psicoanalisi del linguaggio, come nella scrittura del
grande drammaturgo, l’analista deve saper cogliere il
senso dell’interpretazione
nei ruoli espressivi del soggetto, rimanendo nel punto
vuoto, fuori scena. L’interpretazione analitica del
linguaggio è arte almeno quanto il linguaggio
dell’artista è fluire del senso in libera
associazione di stampo freudiano.
In
modi come questo evocato da Shakespeare, l’inciampo
della vita trova le sue premesse, divenute attuali,
nello stile del ruolo affettivo primario, nella
fattispecie della nutrice (possiamo equiparare la
rilevanza del suo ruolo a quello di una nonna),
ma al cospetto consapevole e direttivo della madre.
Si
consideri ora quale possa essere il reale valore sul
singolo e nella portata sull’esito sociale
dell’esaltazione del sacrificio umano, elevato ad atto
d’amore; tale è il valore patognomico del dettato
pedagogico cristiano.
Dio
colpisce e dio risana
La
malattia ed anche il trauma mostrano una particolare
coloritura affettiva della corda del destino; tale corda
è sulla persistenza di un ricordo che tanto più si
attualizza in forma innegabilmente casuale, senza
pre-vedibilità o spiegazione, quanto più è cancellata
dietro il cancello dell'inconscio l'origine traumatica
della sua fissazione: innanzitutto la gestazione e il
parto, ma anche ogni trauma successivo dell'infanzia
rimarcano il legame di identità del figlio con
l'identità materna anche in età adulta e in condizioni
di lontananza fisica. Come un corto circuito,
involontario, ma inesorabilmente efficace il sentire
della madre si fa destino per i soggetti
(in participio) derivati; così, in allegoria, l'acqua
nelle tubature non distingue la differenza in cui si
esprime il gocciolare di un rubinetto o lo zampillo di
una vasca, essa è ciò che motiva ogni espressione.
C'è
un'epoca che si può definire fase
dell'inversione di dipendenza, in cui l'adulto
coglie il senso della sua decadenza e sente di non
essere più in condizioni di dare in proporzione
all'autorità che gli compete; è il momento del cambio
generazionale quando i figli a loro volta sono adulti ed
hanno impegni di responsabilità sociale. In questa fase
può accadere, e non è raro che succeda, che l'anziano
rifiuti di mutare, se non lo ha fatto in precedenza o se
non ne ha la disposizione, la qualità della relazione
con il figlio riconoscendo, per esempio, che il ruolo di
questi è cambiato da quello di dipendenza a uno,
eventualmente, di supporto per il genitore. È in tali
casi che il destino mostra la corda dell'onnipotenza
affettiva che si riattualizza in oggettivi fallimenti e
resistenze coerentemente e in proporzione all'originale
bagaglio delle antiche fissazioni a cui è ancorato. La
fase depressiva dell'anziano, in particolare se si
tratta della madre, si impone ancora, quale realtà
direttiva, nelle esperienze della fenomenologia di vita
delle persone. Si parla allora di sfortuna, se le cose
vanno male. Oppure di crisi del sistema, se il fenomeno
ha rilevanza epocale.
Rachel
Herweg non manca di fornirci un ritratto anche del
matriarcato ebraico più autolesivo nella figura di
Glückel di Hameln (1646-1724), donna ebrea del tardo
medioevo ashkenazita, autrice di un libro di memorie
sulle vicende familiari.
Si sposa a quattordici anni, a sedici ha la prima
figlia, Zippora. Partorisce la primogenita con l’aiuto
della madre. Si pensa che la bimba sia affetta dalla
peste:
Non
riuscivo a credere che, quando stava per sacrificare suo
figlio, nostro padre Abramo stesse peggio di noi.
Dio,
secondo la tradizione, chiede che gli sia consacrato
ogni primogenito: il primo parto di ogni madre o di
animali. Il primo nato è anche quello che meno la
giovane madre sente come suo: a tal punto grava
l’ipoteca affettiva dell’esigenza primaria. Qui il
rimando a padre e figlio ha una valenza sessuale
invertita della relazione figlia madre.
La
figlia Zippora ha un miglioramento:
Non
potemmo fare a meno di piangere di gioia, e avremmo
voluto mangiarci la bambina…
La
bambina muore all’età di tre anni. A quarantatré
anni, dopo varie vicissitudini economiche, la donna
rimane vedova; ha dodici figli. Rachel Herweg ci dà
altri ragguagli:
Dopo
undici anni di vedovanza, e dopo aver rifiutato per
riguardo ai figli (sic!) molte ‘offerte di matrimoni
principeschi’, decide di sposare lo stimato banchiere
e capo di comunità Hirtz Levy (…). Il fatto che il
suo secondo matrimonio sia stato infelice, che ben
presto il marito abbia perso tutto il suo patrimonio e
sia morto lasciandola in miseria, Glükel lo considera
una punizione divina per i propri peccati. (…) Ella
dà implicitamente ai figli la colpa della sua misera
vecchiaia (…).
La
donna non sembra essere consapevole di
quanto il suo racconto sia prescrittivo. La fede
in dio realizza, non tanto il fantasma della donna, che
rimane alienata nella sua sofferenza, quanto quello
della sua funzione materna. La descrizione narrata
giunge dopo: intanto il vissuto interiore della madre ha
determinato nel reale la natura degli accadimenti sulla
base dei propri sensi di colpa, della determinazione e
della necessità di controllo. Glückel trae la
conclusione:
Dio
colpisce e Dio risana, sia lodato il Suo nome in eterno.
Ma
è il suo vissuto interiore che crea il destino e
diviene scrittura! Influenza gli eventi sulla base di
una trama nella quale rientrano i fatti economici (i
fallimenti), la malattia e l’isolamento.
I dati oggettivi segnano il limite di autonomia nei
figli sui quali grava anche il debito di gratitudine e
di colpa.
Odore
di santità
Il
caso riportato è l’esemplificazione più estrema del
matriarcato ashkenazita nel clima tedesco-ebraico del
primo Settecento. Si può notare come, in questa
occasione, la figura paterna sia stata debole e
marginale in relazione al ruolo forte ed esigente della
madre. Se ciò può accadere nella comunità di cultura
ebraica, che pure rivendica una centralità del potere
socializzante del padre, a maggior ragione il destino di
sacrificio, sventura ed illibertà assurge ad esplicito
paradigma dell’ananke nel modello famigliare
incentrato sul potere tribale (e trino) dello spirito
santo cristiano.
Qui
impera la ginocrazia della madonna
che è simbolo anatomico (nell'iconografia della
statuina e per gli espliciti attributi) del genitale
femminile. Le pieghe del mantello, il volto piccolo,
tondo e incappucciato, gli attributi di verginità o di
fecondità…, sono riferimenti espliciti nella forma e
nella funzione al genitale femminile. Nel disegno della
statuina, in particolare, è evidente una doppia
funzione sessuale: è data anche una natura fallica
dell’oggetto; si tratta più esattamente di un falso
pene nel senso che Janine Chasseguet attribuisce al pene
anale:
Ora,
il solo pene che si possa possedere attraverso
l’evoluzione che conduce alla genitalità è il pene
anale. Il soggetto che presenta il nucleo strutturale
che ho cercato di definire fabbricherà un’opera
rappresentante un pene anale idealizzato, cioè un pene
anale che egli tenterà di far passare per un pene
genitale o, meglio ancora, per un pene superiore a
quello genitale.
In
questo senso, di compensazione anale alla mancanza del
pene genitale, è riferibile anche il valore simbolico
del serpente, spesso raffigurato ai piedi della madonna.
Il serpente (smisurato e terrificante appare anche nella
storia di Pinocchio) per la sua natura viscida e sinuosa
non è propriamente un simbolo del fallo, ma rimanda
più precisamente al pene anale e all’erotismo
pregenitale. L’iconografia della madonna, in modo
coerente con il dettato matriarcale, assomma su di sé
e, in definitiva, tende ad esautorare ogni differenza
sessuale.
La
fissazione nevrotica che attribuisce all’oggetto ogni aura
in odore di
santità non può che essere riferita ad una fase
anale dello sviluppo precedente ad ogni rifinitura e
maturità evolutiva raggiunta con il superamento dell’edipo
nel carattere genitale, capace di soddisfazione
sessuale.
La
madonna è venerata da frotte di pie adoranti
fino alle estreme e cicliche coerenze, a cui si assiste
nei miracoli, di flussi lacrimosi e di sangue. È
comprensibile l'intensità fisio-affettiva di tanta
devozione. È comunque sorprendente constatare quanto
grande sia l'ostentazione dell'amore omosessuale così
ritualizzato. La differenza sessuale è negata fino al
punto di mettere in dubbio la possibilità della figlia
di procreare; la castità sarebbe d’obbligo se
l’esigenza di realtà non imponesse, consacrato
dall’uso, il raddoppio della morale. Di convenienza
l’iter procreativo si realizza senza amore e in
assoluto controllo della madre, la quale non può che
assumere, in parte, il ruolo del seduttore maschile.
Direttamente o per corpo interposto.
Lo
ius primae noctis,
l’umiliante esproprio sessuale imposto sul corpo della
figlia, in funzione di sposa, è il rituale beffardo
scagliato contro la pretesa di autonomia della coppia;
lasciamo stare Don Rodrigo: né più né meno è ciò
che fa lo spirito santo su Maria! L'indicibile entità
fonte e spirito del dominio è l'Innominato
che si intromette fra i promessi
sposi.
La
giusta via per Caterina
Si
arriva, nell’iconografia cristiana, a rappresentare
una maternità
fallica, pur di inglobare, negandolo, il ruolo
maschile (il quale in verità è superfluo rispetto alla
ridotta possibilità concessa alla figlia di accedere
alla propria sessualità): è di dominio mondiale la
rappresentazione del Sant’Antonio
da Padova raffigurato con il bambinello
in braccio. Così effigiato non è certo un padre
separato a cui sia stato affidato il figlio minore.
Viene in tal guisa esibita l’ennesima trasposizione in
un corpo maschile dell’impossibilità della donna di
accedere interamente al proprio ruolo sessuale. La
suggestione è nel rintocco
vocale di un don
che cela nella forma tronca l’incertezza sessuale
della donna.
Non
è stata divulgata la vera storia delle perversioni
mistiche cristiane attraverso il metodo
dell’esplicazione del valore simbolico veicolato in
queste scene esemplari, perché, per disgrazia,
all’inizio del terzo millennio, la storia è ancora
troppo attuale. Eppure, il genio di Shakespeare ha
saputo comprendere e rappresentare l’immanenza
matriarcale della città del celebrato santo in modo
così profondo ed efficace da denunciare che non può
esistere amore né coppia matrimoniale se prima non si
ristabilisce la differenza sessuale!
Nel suo tirocinio rieducativo Petruccio
deve fare il ricalco, non per sua disposizione, ma
motivato nell’interesse dell’amata, agli
atteggiamenti di aggressività di cui è inquinato, per
malia, l’umore permaloso
della “bisbetica
domata” (la dolce
Caterina). Combatte come un San Giorgio contro il
drago per far sgusciare dalla torre la fanciulla
imprigio-nata dalla sua stessa preclusione all’amore.
Odio d’amore finché il fallo della lingua non verrà
superato, sullo stesso terreno del dispetto, dal gioco
della differenza sessuale.
La
donna può amare ed essere amata
solo se smette di competere, armata,
contro la propria mancanza, e anziché inviperirsi
mimando un falso pene, può scoprire di possedere la
forza gravitazionale dell’attraenza che tutto muove,
nel mondo della fisica, come in quello dell’amore.
Shakespeare argutamente allude, attraverso il gioco
della sottomissione, ad una intesa tra gli amanti che
riserva alla donna un potere ben maggiore di quello per
cui competeva nella forma esteriore.
La
città ingrata non ha dedicato al drammaturgo che l’ha
resa famosa né la targa di una piazza né una via.
La
città che non sa amare
Nella
città del santo,
Padova è così conosciuta nel mondo, sono tanti gli
elementi, nella tradizione storica e nell’analisi
dell’immaginario urbanistico, che, rivelano la
vocazione ginocratica, fallofobica e matriarcale, qui
più concreta e materiale che in ogni altra città. È
noto, per esempio, che dalla centrale piazza Garibaldi
una imponente statua del laico condottiero, su
iniziativa religiosa popolare, fu spostata nel vicino
Corso del Popolo che porta verso la stazione, mentre al
posto originario nella piazza (che ha conservato il
nome) svetta, su un’alta colonna, la statua della
madonna.
L’opposizione
alla mancanza
anatomica, vissuta come ingiustizia
e configurata nel vuoto architettonico dell’arco sotto
l’orologio in Piazza dei Signori, trova riscontro
nell’omissione della bilancia, emblema di giustizia,
tra i segni scolpiti nello zodiaco sul quadrante.
L’esecutore, per una mancanza
subita, si astenne ad arte dal fare l’opera completa.
Il tema evidenziato è quello dell’ingiustizia; il giu-sto,
si è detto, è per eccellenza di natura penale
e sta nel mezzo;
si tratta, all’evidenza, di un diritto:
il vuoto dell’arco al femminile non tollera la
mancanza del fallo fantasticato. Il segno mancante
recrimina sul fatto che il fallo è preteso funzione
anatomica del femminile.
L’apoteosi
ginocratica è ancora il senso architettonico, di grande
effetto scenografico, dell’isola Memmia, nel centro di
Prato della Valle dove domina la mole di Santa
Giustina; l’isoletta circolare è guarnita di una
quantità di statue a edificazione, in serie
monumentale, della sacralità centrale. Qui il tema
della giustizia
e della mancanza viene risolto dalla compensatoria
dovizia dei falli di pietra. I residenti avversano con
fierezza (e petizioni) l’ipotesi annosa che
l’equilibrio architettonico possa essere violato dalla
sinuosa e fallica sagoma di un tram.
Al cospetto di un Sant’Antonio-col-bambino
perfino la maternità di una madonna, in quanto donna,
rappresenta un passo avanti più evoluto nel percorso di
identificazione sessuale. Nell’analisi delle fantasie
dei locali, c’è tuttavia chi predilige la larga
piazza nelle passeggiate serali per godere della
rinomata bellezza del tram-onto.
Il
tram di santa Giustina
La
rimozione del fallo implica l’esclusione della
funzione creativa ed il rifiuto della spontaneità e del
sociale. La chiusura alla realtà esterna
nell’unicità del chiuso famigliare eleva l’incesto
a modello di organizzazione collettiva. Gli effetti di
tenuta sono gli stessi di un generale impoverimento
della differenza sessuale.
Le
fantasie e i significanti trovano un denominatore comune
nell’affermazione di una identità territoriale forte,
solidale, indifferenziata e gregaria che si sostanzia di
un rapporto organico, funzionale ma non di integrazione
verso gli apporti umani di provenienza esterna. È una
realtà, quella della pianura veneta, che con evidenza
storica ha subìto una prolungata esposizione ai
periodici e sanguinosi flussi di invasione su un
territorio che non può contare di valide protezioni
naturali. Qui la difesa è nel baluardo umano, prevale
l’agorafobia, la diffidenza e la restrizione del
sociale.
È
diffusa la sensazione del doppio urbanistico, cioè la
percezione, nella persona che non ha familiarità con i
luoghi, di percorrere strade di accesso alla città o
ponti che sono simili tra loro fino ad essere invarianti.
Molte vie hanno uno sbocco cieco. Se si eccettua la zona
del reticolo romano nel nord est della provincia, le
strade non hanno la linearità che ci si aspetterebbe in
una estensione di pianura, ma danno piuttosto l’idea
di un labirinto. Le chiese hanno le dimensioni di una
piazza; enormi, troneggiano come fabbriche o granai nei
quartieri dai profili bassi di case unifamiliari. Così,
non di rado il centro dei paesini dell’intorno non è
segnalato dallo slargo di una piazza, quanto piuttosto
dallo spigolo miliare della chiesa.
Dante
chiama Antenora
il girone infernale dei fedigrafi nella convinzione (in
verità, vi sono anche smentite letterarie) che
Antenore, esule troiano mitico fondatore di Padova,
fosse un traditore. Nell’immaginario, la funzione del doppio
architettonico prelude al tradimento
del luogo come incontro.
In
maniera opposta rispetto alla vicina e sensuale Venezia,
avamposto d'oriente in Europa, la creatività è merce
da importare attraverso l'utilizzo di luoghi-funzione
adatti allo scopo: il santo, l'ospedale, l'università,
le strutture alberghiere termali; neanche il santo
patrono è di origine locale. Al di là dell'Adige e del
Po (oggettive e valide difese naturali) la stessa natura
umana si espande liberamente nella sagra del sociale.
Padova resta la città di Antonia, città
che non sa amare in quanto non accede alla
differenza sessuale.
Gratta
e vinci in borsa
È
lo stesso immaturo sviluppo della sessualità femminile
che porta oggi a prefigurare una soluzione industriale
alla riproduzione biologica con l'inseminazione
artificiale. L'immacolata
fecondazione ripropone in chiave tecnologica il mito
della maternità cristiana.
La
figlia sembra accettarne la suggestione: pur di non
mettere in crisi il rapporto con la mamma
attraverso un sano conflitto di separazione molte donne
sopportano l'impotenza nei rapporti affettivi; in casi
estremi, sono disposte ad appaltare la proprietà
dell'utero (grande conquista del movimento femminista)
alla scienza di mercato. Di regola infelicità e
separazioni; il rapporto con l'uomo è fuori portata. La
responsabilità del fallimento viene proiettata contro
l'identità maschile; si tende ad invocare una
uguaglianza funzionale contro ogni spontanea evidenza di
ruolo sessuale.
La
morale sessuofobica si adopera per cancellare, con la
suggestione affettiva della colpa, ogni acquisizione di
coscienza da parte della donna giovane dell’effettivo
potere che le deriva dall’esercizio della sua
sessualità nei termini concreti della creazione
dei desideri e dei bisogni del mondo. Sfugge alla
donna-figlia (non alla madre) che lo sfregamento
della lampada dei
desideri è ciò che accende e comanda il genio
dell’onnipotenza che struttura il desiderio, la fortuna
e la felicità come rappresentazione e reale accadimento
nella realtà.
È
l’espressione di una libera sessualità che inventa e
colora il mondo con i toni del benessere, dell’amore e
della conoscenza, a beneficio di tutti.
La
negazione egoistica ed interessata di questo potere
nella figlia, ad opera della matrigna,
riporta alla condizione di schiavitù ed ignoranza ogni
proiezione del reale, aliena il desiderio
nell’impotenza, confina la fortuna nella truffa
organizzata di una lotteria: l’erario delle
frustrazioni estrae plusvalore dall’attività
onanistica del gratta
e vinci. Del resto, non è più cosa recente il gioco
frenetico delle mani in
borsa; l’autoerotismo nel quale la finanza
surroga, nella presunta compensazione anale della moneta
e nel feticismo della merce, l’alienazione del divieto
alla soddisfazione sessuale. La produzione e il possesso
di capitale materializzano, come forma dominante del
paradigma sociale, il fantasma inconscio della matrona;
l’erotismo della sessualità matriarcale struttura il
godimento del possesso, il controllo sulle azioni delle
aziende filiali, la distorsione del valore come
quantità di vita-lavoro reificata in denaro contro
l’effettivo valore di chi sa essere e di chi sa fare;
fa regredire al rapporto di costo-dipendenza il concetto
di tempo che, lungi dall’essere denaro, scandisce
invece la relazione tra simili nella fisiologia della
comunicazione tra gli esseri umani.
La
falla e il fallimento nel ciclo dell'azienda madre
Il
ca-pitale è
la sostanza innalzata a sistema del godimento di una
sessualità immatura che si motiva sulla raccolta e
l’accumulo del prodotto metabolizzato in una
particolare forma di valore; pecunia
non olet, ma dal punto di vista simbolico equivale
alla produzione del pene
anale (secondo l’accezione della Chasseguet) la
cui autenticità è pretesa di natura superiore a quella
del fallo maschile.
Nella
realtà il capitale produce falsi valori e accumula
effetti dell’alienazione: situato per definizione
sulla negazione del fallo non può che fallire.
E il fallimento, in quanto strutturale, si presenta
periodicamente, come ciclo, nella sembianza di flussi di
crisi e distruzione di risorse.
Marxismo
e psicoanalisi sono in continuità logica nell’analisi
della perversione che, dalla sfera del privato, si fa
dominio sociale. Constatare che dalla famiglia alla
forma sociale la questione si pone nei termini del
possesso e del controllo è già prendere atto che il
paradigma del potere è perversione costantemente alle
prese con il problema della sua legittimazione. Marx
svela la truffa nel meccanismo della produzione di
plusvalore che diviene feticismo della merce ed
alienazione dei rapporti umani; Freud costruisce il
dispositivo per rendere visibile in che modo una
evoluzione immatura, incapace di soddisfazione sessuale,
porti alla chiusura del soggetto su posizioni sadiche ed
antisociali.
All’inizio
del terzo millennio manca ancora la capacità di
sintetizzare in modo accessibile per tutti una mappa
della fisiologia degli affetti che risolva il problema
della quantità di emancipazione necessaria per far
fronte agli obblighi di liberazione imposti dalla
variabile tecnica degli strumenti a disposizione e
dall’enorme efficacia della potenzialità umana.
Tuttavia
prende definitivamente piede la consapevolezza sulla
natura sessuale e matriarcale del dominio anche nella
saggistica di divulgazione sociale. Ne L’ombra
del potere di Risè e Bonvecchio
si afferma esplicitamente:
Non
è dunque la donna ad aver vinto, ma la madre. Anzi la
Grande Madre.
La
Società-Grande Madre di tutti i consumi, per abbietti,
inutili e pericolosi che siano. Per vincere ha dovuto
far fuori, espellere dalla coscienza collettiva, il
principio psicologico e l’ordine simbolico opposto ad
essa: il Fallo e il mondo maschile.
La
grande azienda, presentata a torto come espressione
della psicologia maschile, è generalmente una
traduzione produttiva e commerciale della figura della
Grande Madre: appagatrice di bisogno, dotata di grande
potere, non tende a creare solidarietà tra i suoi
uomini (…), ma li mette in concorrenza fra di loro,
rompe insomma l’unità del campo maschile suscitando
la competizione per ottenere i favori della
Madre-azienda.
Risè
mette in guardia dalle disfunzioni della società Grande
Madre:
…l’intera
società (non solo le sue Grandi Aziende) è diventata
una grande madre, che ha come prima funzione quella di
mantenere in vita l’individuo per stimolarne e
soddisfarne le richieste, e alimentare quindi il
circuito della produzione e del consumo. Siamo tutti
animali ‘da compera’, cresciuti per acquistare
prodotti fabbricati artificialmente, ed è soprattutto
in questa veste di compratori che il sistema
informativo–mediatico, ma anche politico, della
società occidentale si occupa di noi.
È
tuttavia un sistema che tende a incepparsi.
L’intero
sistema umano è in crisi. Non sa rinnovarsi perché non
sa rinunciare al prototipo basato sul furto di vita che
alimenta dall’interno il mondo
dei balocchi. Il matriarcato impone il labirinto del
senso e del valore nella produzione e nel consumo.
L’ipermercato è lo spazio urbanistico ideale. È
stato Marx in realtà ad accorgersi, molto per tempo,
che tutto (carne, oggetti e sentimenti) viene ridotto a
merce nella sussunzione
totale. La madre si fa pancia del reale, attenta a
rimangiarsi ogni elemento che potrebbe differenziarsi e,
situandosi dal punto di vista dell’Altro, potrebbe
denunciare il complotto dell’unicità, il senso
distruttivo della follia dell’appartenenza totale che
si articola nel controllo.
La
sola proprietà che abbia valore
L’appiattimento
sul corpo femminile è regressivo anche rispetto al
grado di intelligenza sociale della specie. Risè
incalza affermando che l’uomo matrizzato
non è più in grado di produrre idee:
L’uomo
‘matrizzato’ è come un cane senza naso: non
possiede per istinto una direzione, ignora in quali
territori, in quali forme la sua identità maschile lo
porterebbe a trovare gioia e realizzazione. (…)
Ma
soprattutto l’uomo matrizzato, a identità maschile
debole, produce meno idee: per rendersene conto basta
guardare ai programmi politici dell’Occidente negli
ultimi vent’anni (…).
Ma
se il maschio si indebolisce, l’atto nuovo, l’idea
folle, ma anche semplicemente l’idea, tende a non
esserci più, e senza idea, senza la spinta del
maschile, senza la capacità di dono gratuito assicurato
dall’impulso della forza fallica, la società dei
consumi non può rinnovarsi
e corre verso la crisi.
Quella
che Risè chiama società matrizzata non può che fallire.
Il capitalismo in qualità di paradigma materno è
destinato, ciclicamente, al fallimento. Fino
all’autodistruzione. Questo sistema si regge sul totem
del falso fallo,
il pene anale
eretto a fantasma compensatorio della falla,
cioè della sessualità femminile che insiste nel
pensarsi al maschile, escludendo il vero fallo, in
quanto alienata a se stessa. Il falso, per definizione,
non potrà mai ingannare il vero; ogni babelica
costruzione in linea con questa
fantasia non può che registrare ciclicamente il
crollo di ogni illusione.
Dobbiamo
ancora ripetere con il marxismo che, sebbene non sia
garantita la riuscita di un progetto di liberazione
sociale, è ineluttabile tuttavia la distruttività e
l’annientamento di un tale sistema fondato
sull’alienazione?
La
verità è che anche la ricerca dell’utopia socialista
come nuova visione del mondo è stata, oltre che
contrastata, anche amata e perseguita fino a che si è
espressa nel solco consueto del parricidio sociale. Una
lettura più approfondita dell’analisi del reale in
grado di svelare il vero attributo sessuale del dominio
pone di colpo nelle stesse masse
popolari e
tra gli intellettuali socialisti l’ideale del
comunismo in crisi; si pretende di asserirne il fallimento
anche davanti all’evidenza di un capitalismo, che
sebbene regni incontrastato, è geneticamente incapace
di dispensare benessere in ragione dell’enorme
quantità di risorse accumulate. Il dominio della mamma
non si tocca. Altro che cristiani!
Decidere
tra la nuova barbarie del dominio o la civiltà sociale
è questione di differenza sessuale. È questione di
libertà sessuale. È esattamente l’opposto
dell’accentramento dei ruoli prescritto dalla teologia
matriarcale, con l’esclusione del fallo maschile. In
altri tempi la violenza dello stupro risolveva la crisi
nel rinvio della ciclicità delle crisi. Spetta ancora
alla coscienza, allargata a maturazione sociale,
favorire lo scatto di emancipazione per la specie umana.
Si
tratta in definitiva di pervenire alla consapevolezza
che l’unica
proprietà che abbia reale valore è, per ciascuno,
quella del proprio ruolo sessuale.
In
questo senso l’essere
si riappropria del vero valore, che solo nella sua forma
alienata è attribuito all’avere.
La proprietà di se stessi, che si realizza per ciascun
soggetto sull’asse ideale tra testa, cuore e sesso,
nell’aplomb
di una nuova identità matura, è la conquista più
preziosa che l’umanità abbia mai perseguito, nel
lungo percorso dalla condizione di schiavitù e di
bisogno, a quella della conoscenza e del rapporto
dialettico con la natura fisica che ci ha prodotto. È
la libertà.