Il
primato del parto
Il
matriarcato nell’ideologia monoteista
All’inizio
era il matriarcato. Gli autori concordano nel far coincidere la
fase pre-sociale della storia con la condizione di incesto
matriarcale. La storia come ontologia e la personale storia di
ciascuno derivano una comune origine nella fisiologia: la storia
dell’umanità e quella di ciascuno mantengono, su scale
diverse, similitudini di base solo nella misura in cui la fisica
ambientale e la fisiologia sessuale sono rimaste le strettoie di
impatto formativo obbligate e immutate nel tempo. Su queste basi
si fonda l’archetipo.
L’antro
della caverna è metafora dell’utero materno, come il clan di
appartenenza lo è, in funzione
di contenitore, nella proiezione sociale. Quanto più si
è reclusi nei labirinti della morale di incesto famigliare,
tanto più si tende a elevare ai modelli della metafisica la
descrizione della mera condizione materiale. Eppure è facile
constatare come l’aporia tra interno ed esterno si presenti,
con evidenza, in ogni forma attuale, in qualità di traccia
della nascita; cioè dell’evento fisiologico affettivo più
importante ed essenziale. Sia che il chiuso della chiesa si
opponga all’apertura della piazza, sia che la forma del nido
di un uccello alluda all’involucro dell’uovo, o che si
sgusci ogni giorno dalle coltri di un mater-asso,
l’esordio alla vita si pone come significato reiterato
all’infinito dai significanti del reale.
La
qualità umana giunge ad imporsi sulla materia fisica nelle
forme dell’elaborazione del sapere, modulando tutta la gamma
tra condizione animale di origine e invenzione della relazione
sociale nella civiltà.
L’emancipazione
è funzione della capacità di elaborare: nel procedere
dall’incesto verso la creatività sessuale, si costruisce ogni
vera premessa della facoltà umana in quanto tale.
La
cronaca della genesi nel mito greco è nota: attribuisce le
origini a Gea, la Terra, divinità che generò da se stessa
Urano (il Cielo), poi le montagne e Ponto (il Mare). Gea si
unisce a Urano creando Titani, Ciclopi, Ecatonchiri. Crono, tra
i Titani, nel più puro precetto dell’incesto matriarcale,
evira il padre (e fratello) e sposa la sorella Rea.
Ciò
accade come se la grande madre delle origini, nel pieno possesso
del figlio-fallo Crono si pensasse al maschile finendo per
attribuire al marito le stimmate di una sessualità al femminile.
Il sangue della ferita, la falla
che per elisione del fallo femminilizza
il sesso di Urano, dà infatti origine alle Erinni che saranno
custodi del diritto matriarcale.
Tale
sarà la loro funzione fino al mito di Oreste che pone fine alla
condizione del dominio dell’incesto primario con l’atto
matricida.
La
realtà d’origine è cronaca dell’incesto e del potere della
ginocrazia materna. Secondo Graves:
L’antica
Europa non aveva dèi. La grande dea era considerata immortale,
immutabile e onnipotente, e il concetto della paternità non era
stato introdotto nel pensiero religioso. Gli uomini temevano la
matriarca, la riverivano e le obbedivano (…).
La
ninfa tribale, pare, si sceglieva ogni anno tra i giovanotti del
suo entourage un amante, il re che sarebbe stato sacrificato
alla fine dell’anno e che diveniva così un simbolo della
fertilità più che uno strumento del piacere della ninfa (…).
Nell’antica
mitologia greca si riflettono soprattutto quei mutevoli rapporti
tra la regina e i suoi amanti, che iniziano con il sacrificio
annuale o biennale del divino paredro e terminano (all’epoca
in cui l’Iliade fu composta e i re si vantarono ‘Siamo
migliori dei nostri padri!’) col tramonto del matriarcato.
Anche
Engels
fa risalire all’età eroica della Grecia il superamento del
matriarcato. Egli si rifà al testo di Johann J. Bachofen del
1891 per ricordare che
…in
una certa fase dello sviluppo di ogni popolo domina una
concezione ‘femminile’ della vita, che nella sfera religiosa
si manifesta come culto della Madre divina, nelle istituzioni
giuridico-sociali come matriarcato.
Engels
è più acuto, nell’esegesi del comportamento umano, dello
stesso Freud nell’individuare nel possesso famigliare sui
figli l’origine della proprietà privata. Ma il percorso
logico dell’evoluzione non è banale:
Bachofen
ha inoltre incondizionatamente ragione, quando afferma
costantemente che il passaggio da quella forma da lui detta «eterismo»
oppure «generazione di palude» alla monogamia, è avvenuto
essenzialmente per opera delle donne.
Con
lo sviluppo delle condizioni economiche e il consolidarsi della
famiglia come luogo di produzione del patrimonio, il diritto
matriarcale e matrilineare della gens
ancora imponeva, in caso di morte, il lascito del patrimonio ai
consanguinei per parte di madre:
I
figli dell’estinto però non appartenevano alla sua gens, ma a
quella della loro madre (…), non potevano ereditare dal padre
poiché essi non appartenevano alla sua gens, e il suo
patrimonio doveva rimanere in questa gens. Alla morte del
possessore di armenti, i suoi armenti sarebbero quindi passati,
anzitutto, ai suoi fratelli e sorelle e ai figli delle sue
sorelle o ai discendenti delle sorelle di sua madre. I figli
suoi però erano diseredati.
Il
clan famigliare della madre di origine manteneva un primato di
diritto sulla famiglia attuale: secondo lo stesso diritto
matriarcale, la donna-madre partecipava più allo statuto di
figlia-di-famiglia che a quello di padrona del patrimonio
procurato dal marito nella propria realtà famigliare attuale.
Così
il calcolo della discendenza in linea femminile e il diritto
ereditario matriarcale furono abrogati e fu introdotta la
discendenza in linea maschile e il diritto ereditario
patriarcale.
Onnipotenza
del ruolo sessuale e alienazione del soggetto sociale
Sul
filo della stessa logica Engels concorda con Marx nel constatare
che lo spostamento del baricentro dalla famiglia di origine alla
famiglia attuale segnò anche
…la
sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile.
L’uomo prese nelle mani anche il timone della casa, la donna
fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice
strumento per produrre figli.
Ma
come è possibile affermare che la donna sia stata a un tempo
artefice attiva del cambiamento e fautrice della sua stessa
sconfitta riguardo alla centralità sociale?
Il
miglioramento delle condizioni tecniche, ambientali e produttive
aveva evidentemente spostato il centro di gravità
dell’efficacia sociale dall’appartenenza al clan alla
famiglia più o meno estesa; l’accumulo dei beni e la necessità
di difenderne il possesso, l’inizio di una produzione
tecnologica e gli scambi commerciali attribuivano una centralità
inedita al ruolo maschile. La madre passava da un dominio
diretto sancito e fondato sul primato del sangue ad un potere
affettivo immanente che diventa tutt’uno con l’ambiente
domestico ed il possesso sui corpi dei figli. In questo processo
perde l’identità di soggetto collettivo (la gens) per
assumere un ruolo di potere funzionale oggettivo, più
individualizzato, ma di fatto ancora alienato rispetto al
sociale.
Per
sottrarsi al sequestro di appartenenza esclusiva al clan di
origine, e nell'intento di sfuggire agli effetti di
perpetuazione del dominio primario, la donna è costretta ad
eleggere un sostituto in fase secondaria di questa relazione
nella figura del marito: un oggetto affettivo, il ma-rito,
che essa possiede per scelta e influenza affettiva, ma proprio
per questo motivo anche simulacro del fantasma della stessa
madre, dal momento che su di esso la donna non può che
proiettare la medesima natura della relazione (quella possibile,
di cui è capace, non una ideale) che c'è stata tra lei,
figlia, e la madre.
La
storicità dell'affetto con la madre è per la donna l'unità di
misura obbligata che definisce la qualità del rapporto d'amore
con l'uomo. Il potere sovrabbondante, esclusivo e reclusivo di
questo rapporto ostacola l'emergere dell'individualità
femminile alla soglia del protagonismo civile e ne scinde
insopportabilmente la natura tra influenza fisio-affettiva e
subordinazione sociale. Nel suo divenire soggetto, la donna
sconta una difficoltà oggettiva a differenziarsi dall'identità
omosessuale con la madre, a meno che, a partire da questa
consapevolezza, non intervengano strategie precise a confortare
e sostenere il processo di maturazione.
Alla
donna-madre è sempre toccata la sorte di un difetto di
individuazione: o società-madre
oppure madre-famiglia;
mai madre ed anche donna come soggetto sociale!
Il
potere che compete alla madre è tuttavia fuori discussione e
prescinde dalla forma di individuazione di ruolo formale perché
le deriva direttamente dalla facoltà fisiologica di procreare:
l’imprinting del parto sancisce comunque il potere di
influenza sul destino dei nati e del mondo intero frainteso come
creato. Ciò che è in gioco è il grado di alienazione tra la
rappresentazione di questo potere sul piano divino piuttosto che
su quello consapevole e sociale.
Il
potere d’influenza della sessualità femminile nella società
ellenica non era tuttavia ignoto agli stessi greci. Aristofane
già nel 411 a.C. satireggia Euripide per la sua misoginia e
propone la centralità della questione femminile nelle commedie Lisistrata,
Le Tesmoforiazuse (La
festa delle donne) e le Ecclesiazuse
(Le donne a Parlamento). Non solo Aristofane dimostra che
l’emancipazione sessuale è stata comunque una eventualità
attuale nella cultura greca, ma con intuizione psicologica,
coglie il nesso fondamentale tra sesso e guerra. Comprende il
potere motivante all’aggressività distruttiva, come alla
pace, che il desiderio femminile o la sua negazione provoca
nella fenomenologia del destino, nella forma di eventi della
storia.
Il
potere immanente della donna, della sua sessualità, è il
grande enigma della storia. La scarsa differenziazione
dell’individualità soggettiva femminile è tale da confondere
ogni percezione tra causa ed effetto, tra affetto ed effetto nei
fatti, tra motivo ed emotivo, tra desiderio e godimento, tra chi
è il mandante e chi invece è il motivato nel gioco dialettico
della differenza sessuale che è tutta la commedia umana.
Il
problema che si è imposto nel lungo processo di emancipazione
della donna (di pari passo a quello dell’umanità) è, come si
cercherà di argomentare, la questione di individualizzazione
della donna dai due principali fattori che tendono ad
indifferenziarla in modo strutturale: l’appartenenza di
identità omosessuale al corpo della madre (identità per
origine e per sesso) e l’esproprio del corpo decisionale, che
si attua come controllo, sulla riproduzione sessuale che, a sua
volta, diviene metafora della produzione economica e sociale. Il
problema dell’emancipazione della donna a partire da un più
completo sviluppo dell’individualità personale oltreché
sessuale è ancora oggi la questione risolutiva del processo di
adattamento evolutivo del genere
umano.
Il
primo superamento del matriarcato, avvenuto in Grecia nell’età
eroica, ha indubbiamente posto le condizioni per il fiorire
della civiltà sociale, delle arti, della politica, della
cultura e del commercio, attraverso la pluralità del
protagonismo dei soggetti, in contrapposizione evidente con la
condizione regressiva dell’unicità e dell’indifferenziato
nel privato famigliare. Grazie alla risoluzione
dell’appartenenza primaria nella molteplicità delle relazioni
sociali, lo sviluppo umano ha conosciuto in quella fase una
espansione formidabile della coscienza; un evento straordinario,
unico e irripetibile. Tuttavia sia Engels che Marx sono concordi
nel constatare la mancanza di una pari emancipazione della
dignità femminile nel ruolo pubblico, fino a delineare sulla
condizione della donna il paradigma dello sfruttamento
capitalista.
La
condizione sociale della donna, la sua definizione come entità
fine anche a se stessa (non solo nei termini di un corpo tara e
contenitore capace solo di far figli ed emotivamente di vivere
per e attraverso di essi) è atrofizzata, paragonabile alla
condizione dello schiavo. Al tempo stesso, la sua onnipotenza
affettiva nella funzione di fattrice le conferisce un potere
simile a quello del tiranno: potente ma incapace di
soddisfazione affettiva, quindi privo di equità e giustizia.
Giovenale nelle Satire,
scritte intorno all'anno 100, parla di questa natura femminile:
«Crocifiggi
quello schiavo!» «Che ha fatto di tremendo per meritare un
simile supplizio? Chi l'ha visto? Chi accusa? Ascolta, quando ne
va la vita d'un uomo, nessuna esitazione è mai di troppo!» «Sciocco,
è forse un uomo uno schiavo? E va bene, non ha fatto un bel
nulla. Ma io voglio questa morte, te l'ordino; la mia volontà
ti sia l'unica causale.»
Così
[la
donna] regna sull'uomo.
Oltre
la misoginia fustigatrice di Giovenale, è vero che la donna è
insieme il tiranno e lo schiavo; assomma entrambe le figure, è
lei stessa l'antinomia; vive alienata e scissa in questi due
poli, incapace di possedere una terra di mezzo, cioè
l'estensione sociale di sé come soggetto. La rappresentazione
del potere sessuale della donna rimane dunque intrinseco, non ha
una ragione, anche perché è impresentabile al giudizio
esplicito della coscienza, per il fatto che è implicitamente
crudele. Non è un caso che qui si parli di crocifissione; siamo
ai prodromi dell'avvento cristiano sulla scena del potere. Le
esigenze violente di una natura alienata non possono trovare
ragione nella legge (se non in quella del tiranno sanguinario):
queste inconfessabili istanze si rappresentano come religione,
cioè alla stregua di un volere divino, che solo in quanto
preteso superiore all'umano (in realtà, l'istanza è animale)
esige il sacrificio dell'uomo!
L'ingiustizia
e il discorso rituale del sangue nel massacro denotano le fasi
di regressione al gruppo primordiale. L’ipotesi attuale è che
il matriarcato, non più proponibile nella modalità
matrilineare delle origini, ma piuttosto nella forma del dominio
caratterizzato dall’appartenenza obbligata all'unico corpo
sociale, sia comunque tornato ad essere prevalente modello
storico con il tardo impero di Roma, l’avvento del
cristianesimo, l’enorme regressione della civiltà sociale nel
privato e la forte diminuzione della produzione culturale (in
rapporto all’epoca classica greca e latina) del Medioevo. Fino
a quando, poi, nell’epoca laica dell’espansione
rinascimentale, i prìncipi e i mecenati costituirono di nuovo
un valido contrappunto (sessuale e sociale) al matriarcato
imperante della chiesa.
L'imene
eucaristico
Il
matriarcato è ciò che, di fatto, connota questa cultura degli
affetti familiari rappresentata sul modello della sacra
famiglia. Nella religione cristiana - che delinea in tutta
la sua estensione teologica la psicologia
della madre - la centralità del matriarcato è
rappresentata simbolicamente in tre modi:
a)
dallo spirito
santo che dà il senso ad ogni relazione tra il padre ed il figliolo;
b)
con il dogma dell'unicità e trinità
di dio; il tre,
infatti, simboleggia la composizione del logos famigliare che
ritrova nella madre fonte e ispirazione unica e totale;
c)
nell'ossessione ginocentrica della madonna
e del mito della ricostruzione dell'integrità verginale, ossia
della negazione d’ogni sviluppo della sessualità e
dell'autonomia dei figli, a partire dall'atto
di dolore inaugurato con il trauma del parto che pesa su
ciascuno come debito e peccato
originale (sono anche celebrazioni della verginità
dell'imene l'ostensione dell'ostia e del sangue idealmente
contenuto, come pure la posizione giunta delle mani con o senza
il riferimento ai flussi stigmatici).
Il
rito dell’eucaristia
nell’accezione cristiana si afferma nel processo di
ribaltamento della centralità della figura del padre a favore
della sessualità materna: nella tradizione ebraica l’oggetto
di transazione simbolica era rappresentato dal pane-pene
da spezzare e distribuire come pasto totemico e come
ripartizione che i figli celebravano intorno al corpo del padre,
secondo l’interpretazione freudiana del Mosé.
Passando
per l’equivalenza di pani
e pesci, si giunge fino alla completa sostituzione del
significante della centralità sessuale paterna con quella
femminile, con l’ostensione dell’ostia
nella forma dell’integrità dell’imene
e del sangue in essa
idealmente contenuto. Esibizione ed eritrofobia connotano il
rito di reintegrazione della verginità e della rimozione
dell’atto sessuale come evento necessario a procreare.
Dal
pane all’ostia, dal pene all’imene: fuor di metafora, ecco
il mistero dell’eucaristia!
L’insistenza
sul riferimento al corpo e al sangue del figlio dipende dal
fatto che la madre fraintende il corpo sessuato del figlio come
proprio; dal momento in cui si esautora la sessualità paterna,
la sessualità materna rivendica il potere di assommare in sé
la differenza sessuale tutta intera, per la ragione evidente che
il corpo femminile può generare anche un sesso maschile in
quello del proprio figlio. A patto che questi non si emancipi
mai dalla placenta di
appartenenza per rivendicare un autonomo diritto esistenziale,
rimanendo consegnato, fin dalla nascita, ad un esito di morte
(valore misterico della sindone).
Attraverso
il dogma della transustanziazione
si afferma l’equivalenza tra la ferita narcisistica della
sessualità femminile ed il martirio nel sangue del corpo del
figlio nella proprietà di maschio e di corpo prodotto dalla
madre (spirito santo) e a lei appartenente
per compensare ogni mancanza e per negare ogni
conseguente bisogno della differenza sessuale.
Il
mancato distacco di maturazione dal corpo della madre, la cui
presenza è esasperata e preponderante, è anche condizione
dell'incesto e del mancato sviluppo di una adeguata
identificazione sessuale e sociale. Queste ultime due funzioni
d’identificazione pertengono alla figura del padre il cui
ruolo rimane subordinato e marginale, quando non assume, come
spesso è successo, la funzione violenta della spada, del fallo
punitore. Ma anche in questo caso, ricordiamo, non c'è spada o
arma in grado di ferire o uccidere che non sia guidata da una
mano che l’impugna. La mano solo apparentemente è indifesa.
Mano e spada rappresentano la differenza sessuale tra chi è il
fallo e chi in realtà lo gestisce. Il fallo deriva
dall’oggetto di attraenza ogni suo (e)motivo all’azione.
Nel
modello affettivo cristiano non c'è rappresentazione
iconografica del padre (è nei
cieli). In questo risiede la diversificazione del
matriarcato ginocratico cristiano rispetto alla tradizione
ebraica. La religione di Davide è basata sul culto dei padri e
sul bisogno di emancipazione dal corpo di appartenenza primario.
Tale bisogno è espresso nei miti di inglobamento (Giona nella
pancia della balena), di disparità (Davide e Golia), di
superamento del sacrificio del figlio (nel mito di Isacco,
anziché morte, monito di obbedienza attraverso l’equivalenza
circoncisione-castrazione), di garanzia della legge sul ruolo
del possesso materno (Salomone e le due madri che si disputano
un bambino).
L’equivalenza
dio-madre è la costante nelle religioni monoteiste. È
l’evidenza più rimossa, in quanto la madre si rappresenta
nella forma soggettiva come debole e vulnerabile, ma nella sua
immanenza oggettiva e fisio-affettiva è onnipotente e divina.
La suggestione riesce a patto che di ciò non si parli; che la
natura materiale del suo potere sia celata nel mistero
dell’innominato, dell’impronunziabile, dell’immaterico, al
di fuori, in ogni caso, del controllo che gli umani attuano sul
reale attraverso la rappresentazione simbolica del linguaggio.
Il dio ebraico è il primo soggetto che motiva, fuori scena, la
prova di obbedienza di Abramo sul corpo di Isacco. Tuttavia
prevale il senso simbolico della norma e non l’evento
consumato nel sangue.
La
creazione, apparato sessuale di comando
Rachel
Herweg nel saggio “La
yidishe mame” precisa, già in copertina,
nell’estensione del titolo, che si tratta della “Storia
di un matriarcato occulto, ma non troppo, da Isacco a Philip
Roth”. Nel testo si dice, tra l’altro:
La
vicinanza produttiva fra Dio e la donna-madre trova espressione
nella parola ebraica indicante l’utero, ‘rechem’, da cui
derivano l’ebraico rachum, che nella Bibbia indica una qualità
essenziale di Dio, la sua ‘misericordia amorosa’, e
l’ebraico ha-Rachaman che, nell’interpretazione rabbinica,
costituisce uno dei nomi di Dio, il ‘sommamente misericordioso.
La
natura religiosa dell’indagine conoscitiva fa sì che questa
identità, per quanto palese, rimanga ai bordi della coscienza
razionale, appena dissimulata dal solito umorismo ebraico
insieme elusivo e dissacrante:
Dio
non può essere dappertutto, per questo ha creato le mamme
L’autrice
cita questo antico proverbio nella premessa al suo libro.
Non è tuttavia lecito asserire l’identità tra la funzione
materna e l’idea di dio nelle religioni monoteiste senza
entrare in conflitto con il potere suggestivo su cui reggono il
loro secolare dominio sullo spirito. In quanto espressione del
dettato affettivo sul sociale, le religioni incontrano nel dogma
divino il limite conoscitivo della coscienza, riservandosi
l’efficacia prescrittiva dell’influenza sul soggetto umano e
sugli accadimenti del destino.
La
religione è apparato sessuale di comando basato sul primato
della creazione, cioè del parto.
Dopo
la riduzione dell’idea di dio al concetto di interpretazione
umana della natura descritta da Feuerbach, è la psicoanalisi a
mutuare dalla cultura ebraica laicizzata il superamento
dell’idea di dio in termini di una esegesi razionalista.
Tuttavia né la natura come madre oggettivata né il genitore
idealizzato nel super-io sciolgono ancora il nodo dell’origine
umana e sessuale di dio: manca una lettura che superi l’aporia
tra maschile e femminile. L’enigma si farà beffe della
ragione finché non sarà palese a tutti che l’idea di dio si
fonda proprio sulla caratteristica di assenza della ragione che
è propria dell’infante, cioè dell’oggetto (non ancora
soggetto) creato. Lo
spirito della donna-madre estende il suo potere sui corpi e
sulle menti al di là della differenza di genere, sotto forma di
suggestione inconscia ed emotiva rimanendo inafferrabile al
soggetto.
Dio
è l’influenza della funzione materna sul reale: né corpo
né sesso, ma ogni corpo e ogni sesso. Spirito
santo per i cristiani. È un dio onnipotente, ma alienato a
se stesso ed alienante al pari del ruolo di donna rispetto a
quello di madre.
A
questo dettato sono stati offerti innumerevoli tributi di sangue
nella storia. La teologia della creazione nega ogni altro potere
affettivo, soprattutto quello differenziante ed emancipatorio
del ruolo del padre che, in quanto Altro
rispetto all’origine, restituisce spessore ed autonomia ai
figli sulla strada della costituzione del soggetto.
L’inconscio,
sebbene astorico e immutabile perché ascritto alla
neurofisiologia umana (immutata nell’evoluzione dei mammiferi),
è ben più democratico
del dettato teologico poiché si sostanzia del contributo di
ciascuno; è il discorso
dell’Altro, secondo Lacan, nel rispecchiamento affettivo
del fra-intendersi proprio del linguaggio della vita; non è
solo il discorso della madre, la quale vorrebbe imporre a tutti
il proprio, sotto dittatura, contrastando e sostituendosi allo
sviluppo della soggettività degli esseri umani (di questi
ultimi essa accetta solo lo statuto di figli negandone ogni
sovranità nell’autonomia). In quanto entità affettiva ciascuno
è capace di interagire in modo non indifferente né
indifferenziato con le dimensioni del reale. L’emancipazione
supera e risolve nel rapporto attuale e nel sociale la pretesa
assoluta dell’appartenenza primaria.
La
proprietà privata e l’egoismo del possesso, come incapacità
di scambio equo e solidale nella relazione economico-pulsionale
con l’altro, origina la sua struttura genetica nel possesso
primario della madre. Siamo rapaci nella misura in cui restiamo
schiavi di tale possessione.
È
in ogni caso la legge del simbolico che determina il superamento
del regno della carne e del sangue. Nel racconto di re Salomone
si dà la definizione di quale sia la buona madre:
Date
il bambino vivo alla prima [delle due presunte madri], quella
che ha detto: non uccidetelo. Quella è sua madre.
Il
giudizio è espresso dal rappresentante della figura paterna,
l’unica capace di dissequestrare i figli dal possesso
indifferenziato dell’identità materna tramite il processo di
identificazione e del suo potere soggettivante e socializzante.
C'era
una volta, il regno del sangue
La
differenza con la rappresentazione ginocratica cristiana, che
trascina il godimento del possesso nell’apoteosi del martirio
del figlio, sta proprio sulla maggiore ascendenza che il potere
socializzante del padre assume nel modello ebraico
socio-famigliare: la relazione sociale tramuta in legge,
nell’ordine del simbolico,
l’origine del debito di sangue contratto nel parto come
sofferenza della madre, che è sul registro della carne. Il
prevalere del matriarcato in varie fasi della storia reintroduce
il primato del sangue su quello della legge, che è del padre.
Ciò
che tradisce la natura matriarcale nella forma sociale del
dominio non è il genere sessualizzato del corpo imperante, sia
esso re, papa, divinità o padrone, quanto piuttosto la
caratteristica di unicità e di esclusività che connota, per
realtà fisiologica, il primato materno. Gli stilemi
dell’appartenenza all’indifferenziato, al corpo unico,
denotano senza possibilità di equivoco il modello matriarcale
che si oppone al modello democratico espressione della pluralità
e della convivenza, senza riduzioni, delle differenze. Mondiale,
monastico, monoteista, monarchico… sono rimandi lessicali
all’unità ginocratica femminile.
Il
corpo del re, per esempio, non può che essere nudo come quello
di un infante che deve la legittimazione del suo ruolo al fatto
di essere nato per regnare di diritto e per sangue: spicca il
messaggio eutocico della corona
sulla testa per segnalare la scena del parto di un predestinato.
Il re è lo scettro; la madre, che sia nell’ombra o meno, è
il cerchiaggio da cui
egli è nato; il ruolo di dominio gli è conferito per diritto
di sangue, divino e matriarcale. Il cerchio della corona e lo
scettro sono i segni visibili di un governo che è metafora
della ginocrazia sessuale.
Il
nostro autore,
genitore di Pinocchio, in quanto ai natali, mette subito le cose
in chiaro: egli è un democratico repubblicano per cui si
affretta ad informarne i suoi lettori:
C’era
una volta…
Un
re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi,
avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
La
genialità del messaggio letterario di Collodi dichiara le
intenzioni emancipatorie fin dall’esordio: non si tratta della
storia di un lignaggio,
ma di una materia molto più popolare ed egualitaria: si tratta
di un ottimo legnaggio!
All’origine c’è un pezzo di legno; non uno scettro, ma pur
sempre un fallo. È così che l’autore si accinge a demolire
l’impalcatura suggestiva del dominio matriarcale ad iniziare
dall’identità di significato tra redenzione
del corpo dal legno e risorgimento
come riscatto della libertà contro l’oppressione e contro il
mandante di ogni principio di divisione tra i fratelli
d’Italia: lo Stato papalino della madre chiesa. Non a caso
il ciclo cavalleresco dell’indipendenza nazionale può
ritenersi compiuto con l’atto di matricidio culminato con la
breccia di Porta Pia. Nella retorica irredentista la giovane
patria si costituisce, nel travaglio di un parto non desiderato,
dalle mura di cinta della città delle origini.
Nella
morale cristiana, la madre, in quanto spirito,
governa nel nome del
padre e del figlio. Nella realtà l'amore tra padre e figli
è spesso assente, il genitore maschio è putativo, in ogni caso
subordinato al ruolo effettivo della madre. Non ancora della
moglie compagna, ma della
Madre del giardino terrestre: la madre delle rispettive
famiglie d’origine. Insomma il dio
creatore e padrone di tutte le cose. L'aggettivazione al
maschile non tragga in inganno. San Giuseppe è un pallido
padre: come potrebbe avanzare proprietà di ruolo quando non può
possedere la donna ancora schiava della sua appartenenza
d’origine allo spirito santo?
Il
veleno allo specchio
Neanche
la donna nella giovane coppia ha proprietà di ruolo: è
prigioniera nella turris
eburnea; nessun cavaliere ha ancora sconfitto il drago o la
bestia che la incatena, nessun principe ha ancora risvegliato la
fanciulla dal letargo dei cento anni nella sua reggia di
famiglia da quando la prima goccia di sangue ne rese evidente la
disponibilità a procreare.
Le
favole, tuttavia, per il fatto che nascono da una spontaneità
non riverente,
hanno una morale ben più avanzata di quella cristiana,
prospettando simbolicamente una elaborazione avventurosa e
almeno una soluzione fantastica (...vissero
felici e contenti) a questo problema del
distacco-maturazione dalla famiglia d’origine; distacco che la
morale cristiana non prevede. La realtà invece la impone; basti
pensare alle fughe d'amore o al rito del rapimento prima del
matrimonio riparatore (retaggio dell'antico ratto delle donne)
per capire come il trauma del distacco sia necessario alla nuova
coppia in formazione, ai novelli Eva
ed Adamo che comunque
pagheranno a lungo il fio di questo peccato con una maternità
sofferente e con la schiavitù del lavoro non creativo.
La
sacra famiglia si riproduce alienata, sul modello dell'unità
placentare realizzando il ciclo di minaccia, punizione e colpa.
L'emancipazione, in
particolare quella femminile verso il ruolo di procreatrice che
la rende simile a dio madre, è vista come il
peccato nella morale cristiana. La cacciata dal paradiso
terrestre (lo stato di dipendenza famigliare) simboleggia il
distacco traumatico dalla famiglia di origine in stretta
relazione al cambio generazionale resosi attuale dalla
disposizione fisiologica a procreare nella giovane donna.
L’attitudine
divina di poter dare
la vita coincide con la maturazione sessuale del corpo della
donna ed è rappresentata dal frutto (la mela)
maturo per essere colto dall’albero; tale evenienza non è
secondaria nell’economia famigliare degli affetti: segna
l’irreparabile rottura dell’unità domestica e rende di
colpo obsoleta la centralità materna. Il dono di natura che
predilige la donna diviene la maggiore sciagura del regno poiché
apre il conflitto di generazione con l’oggettiva detenzione
del potere da parte della matriarca. Il potere affettivo sui
corpi le compete in via esclusiva proprio in virtù del fatto di
avere generato (dio creatore). La figlia ne è ancora ignara ma
è subito in forte difficoltà, subisce l’onta di una ostilità
presentata come colpa e proferita nella maledizione.
Maledetta
sessualità! Ma qual è la ragione di tanto peccato?
Il
simbolismo della mela resta presente nei miti come significante
della bellezza, ma anche della velenosa invidia e della
sessualità femminile.
Il
processo di avvicendamento o di accettazione nella condizione
sociale di adulte per le giovani donne è in ogni tempo arduo e
complesso.
Concepire
l'obbedienza
Sono
riti antropologici del cambiamento del ruolo generazionale tra
figlia e madre (e quindi anche procedure di preparazione alla
fecondità) i cerimoniali di iniziazione al clan femminile come
l’usanza dell’infibulazione: la mutilazione è il prezzo che
il potere sessuale nascente della giovane paga alle detentrici
dell’ordine generazionale costituito, al quale dovrebbe
subentrare; previene e sostituisce la colpa di accedere
all’onnipotenza del ruolo creatore, si tratta pertanto di un
iter di composizione del conflitto tra donne di opposte
generazioni.
Vi
sono riti di esorcismo contro l’aggressività materna come il
bruciare la vecchia dopo l’epifania: in questo caso si intende
favorire l’avvento alla fecondazione nel corpo della figlia
che, nel ciclo biologico delle stagioni, dovrebbe cadere nel
mese di aprile (lo scherzo del pesce
d’aprile cela in realtà l’insospettabile allusione alla
possibilità concreta per la giovane di restare feconda), nove
mesi dopo, infatti, si usa festeggiare la nascita, evento che
oggi collima con le festività natalizie; la sovrapposizione del
significato religioso cristiano al senso pagano non può
cancellare il valore delle consuetudini antiche per cui,
l'esemplificazione liturgica della nascita dei figli veniva a
coincidere con il periodo invernale, quando la donna era libera
dalle incombenze del lavoro nei campi.
È
ancora rito del cambiamento l’uccisione rituale del toro nella
corrida; l’usanza della tauromachia ha lo scopo di evidenziare
come la violenza più temuta possa essere ridotta, con arte
rischiosa e in modo cruento, a omaggio ludico che esorcizza la
paura con l’annientamento del corpo che si presume detenga il
primato della forza. La morte della grande
bestia simboleggia e precede il passaggio dalla vecchia
generazione alla nuova; così è per la modalità quasi
liturgica della mattanza del tonno in Sicilia, ed altri simili
dove l’oggetto totemico viene ritualizzato in un atto di
convergenza della morte nella festa.
Là
dove il ricambio generazionale viene negato si assiste ad una
distorsione del tempo come nella favola La
Bella addormentata. Fermare il tempo per esorcizzare il
cambiamento. Oggi il fantasma di moda è ottenere la
fecondazione in modo artificiale pur di negare
l’avvicendamento, saltando il passaggio attraverso una
relazione eterosessuale matura. Il potere della maternità viene
offerto alla figlia come surrogato della dipendenza e non come
conseguenza della sua emancipazione. Come dire che la monarca
può distruggere il regno per non dare alla figlia il
riconoscimento al diritto di un completo ruolo sessuale.
Tale
pretesa è de-generazione. Sempre il difetto di emancipazione
della figlia ed ogni odiosa ingerenza sul suo corpo come
esproprio della proprietà sessuale hanno origine nel dettato di
chi già detiene, nei fatti, il potere di procreare. Sulla base
di questa proprietà la madre estende la presunzione di dominio
sull’intero gregge dei creati; indice il numero chiuso nella
lista delle donne figlie che possono essere madri, sulla base di
criteri di affiliazione, che escludono la ribelle
nell’emarginazione e la più inconsapevole e credente, nella
clausura; trattiene per sé, in qualità di ostaggio
sull’altare divino, un numero di eletti o chiamati
dal signore, il cui divieto al sesso e la sottomissione, ne
fanno i depositari della sua religione.
Il
controllo delle libertà sociali, tra le quali anche
l’oppressione sociale della donna, hanno come obiettivo la
regolazione economica del processo di individualizzazione e di
autonomia dei figli, e hanno come mandante la propensione al
dominio sul tempo, sulle relazioni e sui corpi ad opera del
soggetto collettivo materno (le
Signore).
Così
il profeta Osea minaccia di infertilità il popolo di Israele,
che egli accusa di essersi allontanato dalla sottomissione al
dio creatore:
Non
più nascite, né gravidanze, né concepimenti!… Dà loro,
Signore, ciò che puoi dargli, dà loro un grembo infecondo e un
seno arido! Il mio Dio li rigetterà perché non gli hanno
obbedito.
(Osea 9, 11-17)
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