Non
finisce ancora di stupire e di ferire l'ostentazione
sadica ed oscena del rito della morte del figlio. È
un rito tutto
cristiano quello della crocifissione e del monito
pedagogico e perverso insito in questo simbolo di morte
che è affisso sui muri perfino nelle scuole e nei
tribunali. Come
potranno mai capire i fautori dell'amore cristiano che
mai l'amore vero ha bisogno di sacrifici umani, in ogni
modo essi siano giustificati? È la guerra che impone le
sue vittime, non certo l'amore!
Quando
poi l'oggetto di tanto malinteso amore sono i figli,
educati attraverso il monito pedagogico della croce,
allora si capisce che tanta perversione è solo il
frutto di un immaturo modo di vivere le relazioni
familiari.
Il
Cristo in croce deve aver spaventato più di una
generazione di bambini se è vero che il genio di un
novelliere italiano, Carlo Lorenzini, noto come Collodi,
negli ultimi anni dell'Ottocento ha voluto, forse
inconsapevolmente, ripercorrere al contrario il calvario
del figlio giungendo a rivendicarne il diritto alla vita
e all'amore del padre: la favola di Pinocchio, non a
caso famosa e tradotta in tutto il mondo, narra di un
burattino nato non dallo spirito santo ma direttamente
dall'amore del padre, plasmato da un pezzo di legno
(proprio sul legno il Cristo aveva trovato la morte),
che arriva a diventare un essere umano consapevole dopo
un percorso di maturazione attraverso avventure e
pericoli.
È
un evento letterario unico nel suo genere il cui
straordinario successo non trova sufficiente motivo nel
contenuto fantastico della fiaba e neppure nella statura
dell'autore (meno noto del suo personaggio), quanto
piuttosto nel portato stesso del racconto, in ciò che
di singolare viene detto, in istintiva allegoria, contro
lo strapotere planetario e matriarcale della chiesa di
Roma: la biografia di Pinocchio è il riscatto del
figlio e del padre dal destino di ritenzione e martirio
deliberato dalla tirannide dello spirito cristiano.
Parallelamente
alla liberazione dei ruoli familiari e nell’implicito
dell’allegoria sociale, Collodi realizza il
canovaccio, in scala per il teatro dei burattini,
dell’epopea virgiliana; se Enea, scampato con il
vecchio padre Anchise al matricidio di Troia, approda
alla fondazione di Roma; Pinocchio è l’Italia stessa
risorgimentale che cerca la ricomposizione
dell’identità nazionale sulla rivalutazione di una
etica pagana, necessariamente in opposizione
all’egemonia politica dello Stato pontificio.
L’unità nazionale culmina appunto con il matricidio
del potere temporale della chiesa. Quanto poi la
necessità di affrancamento dal matriarcato cristiano e
cattolico in particolare sia sentita, estesa (ed, in
verità, non ancora soddisfatta), ben al di là della
contingenza storica del caso Italia, lo dimostra, in
proporzione causale, il successo universale di questo
piccolo racconto.
Prima
di procedere nelle analogie e nei contrari nelle storie
di Gesù e di Pinocchio, è opportuno dare degli
elementi atti a precisare quale sia il ruolo della
figura paterna nella rappresentazione sacra della
religione cristiana. Si tratta di rendere manifesto il
motivo per il quale Collodi, e come lui innumerevoli
altri autori della letteratura di ogni tempo, tende a
dimensionare, per sostituzione, il ruolo materno entro
ambiti opposti e complementari a quelli preponderanti
che la funzione materna di fatto occupa nella realtà, a
partire dal primato fisiologico che gli è proprio:
quello del parto. Tale dominio si configura, nella
proiezione sociale, come vera struttura di potere che
sfugge, nella sua immanenza, all’individuazione della
natura sessuale della forma e degli effetti che la sua
egemonia causa sugli affetti.
Il
potere divino è immateriale ed onnipotente, come
l’influenza che il corpo creante possiede e mantiene
sui creati. È pos-sessualità
della materia, i cui effetti di controllo e di servitù
mantengono il principio dell’incanto sulla fisicità
dei corpi generati fino a che l’enigma non sia svelato
al sapere della coscienza, oltre il misticismo e la
balìa mistificante della suggestione.
La
storia di ciascuno è la vicenda del figlio che diviene
soggetto consapevole attraverso la maturazione nel
processo di differenza dall’identità con la madre e
la sua sostituzione elaborata in identificazione
sessuale nelle relazioni sociali. In questo processo di
adattamento al reale il padre
svolge un ruolo essenziale.
Il
matriarcato della teologia cristiana nega tale divenire
sociale e sessuale. Contrastando la liberazione nel
naturale sviluppo fisio-affettivo, il cammino di
individuazione è una via
crucis della vita intesa come sacrificio fino
all’esito di morte che, solo nell’inganno del credo,
si può pensare come preludio alla redenzione: nella
realtà vissuta, impone e prolunga il legame primario,
contrassegna l’esistenza come alienazione, furto del
tempo e fallimento di ogni autonomia.
Allo
stesso modo la fusione di simbiosi con la materia prima
si rappresenta nella specie del narcisismo sociale sotto
forma aberrante di sudditanza alla merce, feticismo,
affiliazione alla setta aziendale.
Cristo
inciampa nel dispotismo del sangue che rimarca
l’identità con la madre, per restare inchiodato al
limite inelaborato della materia. La vita di Pinocchio
comincia invece, come riscatto della materia viva, dalla
sua resurrezione.