Sergio
Martella; Pinocchio eroe anticristiano. Il codice
della
nascita nei processi di liberazione.
Edizioni
Sapere (049 614205). Padova. 2000. Pag. 210.
Da
dove nasce la propensione a credere? Quale sesso governa la
prassi del possesso? Qual è il vero rapporto tra nascita,
creazione e destino?
La
favola italiana più tradotta all'estero, la storia di
Pinocchio, burattino nato dal padre, ci aiuta a comprendere la
verità profonda che sottende ad ogni processo di emancipazione
umana che porti ad
un esito reale di liberazione nei rapporti sociali.
Nel
mito greco, nelle favole di ogni tempo, nelle moderne mitologie
dei divi del cinema, nei classici della letteratura,
l'emancipazione umana è processo di conquista della proprietà
di se stessi, del proprio ruolo sessuale. La liberazione dalla
schiavitù è il riscatto del debito della nascita, evento
essenziale, dove la mancanza di coscienza nel nuovo nato, il suo
essere oggetto, segna la distanza dall'onnipotenza del creatore
e dall'atto di dolore con cui ci ha partorito. Un debito
inestimabile che il dio cristiano esige pari al valore
dell'intera vita e anche oltre, nelle pretese della teocrazia.
Davvero
l'amore ha bisogno di sacrifici umani?
Pinocchio
giunge a possedere il suo destino perché è testimone diretto
dell'atto della sua creazione. Sapere non è credere.
Nelle
allegorie di Collodi, Pinocchio è portatore di una etica
profondamente laica, che è esplicita, ironica e pacata condanna
del mito della croce. Proprio dal legno nasce il burattino per
dimostrare, ammiccando all'indirizzo del mondo, che il destino
di redenzione è alla portata degli umani. La sua impertinenza
svela che i paradisi promessi del dopo, altro non sono che la
moneta falsa con la quale il pos-sesso (il sesso del potere)
espropria la felicità, l'amore e la libertà nel presente di
ciascuno.
Il
matriarcato nell’ideologia monoteista
Cartella
stampa a cura del Prof. Ivano Spano - Dipartimento di Sociologia
Università di Padova
A
cura delle Edizioni Sapere di Padova è uscito quest’anno un
saggio dal titolo originale: Pinocchio eroe anticristiano. Il
codice della nascita nei processi di liberazione. Autore
Sergio Martella.
L’esplicito
riferimento collodiano nel titolo annuncia l’approccio
inconsueto alla tematica, non facile, della questione del
matriarcato e della civiltà sociale. Il tema è il fondamento
della ricerca antropologica di Engels ed e alla base della
concezione umana del marxismo. Cosa centra Pinocchio?
Innanzitutto l’autore considera il burattino alla stregua di
un Edipo di legno, che deve la costruzione del suo mito
letterario - è l’evento letterario italiano più tradotto di
tutti i tempi - all’intrinseco valore di allegoria
anticristiana celata e scandita dal percorso emancipatorio dalla
materia prima, il legno, verso la vita, per il conseguimento di
una etica della carne, cioè del senso umano dell’individuo,
che si costituisce come ricerca del rispetto nelle relazioni
umane.
La
riuscita di Pinocchio riscatta, clamorosamente, il martirio di
Cristo che trova la morte, anch’egli nel ruolo di figlio, sul
legno della croce. G(ius)eppetto e Giuseppe sono i rispettivi
padri, entrambi falegnami, ma i percorsi pedagogici sono opposti
e inconciliabili: tanto l’uno è essenziale, al punto di
fabbricare da sé il figlio, quanto l’altro è pleonastico e
del tutto privo di proprietà di ruolo sessuale. Pinocchio fonda
dunque l’aporia diretta contro la morale cristiana. Quale
amore ha bisogno del sacrificio umano? E perché il ruolo del
figlio comporta un esborso così esoso del debito di vita? Quale
sesso fonda e impone la regola ineludibile dell’appartenenza
forzata e del pos-sesso da cui (citando Engels) deriva la
proprietà privata? Ogni proprietà privata è un furto
perché l’individuo è privato della proprietà di sé.
La
costruzione delle risposte più coerenti a queste domande
costituiscono la materia di indagine del saggio che proponiamo
all’attenzione di chi voglia sinceramente sondare le intime
connessioni tra il codice della nascita, la mistica del credo e,
invece, la necessità del sapere come liberazione. Il tema
dell’emancipazione dell’individuo e della liberazione
sociale è affrontato e risolto nel suo nesso essenziale: quello
dell’identità femminile e dell’alienazione dalla sua
centralità riproduttiva, da cui origina anche l’alienazione
nella produzione. Nel primo capitolo si delinea l’apporto
della donna nel superamento dello matriarcato primitivo e la
natura ambivalente del processo della sua individuazione.
§§§
(…)
L’emancipazione è funzione della capacità di elaborare: nel
procedere dall’incesto verso la creatività sessuale, si
costruisce ogni vera premessa della facoltà umana in quanto
tale.
La
cronaca della genesi nel mito greco è nota: attribuisce le
origini a Gea, la Terra, divinità che generò da se stessa
Urano (il Cielo), poi le montagne e Ponto (il Mare). Gea si
unisce a Urano creando Titani, Ciclopi, Ecatonchiri. Crono, tra
i Titani, nel più puro precetto dell’incesto matriarcale,
evira il padre (e fratello) e sposa la sorella Rea.
Ciò
accade come se la grande madre delle origini, nel pieno possesso
del figlio-fallo Crono si pensasse al maschile finendo per
attribuire al marito le stimmate di una sessualità al femminile.
Il sangue della ferita, la falla
che per elisione del fallo femminilizza
il sesso di Urano, dà infatti origine alle Erinni che saranno
custodi del diritto matriarcale.
Tale
sarà la loro funzione fino al mito di Oreste che pone fine alla
condizione del dominio dell’incesto primario con l’atto
matricida.
La
realtà d’origine è cronaca dell’incesto e del potere della
ginocrazia materna. Secondo Graves:
L’antica
Europa non aveva dèi. La grande dea era considerata immortale,
immutabile e onnipotente, e il concetto della paternità non era
stato introdotto nel pensiero religioso. Gli uomini temevano la
matriarca, la riverivano e le obbedivano (…).
La
ninfa tribale, pare, si sceglieva ogni anno tra i giovanotti del
suo entourage un amante, il re che sarebbe stato sacrificato
alla fine dell’anno e che diveniva così un simbolo della
fertilità più che uno strumento del piacere della ninfa (…).
Nell’antica
mitologia greca si riflettono soprattutto quei mutevoli rapporti
tra la regina e i suoi amanti, che iniziano con il sacrificio
annuale o biennale del divino paredro e terminano (all’epoca
in cui l’Iliade fu composta e i re si vantarono ‘Siamo
migliori dei nostri padri!’) col tramonto del matriarcato.
Anche
Engels
fa risalire all’età eroica della Grecia il superamento del
matriarcato. Egli si rifà al testo di Johann J. Bachofen del
1891 per ricordare che
…in
una certa fase dello sviluppo di ogni popolo domina una
concezione ‘femminile’ della vita, che nella sfera religiosa
si manifesta come culto della Madre divina, nelle istituzioni
giuridico-sociali come matriarcato.
Engels
è più acuto, nell’esegesi del comportamento umano, dello
stesso Freud nell’individuare nel possesso famigliare sui
figli l’origine della proprietà privata. Ma il percorso
logico dell’evoluzione non è banale:
Bachofen
ha inoltre incondizionatamente ragione, quando afferma
costantemente che il passaggio da quella forma da lui detta «eterismo»
oppure «generazione di palude» alla monogamia, è avvenuto
essenzialmente per opera delle donne.
Con
lo sviluppo delle condizioni economiche e il consolidarsi della
famiglia come luogo di produzione del patrimonio, il diritto
matriarcale e matrilineare della gens
ancora imponeva, in caso di morte, il lascito del patrimonio ai
consanguinei per parte di madre:
I
figli dell’estinto però non appartenevano alla sua gens, ma a
quella della loro madre (…), non potevano ereditare dal padre
poiché essi non appartenevano alla sua gens, e il suo
patrimonio doveva rimanere in questa gens. Alla morte del
possessore di armenti, i suoi armenti sarebbero quindi passati,
anzitutto, ai suoi fratelli e sorelle e ai figli delle sue
sorelle o ai discendenti delle sorelle di sua madre. I figli
suoi però erano diseredati.
Il
clan famigliare della madre di origine manteneva un primato di
diritto sulla famiglia attuale: secondo lo stesso diritto
matriarcale, la donna-madre partecipava più allo statuto di
figlia-di-famiglia che a quello di padrona del patrimonio
procurato dal marito nella propria realtà famigliare attuale.
Così
il calcolo della discendenza in linea femminile e il diritto
ereditario matriarcale furono abrogati e fu introdotta la
discendenza in linea maschile e il diritto ereditario
patriarcale.
Sul
filo della stessa logica Engels concorda con Marx nel constatare
che lo spostamento del baricentro dalla famiglia di origine alla
famiglia attuale segnò anche
…la
sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile.
L’uomo prese nelle mani anche il timone della casa, la donna
fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice
strumento per produrre figli.
Ma
come è possibile affermare che la donna sia stata a un tempo
artefice attiva del cambiamento e fautrice della sua stessa
sconfitta riguardo alla centralità sociale?
Il
miglioramento delle condizioni tecniche, ambientali e produttive
aveva evidentemente spostato il centro di gravità
dell’efficacia sociale dall’appartenenza al clan alla
famiglia più o meno estesa; l’accumulo dei beni e la necessità
di difenderne il possesso, l’inizio di una produzione
tecnologica e gli scambi commerciali attribuivano una centralità
inedita al ruolo maschile. La madre passava da un dominio
diretto sancito e fondato sul primato del sangue ad un potere
affettivo immanente che diventa tutt’uno con l’ambiente
domestico ed il possesso sui corpi dei figli. In questo processo
perde l’identità di soggetto collettivo (la gens) per
assumere un ruolo di potere funzionale oggettivo, più
individualizzato, ma di fatto ancora alienato rispetto al
sociale.
Per
sottrarsi al sequestro di appartenenza esclusiva al clan di
origine, e nell'intento di sfuggire agli effetti di
perpetuazione del dominio primario, la donna è costretta ad
eleggere un sostituto in fase secondaria di questa relazione
nella figura del marito: un oggetto affettivo, il ma-rito,
che essa possiede per scelta e influenza affettiva, ma proprio
per questo motivo anche simulacro del fantasma della stessa
madre, dal momento che su di esso la donna non può che
proiettare la medesima natura della relazione (quella possibile,
di cui è capace, non una ideale) che c'è stata tra lei,
figlia, e la madre.
La
storicità dell'affetto con la madre è per la donna l'unità di
misura obbligata che definisce la qualità del rapporto d'amore
con l'uomo. Il potere sovrabbondante, esclusivo e reclusivo di
questo rapporto ostacola l'emergere dell'individualità
femminile alla soglia del protagonismo civile e ne scinde
insopportabilmente la natura tra influenza fisio-affettiva e
subordinazione sociale. Nel suo divenire soggetto, la donna
sconta una difficoltà oggettiva a differenziarsi dall'identità
omosessuale con la madre, a meno che, a partire da questa
consapevolezza, non intervengano strategie precise a confortare
e sostenere il processo di maturazione.
Alla
donna-madre è sempre toccata la sorte di un difetto di
individuazione: o società-madre
oppure madre-famiglia;
mai madre ed anche donna come soggetto sociale!
Il
potere che compete alla madre è tuttavia fuori discussione e
prescinde dalla forma di individuazione di ruolo formale perché
le deriva direttamente dalla facoltà fisiologica di procreare:
l’imprinting del parto sancisce comunque il potere di
influenza sul destino dei nati e del mondo intero frainteso come
creato. Ciò che è in gioco è il grado di alienazione tra la
rappresentazione di questo potere sul piano divino piuttosto che
su quello consapevole e sociale.
Il
potere d’influenza della sessualità femminile nella società
ellenica non era tuttavia ignoto agli stessi greci. Aristofane
già nel 411 a.C. satireggia Euripide per la sua misoginia e
propone la centralità della questione femminile nelle commedie Lisistrata,
Le Tesmoforiazuse (La
festa delle donne) e le Ecclesiazuse
(Le donne a Parlamento). Non solo Aristofane dimostra che
l’emancipazione sessuale è stata comunque una eventualità
attuale nella cultura greca, ma con intuizione psicologica,
coglie il nesso fondamentale tra sesso e guerra. Comprende il
potere motivante all’aggressività distruttiva, come alla
pace, che il desiderio femminile o la sua negazione provoca
nella fenomenologia del destino, nella forma di eventi della
storia.
Il
potere immanente della donna, della sua sessualità, è il
grande enigma della storia. La scarsa differenziazione
dell’individualità soggettiva femminile è tale da confondere
ogni percezione tra causa ed effetto, tra affetto ed effetto nei
fatti, tra motivo ed emotivo, tra desiderio e godimento, tra chi
è il mandante e chi invece è il motivato nel gioco dialettico
della differenza sessuale che è tutta la commedia umana.
Il
problema che si è imposto nel lungo processo di emancipazione
della donna (di pari passo a quello dell’umanità) è, come si
cercherà di argomentare, la questione di individualizzazione
della donna dai due principali fattori che tendono ad
indifferenziarla in modo strutturale: l’appartenenza di
identità omosessuale al corpo della madre (identità per
origine e per sesso) e l’esproprio del corpo decisionale, che
si attua come controllo, sulla riproduzione sessuale che, a sua
volta, diviene metafora della produzione economica e sociale. Il
problema dell’emancipazione della donna a partire da un più
completo sviluppo dell’individualità personale oltreché
sessuale è ancora oggi la questione risolutiva del processo di
adattamento evolutivo del genere
umano.
Il
primo superamento del matriarcato, avvenuto in Grecia nell’età
eroica, ha indubbiamente posto le condizioni per il fiorire
della civiltà sociale, delle arti, della politica, della
cultura e del commercio, attraverso la pluralità del
protagonismo dei soggetti, in contrapposizione evidente con la
condizione regressiva dell’unicità e dell’indifferenziato
nel privato famigliare. Grazie alla risoluzione
dell’appartenenza primaria nella molteplicità delle relazioni
sociali, lo sviluppo umano ha conosciuto in quella fase una
espansione formidabile della coscienza; un evento straordinario,
unico e irripetibile. Tuttavia sia Engels che Marx sono concordi
nel constatare la mancanza di una pari emancipazione della
dignità femminile nel ruolo pubblico, fino a delineare sulla
condizione della donna il paradigma dello sfruttamento
capitalista.
La
condizione sociale della donna, la sua definizione come entità
fine anche a se stessa (non solo nei termini di un corpo tara e
contenitore capace solo di far figli ed emotivamente di vivere
per e attraverso di essi) è atrofizzata, paragonabile alla
condizione dello schiavo. Al tempo stesso, la sua onnipotenza
affettiva nella funzione di fattrice le conferisce un potere
simile a quello del tiranno: potente ma incapace di
soddisfazione affettiva, quindi privo di equità e giustizia.
Giovenale nelle Satire,
scritte intorno all'anno 100, parla di questa natura femminile:
«Crocifiggi
quello schiavo!» «Che ha fatto di tremendo per meritare un
simile supplizio? Chi l'ha visto? Chi accusa? Ascolta, quando ne
va la vita d'un uomo, nessuna esitazione è mai di troppo!» «Sciocco,
è forse un uomo uno schiavo? E va bene, non ha fatto un bel
nulla. Ma io voglio questa morte, te l'ordino; la mia volontà
ti sia l'unica causale.»
Così
[la
donna] regna sull'uomo.
Oltre
la misoginia fustigatrice di Giovenale, è vero che la donna è
insieme il tiranno e lo schiavo; assomma entrambe le figure, è
lei stessa l'antinomia; vive alienata e scissa in questi due
poli, incapace di possedere una terra di mezzo, cioè
l'estensione sociale di sé come soggetto. La rappresentazione
del potere sessuale della donna rimane dunque intrinseco, non ha
una ragione, anche perché è impresentabile al giudizio
esplicito della coscienza, per il fatto che è implicitamente
crudele. Non è un caso che qui si parli di crocifissione; siamo
ai prodromi dell'avvento cristiano sulla scena del potere. Le
esigenze violente di una natura alienata non possono trovare
ragione nella legge (se non in quella del tiranno sanguinario):
queste inconfessabili istanze si rappresentano come religione,
cioè alla stregua di un volere divino, che solo in quanto
preteso superiore all'umano (in realtà, l'istanza è animale)
esige il sacrificio dell'uomo!
L'ingiustizia
e il discorso rituale del sangue nel massacro denotano le fasi
di regressione al gruppo primordiale. L’ipotesi attuale è che
il matriarcato, non più proponibile nella modalità
matrilineare delle origini, ma piuttosto nella forma del dominio
caratterizzato dall’appartenenza obbligata all'unico corpo
sociale, sia comunque tornato ad essere prevalente modello
storico con il tardo impero di Roma, l’avvento del
cristianesimo, l’enorme regressione della civiltà sociale nel
privato e la forte diminuzione della produzione culturale (in
rapporto all’epoca classica greca e latina) del Medioevo. Fino
a quando, poi, nell’epoca laica dell’espansione
rinascimentale, i prìncipi e i mecenati costituirono di nuovo
un valido contrappunto (sessuale e sociale) al matriarcato
imperante della chiesa.
§§§
La
doppia dislocazione dell’identità femminile, tra esaltazione
del ruolo sessuale creatore (D’io del pos-sesso) ed
effettiva carenza del processo di individuazione personale,
indispensabile nella definizione del soggetto attivo nella
società, definiscono la quantità strutturale di alienazione
nella donna. La centralità della sua funzione ne fa l’origine
e la causa di ogni alienazione sociale. Eppure la prassi-teoria
dell’agire politico nella sinistra ha assunto in questi
decenni, in modo acritico, il paradigma del parricidio come
emblema della lotta contro il potere. La questione matriarcale
che pure ha segnato l’origine della ricerca antropologica
marxiana è rimasta nell’ombra o addirittura è stata
volutamente travisata. E’ sufficiente citare Mitscherlich (Verso
una società senza padre, Feltrinelli 1970) per capire come,
sotto l’influsso di una rivendicazione sessista, si sia di
fatto negato, distorto il senso emancipatorio, rivoluzionario e
liberante che solo il rispetto della differenza sessuale può
generare. L’autore del Pinocchio anticristiano ammonisce:
È
una contraddizione in termini parlare di una società senza
padre… Non può esistere una società senza padre, dal momento
che è il padre che fonda ogni possibilità per i figli di
incontrare il sociale al di fuori del chiuso dell’incesto
matriarcale.
Né
società, né socialismo. Ne consegue un ritardo nell’analisi
e nelle valutazioni macroscopiche nel giudizio della
macropolitica delle nazioni: l’Azienda Madre (e il suo
controllo sulle azioni filiali) o la stessa Madre Patria (con
i correlati operanti del ma-s-sacro, del primato del sangue e
della nascita-nazione) a torto sono state considerate solo
estensioni dell’autoritarismo dei padri, là dove
l’oppressione delinea invece l’affermazione del modello
materno su scala planetaria, sul mondo frainteso come creato.
Ultima
doverosa anticipazione delle tesi dell’autore: il parricidio,
ogni parricidio, a cominciare da quello di Edipo, è motivato
non dal desiderio del figlio di rinunciare ad ogni debutto per
restare nell’incesto con la madre, ma promana dalla stessa
madre, ancora nella doppia dislocazione di Giocasta (donna
alienata) e di Sfinge (anima-le e divina), che anela
alla perenne sostituzione del marito-padre con il figlio
divenuto adulto.
Il
responsabile primo è niente meno dio. Ma è un dio molto umano,
il cui potere è reale, ma la cui efficacia risiede in gran
parte nella potenza suggestiva della cancellazione della
coscienza e del sapere di cui sono esperte le religioni: quella
cristiana in particolare. Il dio domestico è la madre. La
vittima di sempre è anche carnefice-artefice del bene e del
male. Nella misura in cui questa consapevolezza è esclusa dalla
coscienza umana, la psicologia della madre regna incontrastata
quale misura del mondo, come limite, appartenenza ma anche come
minaccia contro ogni pretesa da parte dei figli di emancipazione
reale.
Il
ribaltamento è copernicano, almeno rispetto alle acquisizioni
della divulgazione analitica. Il connubio tra psicoanalisi e
politica prospetta delle innovazioni ancora da scoprire, a
cominciare da quelle considerate di tipo strutturale.
|