LA
TRISTE SAGA DEI NON-NATI
Quante
sono le storie che si tramandano a partire da una premessa che
contraddice il naturale evento della nascita? Sono tantissime.
Nascere senza essere nati. Eludere la strettoia fisiologica del
parto...
Il
figlio di Mary.
Perché
a soli 19 anni, nel 1818, Mary Godwin Wollstonecraft sentì il
bisogno di scrivere la storia di una creatura mostruosa nata,
non dal corpo di una donna, ma dall'oscura alchimia di uno
scienziato, Frankenstein?
Bisogna
ripercorre alcune tappe essenziali tra le note biografiche per
riuscire a comprendere una semplice, sorprendente e angosciante
verità: la storia della creatura deforme nata da un uomo, uno
scienziato, che poi sfugge al controllo del suo stesso
creatore... è l'autobiografia in chiave fantastica e grottesca
della stessa autrice!
"Il
30 agosto 1797 nasce a Londra Mary Godwin Wollstonecraft, unica
figlia di una straordinaria coppia d'intellettuali. Il padre è
William Godwin, scrittore e filosofo utopista, autore di una
nota Inchiesta
sulla giustizia politica e di romanzi dell'area 'gotica'.
La madre, altrettanto celebre, è Mary Wollstonekraft,
letterata, femminista, autrice di un saggio sulla Rivoluzione
francese e un importante testo sui diritti della donna. I due,
per volontà del filosofo libertario, vivono in case separate.
Poco dopo il parto, la madre muore di febbre puerperale. La
piccola Mary rimane con il padre e con la sorellastra Fanny (che
la Wollstonecraft ha avuto nel 1794 dall'americano Gilbert Imlay).
Spesso viene condotta in campagna, dove patisce un gran senso di
abbandono.
Nel
1801, Godwin si risposa con Mary Jane Clairmont, vedova e madre
di due figli: Jane (che si farà chiamare Claire) e Charles.
Dopo poco, dall'unione nasce William. Mary si trova così a
dividere l'infanzia con un nugolo di fratellastri, nell'angusto
(e ormai unificato) alloggio londinese, in penose ristrettezze
economiche. È la prediletta del padre, ma non suscita
altrettanto amore nella matrigna. Nel 1805, Godwin e la moglie
fondano una piccola casa editrice per l'infanzia"... *
*
Nota tratta dall'edizione a cura della Editoriale Opportunity
Book. La Biblioteca Ideale Tascabile. Milano. 1995.
Quale
confusione di nomi tra genitori e figli! L'autrice di
Frankeinstein, Mary, porta il nome della madre, e aggiungerà al
cognome di lei Wollstonecraft quello del padre Godwin e, in
seguito, il cognome del marito, il celebre poeta Percy Bysshe
Shelley. La sua esistenza è segnata sin dalla nascita da una
tragedia che coincide con la morte della madre. Mary è causa
indiretta, ma oggettiva, della morte della madre di cui porta
anche il nome. Il parto è dunque per lei una esperienza già
nelle premesse enigmatica e traumatica. Così sarà anche nella
sua vita familiare costellata di aborti e da lutti (solo un
figlio sopravviverà).
Come
avrebbe potuto accostarsi alla maternità, ed alla capacità di
amare in genere, senza prima avere potuto maturare nel personale
bagaglio evolutivo una esperienza soddisfacente e soddisfatta di
amore filiale? Si chiarisce in questo modo il senso altamente
autobiografico della proiezione in chiave di metafora, quasi
allegorica, della maggiore opera letteraria frutto della sua
creatività. Sono un mostro, non sono nata! Questa
proposizione, che è anche una negazione di sé, sembra animare
l'intera trama dell'opera per cui è universalmente nota: Frankeinstein!
Il
fatto che il frutto del suo seno, il figlio di Mary,
il povero cristo parto della sua angoscia, abbia comunque
trovato un riscontro universale nell'immaginario collettivo
spiega anche quanto sia universalmente esteso il grado di
malessere presente nel disagio della sessualità delle donne in
ogni epoca e in ogni cultura.
Il
cattivo rapporto che frequentemente la donna sviluppa con la
stessa sessualità femminile è origine e causa di tanta parte
della sventura umana. Il destino di fortuna o di sventura, la
trama, l'ordito della storia deriva in proiezione della
percezione che il sesso femminile ha di sé. Lo stesso destino,
trama, ordito... diviene scrittura, evento e storia nella vita
dell'uomo.
Nella
coppia Mary e Percy Shelley la trama del tema femminile,
deforme e distruttiva, coincide con la tragica fine del poeta e
marito. È strano che questa biografia sia rivendicata ed
esaltata dalla tradizione del femminismo mondiale. Di
esemplificativo c'é solo la drammaticità del problema; non la
sua comprensione, né tanto meno una pure possibile via di
soluzione.
Ma
non è stato sempre così. Nella trama della più celebre coppia
di Penelope e Ulisse l'ordito è sempre scritto al
femminile. Tra tela e vela si svolge tutto il
contesto del racconto, ma l'esito della storia è invece
emancipatorio, avventuroso e liberante, fino oltre ogni limite
imposto delle Colonne d'Ercole. La morte giunge dopo una vita
intensa, vittoriosa, ed è vissuta come libertà e libera
scelta; come una rinascita riuscita, in ogni caso fuori e
lontano dal bacino mediterraneo delle terre note. (S.M.)
L'INCAPACITA'
DI AMARE
A.I.
- Intelligenza Artificiale
A.I.
Artificial Intelligence
Usa
2001
Genere:
Drammatico/Fantascienza
Durata: 143'
Regia: Steven
Spielberg
Alla
metà del ventunesimo secolo l'uomo è riuscito a sviluppare un
nuovo tipo di computer in grado di essere consapevole della
propria esistenza. Questi computer vengono anche utilizzati per
creare particolari robot e androidi. Un giovane ragazzo (Haley
Joel Osment) sta per intraprendere uno straordinario viaggio per
scoprire se potrà essere qualcosa più che una macchina.
L'anello
di congiunzione tra l'androide e l'uomo si realizza quando
l'uomo smette di perseguire lo scopo della disumanizzazione come
metafora di un sé perfetto e accetta la sua natura affettiva e
imperfetta. Per - fetto è una forma contratta e coartata
di per affetto; la pericolosa illusione nata dalla
rivoluzione industriale di risolvere la caratteristica di
caducità umana con l'aiuto delle macchine è invece alimentata
da una oggettiva sfiducia nelle relazioni d'amore che insieme
alla memoria e all'intelligenza si contrappongono all'angoscia
dell'oblio. La disumanità, il sadismo insito nell'incompleto
sviluppo di autonomia dell'individuo sono ancora un debito
presente nella nostra civiltà degli affetti, essi segnalano la
falla, l'impotenza, la caduta del soggetto secondo
l'accezione resa universalmente nota dalla tragedia di Nietzsche.
L'autodistruttività nasce dall'accumulo di scorie e di rifiuti
aggressivi accumulati nell'incesto familiare: nella misura in
cui non riusciamo a liberarci dal pos-sesso matriarcale
percepiamo la nostra condizione come uno stato di cattività. La
cattiveria contro sé, gli altri e l'ambiente ne è la più
logica e inevitabile conseguenza che si rappresenta
nell'opposizione, nel rigetto, nella qualità del conflitto e
nella quantità di rifiuti con i quali inconsciamente intendiamo
punire la madre terra, simulacro dell'inconscio materno
colpevole di ingenerosità, sadismo e di abuso del suo potere
sui corpi e sulle menti.
L'immaturità affettiva della madre, del suo sesso, genera
rifiuto affettivo nei figli e processi degenerativi nella
specie. Intelligenza Artificiale è una grandiosa metafora del
cancro! Nella filogenesi e nell'ontogenesi i processi di
degenerazione si rappresentano in fantasie di mutazione
genetica, di mostruosa rinascita (Franco Fornari).
Non
basta inventare una macchina capace di amare al nostro posto. Il
senso di distruttività e di degenerazione correttiva si
accompagna alla sensazione di non-essere-mai-nati. Questa
condizione è percepita dalle persone che si ammalano di tumore
in età giovanile, in una età in cui l'esito tragico della
malattia, tradimento del corpo, è sempre accompagnato da
visibili e riscontrabili deficit nella relazione di
riconoscimento di identità affettiva tra l'identità del
soggetto e il materno.
Spielberg
è consapevole di questa drammaticità del disordine
degenerativo degli affetti: egli stesso si è ammalato di
cancro. Ne ha sperimentato le angosce e le ha rappresentate in
tutta la sua opera. Come non riconoscere le fantasie di
rinascita e di mutazione nei suoi film più noti?
Intelligenza
Artificiale è qualcosa di più. In maniera neppure tanto velata
Spielberg individua nel cristianesimo uno dei più violenti
paradigmi della storia dell'umanità. E' l'apologia del sadismo
affettivo. Il piccolo David, il robot che per definizione
strutturale è condannato ad amare gli umani, resterà duemila
anni a pregare dinanzi alla statua di una fatina-madonna nella
speranza di scioglierne il cuore, nel tentativo disperato di
aprire un barlume di umanità in colei che non sa amare.
L'amore
cristiano trova la sua apoteosi nella sadica scena della
crocifissione: l'uccisione rituale del figlio quale atto
d'amore! Ci può essere perversione peggiore?
A.
I. è una grandiosa citazione della metafora di Pinocchio:
metafora dell’amore e del tempo. L’infelicità che giunge
allo strazio del sentimento è la conseguenza di un immaturo
modo di amare, o di non essere capaci di amare. È una
straordinaria denuncia sui limiti del nostro tempo, di fronte al
bisogno di rilanciare l’utopia di una umanità in grado di
vincere la sfida con le tecnologie in un modo non disumanizzante,
ma finalmente emancipatorio. Una epopea dei Non-nati, di coloro
che soffrono per l’insensata insensibilità degli altri.
(S.M.)
LOS
ANGELES - Il suo sogno Stanley Kubrick l'aveva espresso molto
chiaramente a Steven Spielberg un giorno, nella sua cucina della
villa di St. Albans in Inghilterra: "Una produzione Stanley
Kubrick di un film di Steven Spielberg": non pensi che la
gente vorrà andare a vedere un film del genere?" gli aveva
chiesto, offrendogli la regia dell'idea su cui si stava
arrovellando da anni, A. I., Artificial Intelligence. Il
film Spielberg lo ha fatto: uscirà negli Usa il 29 giugno e sarà
alla Mostra di Venezia a settembre. Non sapremo mai come Kubrick,
morto nel 1999, avrebbe realizzato il film, che è stato
proiettato mercoledì sera a un ristretto gruppo di giornalisti
a Los Angeles. Ma Ian Harlan, cognato del regista scomparso e
produttore esecutivo del film, ci assicura che Kubrick avrebbe
amato ogni inquadratura: "La sceneggiatura che Steven ha
scritto segue la struttura di Stanley" dice il produttore.
"I cambiamenti che ha fatto sono stati un miglioramento e
Stanley sarebbe stato il primo ad applaudirli".
Spielberg ha usato circa 600 delle migliaia di sketch disegnati
per il film nel corso degli anni da Kubrick e dall'illustratore
Chris Baker (nome d'arte: Fangorn) per le immagini virtuali
della "Città Rossa", dove gli umani del futuro vanno
a cercare sesso e divertimento, e della Manhattan sommersa dallo
scioglimento dei ghiacci polari.
Ambientato in un incerto futuro, in cui il mondo è diviso fra mecha
(creature meccaniche, o robot), e orga (organici, o
umani), in cui gli umani trattano i robot come gli schiavi
africani di una volta. Alcuni mecha vengono programmati
addirittura per essere "macchine del sesso" (Jude Law
è uno di questi, un gigolo capace di dare alle donne
"tutto quello che vogliono"). È un mondo in cui le
risorse naturali sono limitate e la tecnologia avanza a passi
astronomici; obesità e malnutrizione sono state abolite ma il
rigido controllo sulla popolazione non permette alle famiglie di
avere figli senza permesso.
In questo mondo il genio dell'intelligenza artificiale William
Hurt sviluppa il prototipo di un robot bambino, il primo capace
di amare. Nasce così, nei laboratori della Cybertronics, David
(Haley Joel Osment), uguale a un bambino in carne e ossa,
programmato per amare la propria "madre". Adottato
"in prova" da un impiegato (Sam Robards) e sua moglie
(Frances O'Connor) che da cinque anni tengono il proprio figlio
ibernato in attesa che la scienza riesca a salvarlo da un
misterioso virus, David vive nell'adorazione per la madre e fa
di tutto per essere amato da lei.
Ma, pur attirando su di sé l'affetto degli altri (fra cui
l'orsacchiotto Teddy, un "supergiocattolo" capace di
pensare), David non potrà competere con il figlio della coppia
quando tornerà a casa guarito. La madre teme che il bambino
robot possa far del male al vero figlio, ma non vuole nemmeno
riconsegnarlo alla Cybertronics che lo distruggerebbe. E decide
così di abbandonarlo. David inizia il viaggio alla ricerca
disperata della Fata Turchina di Pinocchio, che la mamma gli
leggeva a letto, e che, come per il burattino di legno, lo
faccia diventare un bambino "reale" che la mamma possa
amare.
Nel suo vagabondare c'è l'incontro con Joe, le peripezie in una
fiera di paese con macchine futuristiche alla Mad Max in cui
folle impazzite di luddisti si divertono a fare a pezzi i robot
nei modi più atroci, sparandoli con i cannoni o liquefacendoli
con l'acido, il salvataggio in extremis proprio grazie alla
folla che crede che David sia un vero essere umano, il sogno
della Fata Turchina che porta David e Joe prima nella città del
sesso e poi nella sommersa Manhattan, la triste constatazione
per David di essere davvero un robot, l'impossibilità di
ritrovare la mamma...
A. I. è una favola lunga due ore e 25 minuti che uscirà
in America con la classifica PG13 (adatto a un pubblico adulto:
per violenza su robot e accenni alla sessualità). Ed è
"un film di Spielberg": non assomiglia a E. T.
né a Incontri ravvicinati del terzo tipo. Ma è lontano
sia dal Dottor Stranamore che da 2001: Odissea nello
spazio nonostante il tema del computer con ambizioni umane.
Ritroviamo piuttosto gli elementi ricorrenti nel cinema di
Spielberg: la ricerca per il padre assente, la solitudine del
bambino che diventa amico di E. T., la possibilità di sognare
che offre la fantascienza. Dice Spielberg: "È la mia
interpretazione della visione di Stanley. Ma è stato come farmi
estrarre i denti del giudizio. Sentivo sempre alle spalle la sua
presenza, come un fantasma, che mi diceva, 'non così, non così'.
Stanley voleva un film di cassetta e credo avesse scelto me
proprio perché sperava che ne facessi un film
commerciale". Chissà se A. I. esaudirà il sogno di
Kubrick?
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