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Karl Marx

 

“… È chiaro come la luce del sole che l’uomo, con la sua attività, scambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente soprasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare”.

 Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo. Editori Riuniti, Roma, p. 103.

  

IL SUPERUOMO, IL BURATTINO E IL CARDINALE

di Sergio Martella

Dio dette suo figlio per la remissione dei peccati, come vittima… Il sacrificio espiatorio, e proprio nella sua forma più ripugnante e più barbara, il sacrificio dell’innocente per i peccati dei rei!

F. Nietzsche, L'Anticristo, Adelphi, Mi, 2002, p. 54.

 

Nietzsche come Penteo

"Fare di Gesù un eroe!". L’esclamazione di Nietzsche proferita ne L’Anticristo, è in sé l’argomento più convincente di una radicale critica al cristianesimo. Sebbene implicito (non sviluppa la ragione profonda di tanto sdegno) l’epifonema rappresenta tuttavia la sintesi di quel malessere tanto profondo quanto enigmatico che colpisce le menti laiche di fronte all’ambiguità dell’etica cristiana.

Quale è l’elemento patognomonico che delinea, in quanto tale, il paradigma cristiano?

Il martirio del figlio di dio sulla croce!

Il rito del sacrificio umano così esibito è fortemente caratterizzato da due assiomi:

Gesù è il figlio prediletto del Signore; il suo sacrificio è emanazione diretta della stessa volontà divina.

Tale sacrificio, il martirio del figlio sulla croce per determinazione della sacra trinità familiare, è offerto ancora oggi, nei programmi di formazione dei bambini negli asili e nelle scuole, come il più alto grado di amore che il cristiano possa concepire.

L’autorità genitoriale, pretesa divina, ha potere di vita e di morte sul figlio, e, presa dalla sua massima estrinsecazione di amore per l’umanità…, lo uccide!

 

Sconcerta l’abominevole semplicità di questa proposizione che per duemila anni ha tenuto in scacco la coscienza critica dell’occidente.

È questo il vero significato dell’Amore? Quale predilezione di una causa superiore può indurre l’autorità del genitore a destinare, non la propria stessa persona, a patto che una tale necessità sia reale, ma il proprio figlio a una morte esemplare? Quale amore ha bisogno di sacrifici umani? In una realtà che si determina come rappresentazione, è lecito elevare la perversione a modello e finalità del bene?

Si può tollerare che nel terzo millennio di celebrazione della morte del figlio come pasto totemico, nonostante gli illuminanti contributi di una scienza laica ed emancipante in tutti i campi del sapere, regni una subcultura pedagogica a tal punto sadica, egemone, prepotente, incontrastata nella effettiva determinazione della qualità degli affetti familiari, nell’etica delle relazioni sociali? È sufficiente mostrare stupore di fronte ai reiterati fatti di cronaca che testimoniano le conseguenze di una profonda inciviltà degli affetti familiari? Come assolvere gli odierni demagoghi dal terrificante, ma coerente, resoconto della storia dell’agire cristiano: dalle intolleranze delle origini, ai ghetti reclusori, ai più recenti roghi crematori?

 

In totale antitesi alle vere e profonde radici elleniche e latine della civiltà europea, la concezione cosmologica dell’amore cristiano esemplifica nell’esibizione rituale della crocifissione l’atavica volontà di dominio sul ricambio generazionale dei figli, così educati a identificarsi nella sofferenza e nell’ineluttabilità del fallimento.

L’intera concezione della vita si riduce alla prescrizione sadica di un precetto di obbedienza, con il vizio a priori della colpa; mentre l’identificazione del credente si realizza nell’assunzione suggestiva di una posizione masochista, per dirla con Nietzsche, tragica dell’esistenza.

Il filosofo porta una veemente ma inefficace accusa contro l’enigma della religione del figlicidio. Egli stesso è portatore dello stesso male. La cecità della follia assale Nietzsche per non aver saputo comprendere la stretta connessione tra precetti religiosi, filosofici e… affetti familiari. I suoi stessi affetti domestici. Sono questi ultimi la vera causa efficiente di tutta l’architettura logica che sostiene ogni mistica suggestione.

Dall’età di quattro anni Nietzsche è orfano del padre, pastore protestante; cresce attorniato da un mondo femminile che lo determinerà in tutto, senza che mai egli sia riuscito a individuare questa premessa ambientale come oggetto degno della sua analisi. Perseguirà per l’intera esistenza il senso del riscatto dell’uomo alla propria unità interiore, secondo il principium individuationis che egli invidia alla grandezza della cultura greca, senza tuttavia giungere a saldarlo alla propria personale condizione. L’uomo tragicamente incompleto, ricercatore strenuo della ragione del sé, a parziale riparazione della falla dell’io e del suo fallimento nella follia, propone il lirismo del superuomo e l’anticristo come imprecazione. In cambio della caduta del fallo, la sua supervalutazione. Cifra tangibile della castrazione. Segno parallelo di una caduta della maturità civile, fino all’esaltazione dionisiaca del fallo, alla base della retorica dei fascismi.

L’intera etica dell’agire sociale è, per il soggetto, terreno di riscrittura delle interne pulsioni affettive. I rapporti economici sono metafora dell’economia pulsionale. Fino a che punto l’azienda madre controlla e possiede ogni singola azione delle sue filiali? La produzione sociale è la rappresentazione estesa, in proiezione cinematografica , della riproduzione umana. Il metodo della psicoanalisi non è quello della filosofia quando si tratta di dare un senso interpretativo ai linguaggi della vita. Il filosofo vuole a tutti i costi credere alla distinzione netta tra ciascun significante ed il significato. L’analista bada solo al senso o al sensuale che li unisce.

In questa fobica impresa, suo malgrado, Nietzsche resta pur sempre una vittima riottosa degli effetti devastanti del dio cristiano. Riferendosi ancora al rito della morte del figlio cristiano, si chiede:

 

"Ancor oggi la donna si prostra in ginocchio dinanzi a un errore, perché le è stato detto che qualcuno per questo morì in croce. È dunque la croce un argomento?"

 

Fa difetto l’intera indagine sull’enigma del mondo femminile. Il campione degli intellettuali d’Europa non ha i mezzi per capire come dalla mistica del parto derivi l’intera estensione della mistificazione della creazione! Sfugge del tutto la comprensione del senso matriarcale dei monoteismi.

Come Nietzsche, troppi commentatori fanno confusione tra ebraismo e cristianesimo. Il dio del nuovo testamento non deriva nulla dell’ebraismo, se non il ripristino del sacrificio del figlio, che lì era per sempre superato col patto di legame della circoncisione. Quella degli Ebrei, pur sempre matrilineare, è la religione della delega di dio al padre sotto forma di potere di legiferare. L’insegnamento della Torah è la dottrina dei padri.

Il cristianesimo reintroduce sia la morte del figlio, sia il totale pleonasmo del padre, riportando la civiltà dell’etica alla cecità sanguinaria del mondo matriarcale delle origini. Come se l’enigma della caverna, utero della storia, non fosse stato già risolto dalla visione geniale di Platone e dalla prassi epica di Ulisse contro il ciclope. Fino alla definitiva sentenza di Elettra ed Oreste contro la Madre.

Prima di allora, nei riti dionisiaci delle Menadi, espressione estesa dell’antico matriarcato, torme femminili sanguinarie sbranavano capri espiatori maschili, di preferenza da loro stesse partoriti. Agave, insieme alle altre Baccanti, fa sc-empio e mas-sacro del figlio Penteo.

 

"Nel tuo nome è già scritta la tua infelicità"

 

Così Dioniso incalza Penteo che, come Nietzsche, contrasta la furia del dio, per la qual cosa avrà presto occasione di pentirsi. Nelle celebrazioni orgiastiche le donne usavano esprimere l’intera portata della loro aggressività istintuale. Più di Nietzsche, Penteo è consapevole di dover trattare contro l’estrinsecazione di una potenza di natura sessuale, non meramente della sua trasfigurazione in religione, copertura apologetica attribuita al volere divino. Il trapasso dal contegno della ragione alla efferatezza animale è segnato dall’ebbrezza del di-vino; l’orgasmo psicotropo dell’alcol esalta la natura sociale dell’orgasmo femminile. La sua forza di seduzione e di dipendenza, ma al tempo stesso esigente di eventi sanguinari. Cose ordinarie, di violenza e di droga.

Il mistero del sangue e del vino, oppio della ragione, è indissolubilmente legato alla esecuzione del sacrificio umano. Il sacrificio cruento del figlio è un evento necessario. Le Baccanti sono la fonte orgiastica della teologia protocristiana.

Euripide, già nel quarto secolo prima di Cristo, comprende e denuncia, nel broadcasting della scena teatrale, la feroce connessione tra sessualità femminile e la licantropia della manifestazione divina. In ogni tempo, i miti della Grande Madre, le celebrazioni della sessualità dei cicli femminili, dalla madre-terra alla figlia-luna, ispirano e presiedono ai riti del mas-Sacro. Sangue, sessualità e follia hanno rappresentato da sempre lo sconcerto e il mistero della fisiologia della riproduzione. La ricaduta nei termini sociali della corporeità ignota non può che essere vissuta nell’ordine del magico e del divino. La violenza ne è purtroppo un correlato. Anche oggi nelle famiglie di mafia, sotto il contrassegno suggestivo del mammasantissima, si ripete l’antico rituale dei fatti di sangue; fatti dolorosi delle nostre-cose. Va in scena Cosanostra, saga di mammafia.

 

Dietro la suggestione del debito del sangue e del trauma del parto, la cupola del credo troppo spesso prescrive, per voluttà divina, atti e precetti che, con altra evidenza, sarebbero abominevoli e disumani agli occhi della ragione. Sia che si tratti di uccidere i figli partoriti o dell’abitudine inveterata, attuale, dell’uccisione del maschile nel ruolo di padre, la sacralità materna (ma-sacro) è ciò che motiva, nel nome di dio, ogni atto sanguinario. A prescindere chi ne sia il corpo esecutore.

Perfino Edipo è radicalmente alieno da ogni sua personale intenzione di uccidere il padre: è il solito destino, nella doppia accezione di Giocasta e della sua proiezione divina, la Sfinge madre, che muove all’incesto, dopo la morte del padre. Il vettore della motivazione non può che procedere nel verso generazionale. Nessun figlio adulto agognerebbe di sposare la madre. Così come nel bambino il sorgere di ogni affetto non può che essere il riflesso del naturale plagio della madre.

Risolto l’enigma. Soma, anima e animale, la Sfinge si ricompone nella madre; sposa il figlio adulto e uccide il marito padre.

Governa su entrambi i sessi e controlla il cambio di generazione. Il primato del parto, che le compete, si muta in epica della creazione, come dominio sul tempo generazionale e affezione sul destino. Si riappropria, attraverso la trasmissione e attribuzione di colpa, del ruolo sessuale dei figli; a patto di escludere a priori ogni competenza genetica del padre. Il potere della Grande Madre è la ginecocrazia delle religioni. Logos dell’incesto e di de-generazioni.

 

È sotto la direzione del primato matriarcale di Gea, che Crono mette in atto l’evirazione di Urano, suo fratello e padre. Dal sangue che ne sgorga hanno origine le Erinni, custodi, non a caso, del diritto matriarcale. È per volontà di Rea che Zeus spodesta, a sua volta, il padre. Ciò nonostante, nella grandezza della rappresentazione della realtà greca, il potere del matriarcato viene individuato e risolto a partire dall’espediente della nuova alleanza del patto tra fratelli, contro il potere generazionale familiare. Ne sono testimonianza, secondo Graves, una quantità ragguardevole di miti ed imprese eroiche: dallo stupro del Cavallo di Troia nelle mura di cinta della città, ai miti di Bellerofonte che doma Pegaso alato e uccide la Chimera; alla variante di Perseo che decapita la madre di Pegaso, la Gorgone Medusa; Apollo che uccide il Pitone a Delfi; fino al matricidio palese di Elettra ed Oreste, l’assoluzione di fronte al tribunale presieduto da Atena, la definitiva sconfitta delle Erinni che sostenevano l’accusa; la definizione del nuovo ordine simbolico nell’Olimpo degli dei. Mutazioni di tale portata nell'immaginario delle rappresentazioni umane corrispondono alla nascita della civiltà della polis greca. Leslie Fiedler sottolinea l'aporia tra civiltà e l'istinto sanguinario del matriarcato:

Non ho bisogno di ricordare il testo aristotelico che ha dato luogo alla definizione dell'uomo. L'uomo è un animale politico; fuori dalla polis è una bestia o un Dio.

(...)

Non c'è alternativa: quando fuggiamo dalla città ci ritroviamo nel Cithaeron, cioè a dire in un mondo senza ordine o tradizione, senza legge né distinzione: il mondo dioni­siaco, che è possibile esaltare come liberazione alla Nietzsche, come fonte di fertilità e poesia (cosa che in effetti è), un luogo dove la follia ha finalmente una funzione santificata. Ma, come ha confessato Euripide, è anche il mondo dell'estasi dal quale ci si risveglia, inevitabilmente e necessariamente, nel terrore: la Madre che scopre che la testa insanguinata tra le sue mani non è di un qualche animale sacrificale bensì del Figlio il quale, rifiutando di santificare la follia in nome dell'umano, diventa al tempo stesso bestia e Dio, pur rimanendo in qualche modo un mortale destinato alla sofferenza e all'annullamento.

(L. Fiedler, La tirannia del normale, Donzelli, RM, 1998, p. 12.)

Il racconto ebraico aveva ugualmente decretato la definizione di quale fosse la migliore delle madri: colei che nel superiore interesse del figlio, è disposta al distacco e all’oblio del proprio ruolo. Altro che pos-sesso, ossia sesso di incesto, usufrutto sui nati e appropriazione perenne della loro vita! La sentenza di Salomone ribadisce che il ruolo della legge, cioè dell’interesse sociale, è superiore all’egoismo di possesso della madre. Il ruolo paterno, ove sia presente, libera i figli dal debito di sangue che si presume contratto con il parto. Lo tramuta nel principio della legge.

Il cristianesimo, la più iconografica delle religioni, esclude a priori ogni rappresentazione del ruolo sessuato del padre (che è nei cieli…). Il racconto della saga cristiana sancisce l’assenza nella scena parentale del ruolo paterno, già nella premessa dell’immacolata fecondazione. L’unicità triadrica dello spirito santo assomma sulla funzione materna tutto il potere (suggestivo perché invisibile, Innominato e innominabile) dell’invadenza nella determinazione degli affetti, delle affezioni e del destino. Nega ogni autonomia. Riduce la solarità della piazza, l’agorà, civiltà dell’incontro e dello scambio, nel privato medioevale della chiesa. Subordina all’ombra la ragione, dietro l’unico occhio del rosone nella facciata. Reintroduce il primato del sangue su quello della legge. Esalta la sofferenza e l’espiazione, contro il desiderio. La carità concessa, in opposizione al diritto. L’appartenenza obbligata, contro ogni libera associazione. L’unicità (di nazione, razza, sangue, religione…), contro l’etica della differenza senza riduzioni.

 

Nietzsche è europeo nella misura in cui, al pari di Amleto, si sente votato al titanico destino di smascherare il segreto dell’uccisione del padre, la sua nefanda ricaduta come fallimento sull’intera scena nella tragedia. Ma c’è ancora del marcio in Europa. Rimane tuttora proibito alla coscienza dell’intellettuale dell’occidente prendere atto della responsabilità del sesso materno nell’esigenza spi-rituale del martirio. Si confonde la tragedia, accadimento del fato, con il delitto perseguito da una volontà perversa, che era invece ben visibile agli antichi:

 

Donne, l’uomo è caduto nella rete.

Andrà dalle Baccanti a scontare la sua condanna con la morte.

Dioniso, ora tutto è nelle tue mani. Non sei lontano, lo so.

Dobbiamo punirlo! Prima di tutto, fallo impazzire,

insinua nella sua mente il morbo sottile della follia…

 

L’epilogo di Nietzsche è la sua follia.

Nietzsche come Penteo, vittima del furore delle Menadi; smembrato, anziché nel corpo, nella psiche. Vittime entrambi, nonostante l’istintivo furore contro la religione, della manifestazione dionisiaca della sessualità materna. Poveri cristi loro malgrado. Agave, come Maria, nel suo lamento sul corpo del figlio ucciso dalla sua stessa animalità divina, ricompone le membra straziate di Penteo. Il testo è nel Cristus Patiens, in appendice nell’edizione citata delle Baccanti:

 

Chi è questo morto che stringo tra le mani?

Come potrò, infelice, cullarlo dolcemente

sul mio seno? In che modo ti piangerò, figlio,

come abbracciare tutte le tue membra sparse?

 

Allo stesso modo, nella scena della deposizione, la mater dolorosa esprime l’ambiguità del suo godimento nel ricomporre i resti nella Sindone placenta, dalla quale il figlio più che trentenne non si è mai evoluto. Davvero, non c’è di che vantarsi di tanta devozione!

Se non una oggettiva complicità, o l’adesione alle folte schiere della mala fede, quali cautele possono evitare, in coloro che siano avvezzi ad agire in coscienza di civiltà, la condanna di una prassi così efferata? Il cristianesimo è l’apologia della crudeltà degli affetti domestici nella loro forma meno consapevole ed umana. Per la specie umana un tema da appianare per evitare il ridestarsi del ciclo tragico dell’autodistruzione.

 

Perché Pinocchio è una metafora anticristiana

 

 

"… E’ chiaro come la luce del sole che l’uomo, con la sua attività, scambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente soprasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare".

Karl Marx

 

Marx, nel riferirsi alle relazioni umane mediate dal valore di scambio dalla merce, si rivela un inopinato Geppetto. Un tavolo di legno, nel momento in cui assume un certo valore nell’interscambio umano, si mette a ballare, a far le piroette e… dalla sua testa di legno sgomitola grilli mirabili.

Ma questo è Pinocchio! Nell’accezione di Collodi: un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali.

Inutile cercare una connessione causale tra gli scritti del filosofo materialista e Carlo Lorenzini. La successione bibliografica dei rispettivi capolavori sembrerebbe smentire ogni parallelo. La prima edizione in italiano del Libro I del Capitale è del 1886, la traduzione francese risale al 1875 (la stesura originale è del 1866). Le avventure di Pinocchio sono riunite in volume già nel 1883, dopo l’edizione a puntate degli anni precedenti, iniziata anch’essa nel 1875.

Ilozoismo è l’atteggiamento tipico, derivato dalla filosofia ionica e stoica, incline a considerare il principio della vita come intrinseco alla materia. Ilo, dal greco hýlē, ha il significato di selva, albero, legno e anche materia. Dalla materia inanimata, all’animalità del soma, alla liberazione della coscienza. Quale è il senso materialista a cui allude questa immanenza della vita?

La madre non è dio. Non è lei che dona la vita. La donna stessa è stata creata, soggetta alle medesime leggi naturali a cui sottostanno le creature da lei partorite. L’attribuzione di divinità non spetta neppure all’astrattezza della funzione materna, dato che nulla può senza l’apporto genetico e funzionale del sesso maschile.

Tralasciamo gli studi di Marx ed Engels sul superamento storico dell’ordinamento matriarcale nell’antica Grecia. Una sorta di ilozoismo materialista presiede e ispira anche l’inventiva di Collodi. Quel pezzo di legno che si anima di un carattere proprio, di uno spirito libero, di pari passo all’affaccendarsi amorevole di un padre falegname, narra comunque di una creazione che si realizza in evidente autonomia dalle competenze sessuali del corpo femminile. Ilo, è la vita nella materia del legno. È simbolo del fallo maschile. Al tempo stesso è valore e frutto della mano d’opera. Misura del lavoro nella determinazione del valore. Il legno è al tempo stesso onanismo e civiltà dell’ideazione. Segno tangibile del fare maschile e paterno.

Il Cavallo di Troia era di legno; lo stratagemma di Ulisse fecondò le mura di cinta della città di Ilio con i suoi guerrieri.

Ma anche la croce sulla quale si consuma il figlicidio cristiano è di legno! Il figlio è trafitto e beffato sul simbolo del padre. Umile falegname.

Erodoto affermava che in tempo di guerra i padri seppelliscono i figli, mentre in tempo di pace i figli seppelliscono i padri. Figlicidio e parricidio rappresentano quindi diverse modalità dell’antico dominio matriarcale.

Nella commedia umana moderna un altro pezzo di legno si propone, con largo successo nella letteratura mondiale, come novello Cavallo di Troia capace di scardinare, con l’arma sottile dell’allegoria, il retaggio dionisiaco posto in essere dalla Menade cristiana, Vergine, Maddalena o Addolorata che sia.

Un fantasma straordinario alimenta il significato universale di questa storia. Si tratta, come vedremo, del riscatto della ragione, della restituzione dell’amore paterno al suo rango morale, in opposizione esplicita alle pretese del sacrificio umano, del parricidio e alla teologia della tragedia.

Il fantasma del padre si aggira per l’Europa. Il significato profondo del prodigio non è del tutto compreso da Amleto, né da Nietzsche; è invece felicemente svolto ed interpretato nella storia del figlio del falegname Geppetto, il burattino Pinocchio.

 

In una fase di consapevolezza della cultura internazionale che riscopre Pinocchio quale cittadino esemplare del terzo millennio, si moltiplicano le prese di posizione a favore di una revisione del significato storico e culturale della più nota opera di Collodi.

La Fondazione Collodi di Pescia raccoglie e cataloga ogni anno nuove pubblicazioni che riguardano questa straordinaria storia della letteratura mondiale. La questione del successo di Collodi, di questa sua unica opera, non di altre, è ancora presentata come un inestricabile enigma. Oppure, nell’avvalorare le interpretazioni, si attua la stessa cautela che si riserva ai bambini quando, per un malinteso senso di salvaguardia del diritto alla fantasia, si insiste nella pretesa di farli credere, a tutti i costi, nell’esistenza vera di Babbo Natale; senza considerare quanto sia diseducativo indurre nelle menti in formazione la confusione tra il simbolico ed il reale; come se il gioco, la fantasia e il desiderio creativo venissero meno qualora non fossero imposti come atto di fede!

Il desiderio non è falsità e non è imbroglio. La menzogna consapevole ed il falso costruito sono ancora proposti come valori morali nella tradizione pedagogica italiana, che risente in modo acritico dalla influenza cattolica. Nel film La vita è bella di Benigni risalta questa apologia dell’inganno sull’evidenza percettiva del bambino. A fin di bene, si dice. Ma l’infanzia è forse il luogo dell’inganno? Perché mai la percezione dei minori dovrebbe essere distorta o negata? Non si rischia di farne così dei minorati del senso, scambiando il se dell’ipotesi con un falso della coscienza? Non sono forse gli adulti, cresciuti a loro volta in una sorta di dispercezione della realtà fisiologica, sessuale e affettiva a proiettare sui bambini, sotto forma di inutili cautele, la loro ansia di elusione dei rapporti?

Lungi dall’essere pura falsità, le favole sono invece un distillato di verità. Pura trovata, invenzione nel senso etimologico, dell’inconscio che si fa racconto. Mai nelle favole è risparmiato al bambino il risvolto cruento delle storie, in virtù del fatto che nella narrazione è netta, ben dichiarata, la distinzione tra realtà e fantasia. Non c’è brutalità del simbolico che non sia già presente nei sogni. Ma il rappresentare è altra cosa dal credo del reale. La verità, è comunque presente, trasmissibile, in entrambe le dimensioni della percezione comunicativa.

Nel parlare ai bambini non di cose serie, ma di cose fantasticate, si elude ogni censura della logica del dicibile e del corretto; in questo modo si fonda anche l’unico luogo vicino alla trasparenza della verità; analogamente a ciò che accade nei sogni, nei miti dell’antichità e negli atti mancati.

Scaturite dalla fantasia popolare, meglio ancora, dalla mente riparatrice delle madri nell’atto di raccontare se stesse e il mondo ai loro piccoli interlocutori, i figli, le favole sono poi state codificate in forma letteraria per opera di autori, per lo più penne maschili. Nulla tuttavia hanno perso del senso lenitivo, emancipatorio, riparatore che le aveva motivate. Pena ovviamente la loro emarginazione nell’anonimato della grande storia.

 

Per quanto riguarda la storia di Pinocchio, è proprio necessario ammettere che grande, clamorosa deve essere stata, ed è tuttora, la portata simbolica e riparatrice del senso da cui è animata. L’evidenza dice che si ha a che fare con un percorso dalla materia alla vita. Dal ciocco di legno alla carne. Si tratta indubbiamente di creazione. Ma di quale creazione? Perché proviene dalla determinazione di un padre falegname? Perché eludere la strettoia fisiologica del parto e, innanzitutto, perché fare il verso, tra similitudini e opposizioni, alla storia di Gesù Cristo nella saga domestica cristiana?

 

Il riferimento all’universalità del codice del parto di Maria è tanto evidente, da essere rilevata nelle barzellette dell’umorismo popolare, quanto dalla più colta esegesi letteraria che dall’inizio si è appassionata a questo tema. I padri falegnami Giuseppe e Giuseppetto; la voce della coscienza e del Grillo Parlante; i due ladroni, il Gatto e la Volpe; il Campo dei Miracoli e l’Orto degli Ulivi; gli zecchini d’oro e i trenta denari; il tradimento e l’inganno… Si profila nella piccola storia di un burattino di legno, scaturito dall’amore paterno, l’identikit di una sorta di alter ego, una citazione birichina, irriverente, della evangelica rappresentazione del figlio cristiano. È facile individuare, a prima vista, gli elementi macroscopici che rendono innegabile e pertinente il confronto; in breve e limitata rassegna ecco alcuni elementi di similitudine e di contrapposizione:

 

Gesù nasce al di fuori del parto, per eventi non conciliabili con la fisiologia umana, e termina tristemente la sua esistenza umana ucciso su una croce di legno.

Pinocchio nasce da un ceppo di legno; la sua esistenza lo porta a ripercorrere le tappe dalla materia alla carne. Non c’è pretesa di resurrezione, ma nascita, nel senso progressivo di conquista del diritto alla dignità e alla vita.

 

G. è opera di una entità astratta che dirige e controlla la sessualità della giovane Maria, esclude ogni competenza sessuale, previene e rende pleonastica la presenza del sesso maschile nel ruolo di padre.

P. nasce per volere e per amore del solo padre. La zuffa mimata tra Geppetto e Mastro Ciliegia ne è il fecondo preludio.

 

G. non è voluto consapevolmente dalla madre, testimone passiva, ignara del suo stesso grembo; la sua esistenza prescinde da ogni libera decisione dei genitori. Figlio solo adottivo di un vecchio padre falegname, al quale non spetta competenza alcuna né genetica, né morale, né sessuale.

P. è progettato. Desiderato. Innanzitutto dal padre che ne fa il suo fallo ideale, forgiandone il carattere e il destino con gli strumenti del suo mestiere di artigiano. L’appellativo è Geppetto, per sottrazione del fonema ius dal dimunutivo Giuseppetto.

 

G. non può che avere un rapporto parziale e viziato con la madre. Come primogenito, oggettivamente subito, incontra un destino da povero cristo nel corso della sua esistenza. Un essere da sacrificare, non solo per la tradizione biblica, ma perché non ha origini certe dalle quali si possa, a sua volta, riscattare verso un esito umano di affetti normali e di riproduzione. Nascere nella stalla non è atto di umiltà; quanto, verosimilmente, di intrinseco rifiuto: di simili rifiuti, abortiti nei cassonetti, sono piene le cronache di attualità.

P. persegue la salvezza per sé e per i suoi stessi genitori, dei quali, solo il padre è certo a priori. La madre si profila in questo ruolo nel corso della storia: da "bella Bambina dai capelli turchini…abbandonata del suo fratellino Pinocchio" al ruolo di mamma a tutti gli effetti e oggettiva compagna di un Geppetto ringiovanito. Il lieto fine contrasta polemicamente con ogni sacra apologia del massacro.

 

G. è espressione di un affettività familiare improntata al sadismo degli adulti, al masochismo di identificazione dei figli e alla tragedia della scena. L’obbedienza del figlio e il rispetto al genitore è pretesa condizione a priori, che prescinde dal principio di reciprocità con l’adulto.

P. rivendica, pur nell’esordio sociale contrastato, il diritto alla felicità e al rispetto umano. L’amore per il genitore è un sentimento continuo, atto riflesso, inevitabile e inattaccabile nella percezione di un figlio che si è sentito amato. L’amore è, innanzitutto, il riflesso di una pari e oblativa premessa nell’affetto del padre.

 

La coscienza dello spirito santo guida, espressione della trinità familiare, con-fusa nell’auspicio della vecchia madre, esprime la più feroce condanna al sacrificio umano del figlio sulla croce, per virtù di obbedienza ad esemplificazione di un perverso amore universale.

Il Grillo Parlante in Pinocchio è descritto nell’atto di fare le veci della stessa coscienza; nel mettere le cose in chiaro, finisce spiaccicato su una parete di casa già agli esordi della vicenda.

 

Nella saga del racconto cristiano, l’Orto degli Ulivi è connesso al tradimento ordito da Giuda. Il compenso del misfatto è di trenta denari.

Il Campo dei Miracoli segna l’amara esperienza di passione per il burattino, tradito dai suoi compagni e derubato degli zecchini d’oro.

 

Sul Golgota, G. è affiancato dalla emblematica presenza dei due ladroni. Uno dei quali, Barabba, viene graziato dalla folla. L’eroe innocente è invece, in quanto tale, destinato alla pena capitale.

P. ha a che fare con l’ambiguità ladronesca del Gatto e della Volpe. In virtù del fatto di essere lui il derubato, è logicamente incarcerato nel paese di Acchiappacitrulli. Almeno, fintanto che l’amnistia non lo parifichi ai veri malandrini, di fronte ad una evangelica equità della legge penale.Collodi sottolinea, con impareggiabile ironia, quanto sia illogica una morale che impone per tutti una colpa originale e che destina l’innocenza ad essere una eccezione da perseguire come atto di presunzione.

 

Il prodotto italiano oggettivamente più noto all’umanità, il cristianesimo cattolico, il paradigma del sacrificio a cui è predestinato il figlio, trova così, per pari estensione, la sua antimateria. È innegabile il parallelismo tra i due soggetti. L’oggettività inspiegabile del successo della piccola favola è invece il segno clamoroso della soggettività del suo messaggio di critica al paradigma cristiano. Da parte di studiosi cattolici si è ammessa la rilevanza simbolica del parallelismo, ma si nega il senso della critica anticristiana; l’intenzione dell’autore sarebbe quella di sottolineare l’importanza del messaggio evangelico. Non sono pochi coloro che sorvolerebbero volentieri sull’approfondimento di tali considerazioni.

 

Di pari passo procede l’opera per sminuire la laicità del senso letterario. Il tentativo di ridurre il tutto alla pratica della menzogna di un bambino cattivo che nasce in debito di una sonora rieducazione. La reazione delle menti disturbate dal potenziale di verità critica di Pinocchio assumono il punto di vista del Grillo Parlante, la sua morale vagamente minacciosa. Il contrario insomma dell’identificazione proposta dall’autore e condivisa dai bambini di tutto il mondo.

 

Alex, il protagonista di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick (la sua maschera con il lungo naso..!) è, in fondo, il personaggio più simpatico della sua storia. Il vero malvagio, prototipo del figlio delinquente, tuttavia ci regala la sorpresa di scoprire che non esistono solo i giovani violenti, ma prima e più ancora di loro esistono inconsapevoli e tracotanti cattivi educatori; coloro che credono e agiscono secondo principi sbagliati, ma che con perversione vedono e pretendono di correggere proiettivamente solo gli effetti nei fatti commessi da ciò che loro stessi hanno prodotto. I fautori e adoratori della colpa a priori.

 

Non si può pensare a Pinocchio come a un soggetto diabolico. L’unica violenza espressa con intenzionalità offensiva è quella rivolta contro il Grillo Parlante, ancora nelle fasi iniziali della sua vicenda. La voce della coscienza, di cui era oracolo l’insetto, aveva appena finito di proferire la fatidica minaccia che da duemila anni viene rivolta sulla testa di ogni nato battezzato: stai attento, se non ubbidisci ai tuoi genitori farai una brutta fine! Qui la nemesi della materia, secondo Collodi-Pinocchio, attua la prima azione riparatrice: il legno della croce diviene martello di legno che inchioda, spiaccica e dissolve il soggetto stesso del malaugurio. L’esito di martirio cristiano è reso vano da un preventivo e legittimo atto di difesa ribaltato contro il rappresentante della genitorialità divina.

A questo punto, ogni credente potrà cogliere l’emergere di un senso eretico e blasfemo. Ciò che invece la realtà afferma, nella forma palese del successo del racconto, è che in ogni epoca va riconosciuto ai figli il diritto all’emancipazione dalla disparità di potere che il pos-sesso genitoriale esercita su di loro, oltre ogni ruolo educativo, con la violenza di una cattura suggestiva che da autorità di genitori si tramuta, anche in età adulta, in sottomissione al trascendentale. Lo spirito santo, nella sua forma triadica familiare, non è solo l’entità che decreta il sacrificio e il martirio come passaggio obbligato del figlio maschio alla sua improbabile liberazione-ressurrezione, oltre la soglia di salute dei 33 anni, nella fase che dovrebbe rappresentare l’età matura. È anche ciò che scinde e colpevolizza la giovane figlia nelle due Marie: Maria Maddalena, dolosa e alienata nella disposizione sessuale di meretrice; Maria Vergine, madre dolente e reclusa nell’unione mistica con la propria madre. Sotto la fusione del burka, il velo monacale, non c’è differenza della figlia dalla madre che non sia la divisa dell’uniforme nell’indifferenziato. È azzerata ogni attrattiva che favorisca il potere di attraenza della giovane, rimarcando il totale vantaggio del pre-potere dell’anziana. Il grado di alienazione sociale della donna in un sistema dato è proporzione esatta della teocrazia vigente nel sistema. Per lo stesso principio della autorità di influenza affettiva sulle cose del mondo, lo spirito santo teocratico è anche il dio degli eserciti, della violenza e della guerra nel mondo maschile.

 

Questa la morale cristiana; tutta incentrata sulla dittatura del materno-divino della grande madre, nel senso junghiano. È il potere dell’ombra:

 

[…] malattia, fame e bisogno, ma innanzitutto la guerra sono i suoi alleati.

 

Lo spirito santo cristiano si impone come controllo assoluto sull’autonomo sviluppo della nuova generazione. Con identico criterio della prepotenza dell’Innominato di manzoniana evocazione contro la promessa sposa, commina la sentenza dello ius primae noctis sulla giovane figlia: il potenziale di autonomia che potrebbe derivare dal matrimonio è pur sempre un vantaggio da prevenire e castigare. Ciascuna figlia, sia pure Eva o Maria, in quanto donna, avrebbe in sé un potenziale di vita così alto da surclassare quello della stessa madre: la possibilità concreta, e soprattutto attuale, di attrarre, procreare a sua volta e di regnare in quel dominio degli affetti sui figli e sul maschile che è l’interezza del mondo reale. Controllare il sesso della figlia, equivale dunque a gestire l’intero ciclo della riproduzione umana. Da qui la maledizione teocratica che coglie la donna nell’istante in cui matura il rigoglio completo del suo sesso, origine di ogni peccato. Ma di gran lunga peggiore della già onerosa maledizione biblica è il controllo sadico, il perverso spossessamento della morale cristiana sulla donna ad opera dello spirito santo, alter ego della vecchia madre.

 

Ben diversa è la morale delle favole, sebbene tratti la medesima materia di oppressione. L’attimo in cui la bimba diviene donna, l’avvento del menarca, è reso con la goccia di sangue sul dito che condanna la Bella Addormentata a rinviare il suo debutto sulla scena sessuale di appena cento anni, fino al bacio prodigioso dell’amante. Che comunque avviene! Streghe e fate complottano per procrastinare il ricambio di generazione; ma, a differenza della morale prescrittiva, tuttora egemone del cristianesimo dell’urbe post latina, l’esito è felice.

Quello della nonna, della vecchia strega o della matrigna che con sortilegi e veleni si oppone alla realizzazione affettiva della giovane eroina, è un tema affatto diffuso nella letteratura delle fiabe. La sua uccisione cruenta, il matricidio fantasticato, resta allora il passaggio obbligato, almeno nella fantasia tramandata all’inconscio dei bambini, perché la giovane donna possa coronare il destino dell’incontro con l’amante e del personale ruolo di novella madre.

 

Negando a sua volta la strettoia fisiologica del parto e attribuendo la funzione genitoriale unicamente al padre, Collodi denuncia clamorosamente la violenza dell’esproprio del ruolo sessuale nel quale si realizza il parto della giovane madre, secondo il dettato matriarcale della grande-madre-chiesa. Egli contrasta la supremazia sequestrante dello spirito santo, in quanto potere generante costituitosi in dominio generazionale. Demolisce la pretesa di estendere il primato del parto, dal quale deriva lo smisurato ascendente di influenza sui nati, al principio monoteista e assoluto della creazione. Nell’attribuire il codice della creazione al falegname Geppetto, l’autore recrimina sul fatto che fraintendere il parto con la creazione è indebito, deleterio, nella stessa proporzione in cui si proclama divino.

Sembra di sentire il patriota toscano, in taverna con gli amici irredentisti, infervorato contro la perniciosa influenza dei preti e del papa nel processo di unificazione dell’Italia:

 

Spirito santo ‘na sega’! Il babbo che ci sta a fare?

Anche un falegname, allora, può fabbricare da sé un figliuolo!

 

Non è improbabile che la stesura del racconto a puntate del burattino di legno sia nata da considerazioni di simile natura. L’irriverenza trova con l’allegoria il modo di avere il sopravvento creativo sulla prudenza consigliata dalla censura. Del resto, è facile constatare come l’esclusione preventiva della figura materna sia un tema dominante nella letteratura per l’infanzia, a cominciare dalla celeberrima Pippicalzelunghe, fino ai fumetti di Walt Disney, come in quelli italiani, in Popeye, e in tanti altri. L’obiettivo emancipante e liberante delle storie verrebbe meno se gli eroi mitici dei bimbi rimanessero reclusi fra le dipendenze delle mura materne.

 

 

 

Le bugie del cardinale

 

 

Negli ultimi tempi è divenuta insistente la preoccupazione di recuperare l’impertinenza del burattino di legno alla morale cristiana e cattolica, per la quale fatalità divina vorrebbe che il figlio continuasse a morire sulla croce. Nell’articolo "Pinocchio senza bugie" a cura del cardinale Biffi pubblicato nella prima pagina dell’inserto domenicale del Sole 24 Ore, tra note risapute e palesi distorsioni, si insiste nell’affermare il senso profondamente religioso del racconto. Poco importa la coerenza dell’analisi: il risultato è raggiunto con la falsa novità di una interpretazione estemporanea e con il grande rilievo giornalistico di questo articolo, non ultimo di una numerosa serie.

 

Le pubblicazioni e le interviste del cardinale e di altri esponenti clericali dimostrano con molta più chiarezza la preoccupazione di cancellare la grande, geniale, entusiasmante verità: Pinocchio è l’eroe anticristiano più limpido e convincente che sia apparso in questi duemila anni!

 

Nello scritto, lungo e articolato, si tralascia anche solo di considerare il senso dell’evidente parallelismo tra un Cristo morto sul legno della croce ed un burattino nato dal legno, generato dalla necessità di sancire il riscatto del ruolo paterno di un falegname, padre non più putativo ma artefice del proprio ruolo. Il vero successo del libro è tutto qui: nel significato neanche tanto latente di questo riscatto.

 

È una verità talmente grande da restare nascosta dietro la sua stessa evidenza.

Il rito della morte del figlio, il sacrificio disumano, e pertanto preteso divino, sadico per perversione di incapacità d’amore, che si consuma nella triade familiare (una, trina e tribale) ha connotato i due millenni di dominio cristiano sull’intero pianeta, con i suoi effetti di barbarie e di inciviltà. Nei fatti e negli effetti di una deleteria teologia degli affetti familiari.

 

Nell’apologia cattolica di Biffi Pinocchio sarebbe il quinto evangelista. La quintessenza della cristianità. Un missionario della logica del martirio nel mondo, forse antesignano dei kamikaze nella chiesa della natività. Come spiega il cardinale il fatto che mai, neppure in una riga del libro, si faccia cenno a dio e all’osservanza dei precetti cristiani? Forse che Collodi aveva bisogno di nascondere con tale omissione un pericoloso ed eversivo… sentimento filo-vaticano? No, tutt’altro. È noto e dimostrato che l’uso dell’allegoria, di cui abbondava la cronaca politica e letteraria del risorgimento italiano, è la forma di aggiramento della censura imposta dagli Stati che si contendevano la sovranità del territorio nazionale italiano. La storia ha poi registrato come lo Stato Pontificio sia stato di gran lunga il più feroce, il più ostile, il più ostinato tra quanti si siano opposti alla nascita dell’identità nazionale italiana. Il sentimento morale di Collodi non era dunque filopapalino. Al pari della celeberrima aria di Va pensiero che Giuseppe Verdi utilizzò in funzione antiasburgica, l’intenzione allegorica di Collodi non poteva che essere diretta contro lo Stato della chiesa.

 

Collodi l'ha fatta grossa, proprio sotto il naso degli inquisitori clericali, delle censure della morale concentrata sui valori dell'esproprio del ruolo paterno, sulla sottomissione della sessualità della donna all’archetipo dello spirito santo Grande Madre Chiesa, sul destino di martirio e morte del figlio.

 

Le premesse morali di Collodi sono di implicita critica al concetto di "amore cristiano" che pretende che dalla morte del figlio trucidato sul legno della croce possa scaturire una qualche forma di bene, o un qualsiasi effetto genuinamente educativo. Se questo è il bene, cosa ci si dovrebbe in proporzione aspettare dall'odio dei devoti che con coerenza si riconoscono nei precetti vaticani?  Il pensiero va inevitabilmente ai roghi crematori dell’ultima inquisizione.

 

Già nel 2000 è uscito un mio saggio su questi temi e su altre considerazioni. La sollecitazione a riflettere è passata quasi del tutto senza commenti e senza che si siano sollevate critiche a favore o contro le tesi da me proposte. Trovo tutto ciò allarmante e purtroppo un indice negativo del panorama culturale italiano. Anche le associazioni laiche, salvo isolate e discontinue eccezioni, hanno rifiutato di prendere in considerazione la portata di questa interpretazione su uno dei più significativi e atipici fenomeni letterari.

 

L’ipocrisia della curia romana ha fatto sì che l’evento, senza essere nominato, fosse definitivamente abortito da una sequela di interventi a sproposito, volutamente falsificatori della realtà storica e letteraria. Si è trattato, come al solito, di affermare il falso preventivo per tacere il vero nelle conseguenze effettive.

 

Della straordinaria attualità critica di Pinocchio si è invece accorto il regista Spielberg autore di un film bello e complesso, A.I. Intelligenza Artificiale, dove si celebra un inedito Pinocchio cibernetico, che, con la coerenza che gli è consueta, rilancia l’accusa contro l’atavica incapacità di amare di una fatina-madonna, simulacro di una bellezza sadica quanto vuota. Si tratta di una accorata, violenta denuncia contro un sistema morale, basato sul narcisismo dell’appartenenza prolungata. Dalla cattività del controllo (nella fattispecie, la grande azienda madre) la cattiveria, che inevitabilmente costruisce il suo prodotto complementare nel rifiuto e nella disperazione androgina nel figlio non-nato, perché non amato. Mai nato alla relazione umana. L’adozione di un oggetto umano è qui incapacità di elaborare una inconscia distruttività contro i figli e l’intera specie umana. Il tema dei fratelli non-nati è stato trattato dallo psicoanalista Franco Fornari. È un argomento delicato, importantissimo che nella mia esperienza di psico-oncologo si conferma da sempre legato all’insorgere del cancro e dei cicli di autodistruzione. Queste tematiche complesse meritano un ben più esteso commento.

 

È intanto opportuno segnalare l’urgenza e la necessità attuale di una critica al paradigma del sacrificio umano; non fosse altro che per smentire la previsione fosca di una propensione all’autodistruzione umana. In questo senso, è edificante rimuovere l’omertà e l’indifferenza che ancora impedisce di rivendicare il messaggio di Collodi come il più significativo, meraviglioso riscatto di liberazione e di civiltà prodotto in Italia.

 

 

 

Copyright 2004 © Sergio Martella